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LE MERAVIGLIE - Corpi sbiaditi

21/5/2014

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Quella di Alice Rohrwacher, si è detto e scritto, è un’Italia segreta. Lontana da una certa iconografia del Bel Paese a dir poco prevedibile, in virtù della quale guardi e sai già tutto quello che ti serve sapere: contesto regionale, sociale, culturale, come se fosse una prescrizione telecomandata delle categorie umane e paesaggistiche, peggio se contemporanee e (dunque, quasi sempre) stereotipiche. Un’imposizione spesso oleografica che per lo spettatore più esigente corrisponde a una vessazione. Il film della Rohrwacher, dal titolo bello e pretenzioso, a tale palude riesce almeno a sottrarsi. Ma conferma, come se ce ne fosse bisogno, che un immaginario non inflazionato e un mondo autobiografico fortemente personale da ricreare sullo schermo non bastano a garantire un film ispirato e necessario a priori.
Quella della Rohrwacher è un’Italia bambina, una pre-adolescente rimasta ferma a un’età che coincide fatalmente con l’arcaicità di tutto ciò che sta intorno alla protagonista Gelsomina, ai suoi genitori (il padre Wolfgang, la madre interpretata da Alba Rohrwacher) e alle sue sorelle: la campagna, la ruralità candida e allo stesso tempo cruenta che influenza anche i rapporti umani, i tanti sottintesi di una terra arida e generosa insieme. Intermedia nelle apparenze, nella collocazione territoriale, nelle funzioni svolte marginalmente rispetto alla società urbana. E poi quella tv, innocente e distante, atemporale e altrettanto fanciulla. Senza sciatterie o colpi di coda trash, simile piuttosto a una fiaba agreste con tanto di fatina avvenente (la Milly Catena di Monica Bellucci).
Il primitivismo de Le meraviglie, più che una benedizione, è tuttavia uno scialbo compromesso, tra ciò che il film avrebbe potuto essere e dire e ciò che irrimediabilmente non fa e non arriva a essere. Banalmente una zavorra, più sottilmente un alibi attraverso il quale la regista si sottrae dai reali rischi di una rappresentazione pulsante, che odori in modo autentico degli umori della natura e delle sue implicazioni fisiche. Alice Rohrwacher, più che mettere in scena una favola eterea e primordiale, si incolla alle sue stesse ombre e vivacchia al loro fianco, indugiando come ad attendere uno scatto in avanti che però non sopraggiunge mai.
Il suo sguardo, come nel precedente, bellissimo Corpo Celeste, è quello pedinante di chi respira addosso alle sue creature, ma la postura qui totalmente inerte della narrazione non fornisce appigli validi e motivi d’interesse a un flusso di coscienza che vorrebbe scorrere libero e fluente come un ruscello ma s’impantana nel fango dei propri stessi obiettivi non realizzati. Se il primo film della Rohrwacher inscenava un conflitto dialettico di potenza impressionante tra la profana prosaicità della terra di Calabria e la sacralità problematica e ipocrita di riti religiosi e catechismi, qui questa forza interna manca e ciò che ne viene fuori è una deriva impalpabile, senza puntelli, senza sbocchi: il ritratto sciapo di un’adolescenza tra i campi, ordinario nel senso peggiore, che nulla a che a fare con i pregi dell’estetica del cinema del reale.
Potrebbe sembrare un film significante, Le meraviglie, nel suo incedere spoglio e timido, nel pudore naturalistico e nella sua affezione per immagini che nelle intenzioni dovrebbero essere di pura sensazione e di schietto sentimento. Il risultato, però, somiglia più a un vuoto senza peso, imprecisato più per via della sommatoria dei difetti che per netta scelta stilistica. In uno scenario così privo di steccati salutari, tutto può allora tornare utile per allungare il brodo: un dettaglio burocratico, una sprecata sottotrama (l’arrivo nella casa della famiglia di Gelsomina di Martin, ragazzo tedesco in rieducazione), perfino una trovata poeticizzante ma sfiatata: quel cammello che giunge dopo la giraffa de La grande bellezza che l’anno scorso rappresentava l’Italia sulla Croisette, a suggellare il nostro costante, pacchiano fraintendimento del fellinismo, tutto zoologico e ben poco assimilato.
Le meraviglie sarà anche dialogato in tante lingue (italiano, francese, tedesco), ma dimentica di parlare quella più importante: il codice espressivo di un’ispirazione sincera, così umile e sentita da abbassarsi al livello delle ragazzine che dovrebbe accompagnare, da immolarsi per loro. La Rohrwacher invece a questo giro sembra sacrificarsi solo sull’altare della propria compiaciuta rigidità da auteur. Una fermezza che nel finale, all’apice dell’inconsistenza, ribadisce una volta per tutte la sua natura di scialbo cinema dalle chimere autoriali da inseguire come spettri (si guardi in maniera speculare l’inizio, tutto giocato sulla presenza e l’assenza di luce) e si mette a dare la caccia ai fantasmi. Con la macchina da presa che si sposta dai corpi, resi troppo sbiaditi da una lente sul mondo non all’altezza, e va in cerca dell’aria e dei suoi misteriosi spostamenti. Una metafora perfetta del film. Ovviamente involontaria, ma straordinariamente crudele. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

Scheda tecnica   

Anno: 2014
Regia: Alice Rohrwacher
Sceneggiatura: Alba Rohrwacher
Fotografia: Hélène Louvart
Musiche: Piero Crucitti
Durata: 110’
Uscita italiana: 22 maggio 2014
Attori: Alba Rohrwacher, Sam Louwyck, Sabine Timoteo, Maria Alexandra Lungu, Agnese Graziani, Monica Bellucci.

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