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THE MONUMENTS MEN - Nazionalismo e cultura

13/2/2014

1 Commento

 
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Ispirato a una storia vera e basato sull’omonimo libro scritto da Robert M. Edsel, l’ultima fatica da regista di George Clooney era saltata agli occhi per la scelta di raccontare una storia piuttosto inusuale e sulla carta suggestiva: la ricostruzione dell’operato di un gruppo di militari dell’esercito statunitense decisamente speciale, incaricato di salvaguardare alcune opere d’arte europee non ancora costrette all’oblio dai bombardamenti e dai depredamenti nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Un soggetto stimolante, dinanzi al quale era lecito aspettarsi un’altra opera degna di nota da parte di uno degli esponenti più in vista della Hollywood radical e liberal, uno che finora dietro la macchina da presa non aveva sbagliato quasi nulla (perfino la sciocchezzuola In amore niente regole, se letta come un frizzante omaggio alla slapstick comedy, presentava i suoi tratti di godibilità).
Duole pertanto ritrovarsi davanti a un’operazione di una piattezza totale e in gran parte sconcertante, un esempio malriuscito di cinemino esile che vorrebbe essere classico senza averne né la stoffa né le prerogative. Clooney si mette addosso i baffetti alla Clark Gable e ingaggia una super squadra di attori da affiancare a se stesso, da Bill Murray a John Goodman passando per Bob Balaban e Jean Dujardin. Nessuno di loro, però, riesce a incidere. Il film è infatti zeppo di battutine non del tutto efficaci e intermezzi che lasciano il tempo che trovano, ma soprattutto di una retorica patriottarda bollita e irricevibile. Non un guizzo, né una scelta estetica rilevante o un’inquadratura che non trasudi meccanicità svogliata fin dalla composizione del piano regia, pur tenendo conto del fatto che, come ha detto Bill Murray alla presentazione del film in Italia: “George non ha fatto un film d’arte ma sull’arte”. Quello di Clooney è pero un lavoro che di arte parla poco e male, preoccupandosi solo di sbandierare al mondo la nozione rivoluzionaria secondo la quale anche gli yankee possono avere a cuore la cultura e morire per essa. E allora? Può un’ideuzza così bozzettistica e sempliciotta giustificare un film di quasi due ore?
C’è una scena, in The Monuments Men, in cui il personaggio dello stesso Murray scopre uno spazio sotterraneo enorme e lo rivela accendendo una luce. Nell’inquadratura successiva, ecco troneggiare una delle tante bandiere americane che la pellicola di tanto in tanto si concede (a riprova che è un film solo sbandierato e molto poco scritto e girato, per l’appunto). Quasi un’equazione matematica, verificata con un didascalismo da manuale aritmetico: illuminare un pezzo di storia non così conosciuto per Clooney non ha significato altro che limitarsi a intavolarlo sotto l’egida salvifica degli Stati Uniti d’America, senza preoccuparsi di imbastire intorno un discorso specifico sul problema della conservazione dell’opere nell’immaginario collettivo e nella memoria storica, sulle azioni concrete - anche non spettacolari - di cui c’è bisogno affinché un patrimonio diventi effettivamente bene condiviso attraverso il tempo.
Il suo pare una sorta di film su commissione e da Studio System trapiantato negli anni duemila, venuto male e imballato da uno strambo mestierante, sbagliato e fuori tempo massimo per definizione. Un trattatello nazionalista ed edificante tra buonismo a fiumi e sciatteria dilagante di cui ben poco si sentiva la necessità. Lo sguardo di Clooney pare qui regredito a mille miglia di distanza dagli esiti non di rado interessanti dei suoi film precedenti, come se un intorpidimento generale avesse minato tutte le fasi di sviluppo senza iniettare in nessuna di esse la giusta dose di pressione necessaria a innalzarlo fuori dalle paludi dell’insufficienza piena. C’è il rendez-vous finale col nazista da fumetto, bidimensionale e ovviamente cattivissimo come si conviene a un calligrafico disegnino, la gag stagionata e paleolitica della mina che non si sa se esploderà con protagonista Matt Damon (forse il più sottotono di tutti) e perfino la grandiosa Cate Blanchett appare qui sprecata e fuori fase come non mai, tentando di infondere al suo personaggio una tridimensionalità che il film non merita e rispetto al quale è completamente esterna e immotivata.
A coronare la dèbacle, una colonna sonora di Alexander Desplat che sembra scritta a occhi chiusi e con la mano sinistra, inutilmente enfatica e sovrabbondante, a sottolineare le parate militari e i frangenti che di tutto avrebbero bisogno fuorché di un tappeto sonoro così ingerente. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema
   

Scheda tecnica  

Anno: 2014
Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov
Fotografia: Phedon Papamichael
Musiche: Alexandre Desplat
Durata: 118’ 
Uscita in Italia: 13 Febbraio 2014
Interpreti principali: George Clooney, Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin, Bob Balaban, Hugh Bonneville, Cate Blanchett

1 Commento
Nicoletta
12/2/2014 10:09:29 pm

Eh sì caro Davide concordo con tutto quello che hai scritto e dico purtroppo perché George Clooney ha fatto film da regista rigorosi e molto interessanti mentre questo è francamento poco salvabile ... tranne qualche immagine ma che ovviamente non bastano ... la scena di quando arriva il Comandante Russo e trova la bandiera militare e fa una risatina sotto i baffi va bene se stava girando una comica con Stan Laurel e Oliver Hardy ma non in un film con queste premesse e pretese ...

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