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SLOW WEST - Psicanalisi del western moderno

6/7/2015

1 Commento

 
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Jay Cavendish (Kodi Smit-McPhee) è un giovanissimo scozzese, idealista e romantico, deciso a intraprendere un avventuroso viaggio nei sentieri del west per ritrovare Rose (Caren Pistorius), la sua fidanzata. Durante il cammino, Jay avrà molti, fortunosi incontri, tra cui quello – fondamentale - con Silas (Michael Fassbender), un misterioso cowboy che per pochi spiccioli accetterà di accompagnare e proteggere Jay lungo la strada verso l’oggetto d’amore, perso chissà dove nelle sterminate praterie del west.

Slow West è un film psicologico e moderno, dal taglio estremamente contemporaneo in termini di scelte narrative e visive. Il regista John Maclean racconta un’idea di western che non è nemmeno più legata al mito o all’immaginario collettivo. Il west, qui, è solo una distesa, uno scenario limpido e vuoto, minimalista ovvero impersonale, che solo riempito da oggetti e figure acquista un senso e un significato.
Gli oggetti diventano l’esplicitazione, la materializzazione del pensiero dei personaggi, in una rilettura psicanalitica - si potrebbe dire junghiana - del rapporto tra uomini e simboli. Ad esempio, in una scena delle scene più simboliche, Jay viene derubato e lasciato, senza cavallo né soldi, in mezzo alla prateria. Al suo risveglio soltanto un biglietto, fermato in terra da un uovo. Il biglietto dice “west”, con una freccia a indicare non si bene quale direzione. Jay, affamato, tenta di mangiare l’uovo, ma il guscio si frantuma, lasciando il giovane interdetto a osservare il nulla che lo circonda. Poi, in terra, ecco apparire un fungo. Maclean ci propone un’inquadratura tale da rendere il fungo altissimo rispetto a Jay che, in prospettiva, sembra una miniatura. È quasi una scena à la David Lynch, che spezza la continuità dell’azione e la coerenza narrativa per imporre nel quadro dei simboli solo apparentemente estranei al contesto, tutti da interpretare.
Lo stesso disorientamento si prova nell’osservare l’entrata in scena dei personaggi secondari, i quali, come catapultati da altre realtà, invadono lo spazio del protagonista per uscirne dopo pochi minuti. Personaggi fondamentali per il percorso di crescita di Jay, ma attorno ai quali il regista non costruisce alcuna sottotrama. Essi entrano ed escono dal quadro, mostrandosi solo per ciò che sono in quel momento, perché solo in scena sembrano esistere. L’antieroe, il villain, il ragazzo, la principessa, l’indiano, il cowboy, sono solo alcuni degli archetipi di genere che arricchiscono Slow West. 
La storia si snoda tutta nell’idea di un viaggio più esistenziale che materiale, ma non propriamente iniziatico. Non sono molte le prove che il ragazzo deve affrontare, ma sono molte lezioni che può imparare. Kodi Smit-McPhee ha il viso perfetto e la giusta dose di ambiguità sessuale e identitaria per incarnare un personaggio così fragile, insicuro ma al tempo stesso temerario. Jay è forse la metafora di un genere, di un cinema, di una società appena nata e bisognosa di punti di riferimento, di mappe, di approdi. Anche in questo senso Slow West è un bel racconto di formazione. La strada del coraggio e della conoscenza passa attraverso scenari non convenzionali e tra elementi visivi del tutto inusuali. Personaggi di ogni razza, età, provenienza, entrano in scena senza apparente ragione: non hanno passato, non hanno futuro. Esistono solo in quanto si relazionano con i protagonisti, portando avanti la narrazione e fornendo spunti di riflessione. Personaggi secondari che vivono e muoiono solo per il tempo di raccontare una storia, seminare il ricordo di sé e perdersi nell’infinito.

Il western è in crisi di identità. Le praterie sono attraversate da giovani scozzesi, africani di lingua francese che suonano musica tribale, soldati, indiani, cowboy. Gli abitanti di Slow West sono al limite dell’isteria. Sono fragili, nevrotici, smarriti. Confluiscono tutti nella metaforica ricerca della principessa chiusa nel castello. La casa nel deserto di luoghi ormai depauperati, privati di ogni riferimento ma non di morale. Personaggi abbandonati a se stessi si ritrovano come in cerca di una ragione per reclamare la propria esistenza. Questo è il western post-moderno che, senza la propria identità di genere, non tenta nemmeno di ridefinirsi o ridisegnare i propri confini o la propria forma. La messinscena è destrutturata, pervade l’immagine di malinconica solitudine. Anche questo è un modo di intendere la post-modernità, come una reinterpretazione della lezione dei grandi cineasti del passato. E forse è proprio questa la sfida lanciata da coloro che tornano a confrontarsi con il western. Accanto a opere televisive che intendono riscriverne o recuperarne il senso della storia (si pensi a Deadwood, Broken Trail, Hatfields & McCoys, fino al recente Texas Rising), il cinema sembra considerare i canoni stilistici classici solo come un orizzonte necessario ma ormai lontano.
Forse Slow West, come anche The Homesman di Tommy Lee Jones, rappresenta un po’ il western del XXI° secolo: un genere che, per trovare una nuova identità, ha bisogno di creare il vuoto spaziale e temporale tra sé e il passato. Solo così possono essere gettate nuove fondamenta e si può immaginare una rinascita. In questo senso, Slow West è anche una metafora della società americana, di quella società che è stata liquida e nella quale tutti paiono essere annegati. Ci si interroga sulla natura dell’esistenza e ci si scopre tutti un po’ più soli e più insicuri, appesi gli uni agli altri, in cerca di una ragione per vivere.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regista: John Maclean
Sceneggiatura: John Maclean
Interpreti: Kodi Smit-McPhee, Michael Fassbender, Ben Mendelsohn, Caren Pistorius
Fotografia: Robbie Ryan
Musiche: Jed Kurzel
Durata: 84'
Anno: 2015
Uscita italiana: ottobre 2015

1 Commento
Gigia link
18/1/2016 12:01:54 am

Peccato non sia ancora uscito in Italia ! La data di uscita citata ( ott.2015) non è corretta.

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