L’assunto sembra fin troppo elementare e auto-evidente: il mondo si divide in due categorie, cioè la minoranza che detiene il potere opposta alla maggioranza assoggettata. E certamente l’ossatura del film si basa su questa dicotomia elementare, ancorché aderente all’incontrovertibile realtà dei fatti. È anche vero, però, che la riflessione condotta dal regista statunitense (1) risulta tutt’altro che schematica o superficiale, essendo in grado di sviluppare un’analisi serrata e tagliente, sebbene stemperata da ironia e corrosivo black humor, delle dinamiche perverse nonché dei cerimoniali sociali aberranti che regolano e scandiscono l’esercizio del potere da parte della cosiddetta upper class americana.
Il racconto ruota attorno al personaggio di Billy, adolescente (2) ribelle, membro di una altolocata famiglia di Beverly Hills. Anziché gustarsi i privilegi del suo status sociale, Billy mostra insofferenza verso le pratiche, le frequentazioni, i rituali collettivi e i comportamenti delle persone appartenenti al suo ceto. Egli sembra inoltre nutrire degli innominabili sospetti verso gli stessi componenti della propria famiglia, tant’è che periodicamente si sottopone a delle sedute psichiatriche presso il dottor Cleveland, per cercare di superare quelle che, a prima vista, potrebbero anche apparire come delle semplici turbe psichiche legate all’età e al suo sentirsi estraneo al proprio ambiente famigliare e sociale.
Billy convive col perenne e inguaribile timore che suo padre e sua madre non siano i suoi genitori naturali (3), che la sorella Jenny non sia sua consanguinea e che, nella casa in cui vive, avvengano infami accoppiamenti incestuosi fra i genitori e la sorella. Il tutto è giocato da Yuzna, nella prima parte del film, con la giusta, calibrata e indubbiamente derivativa dose di ambiguità, inevitabile nel modulare l’atmosfera di complotto e di paranoia in cui è calato il protagonista. Ben presto, però, ogni residuo dubbio verrà spazzato per lasciare emergere un orizzonte di verità sempre più cupo, rispetto anche alle paure più estreme del protagonista.
1) Nato nelle Filippine e alieno a qualsivoglia contatto col mondo dello showbiz, a parte l’esperienza disneyana come soggettista del film Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi (1989), Yuzna è ormai da tre decadi regista e produttore indipendente, attivissimo nell’ambito del cinema horror.
2) L’attore che lo interpreta, Billy Warlock, è in realtà quasi trentenne, all’epoca delle riprese.
3) Non è, forse, solo un caso che padre, madre e sorella siano biondi wasp anglosassoni, alti e con gli occhi chiari, mentre Billy è moro, piccolo di statura e con gli occhi scuri.
È l’amico David Blanchard a confermare e ad amplificare, se possibile, tutti i più inquietanti sospetti di Billy, allorché gli fa ascoltare un nastro su cui sono incise delle conversazioni, da lui registrate tramite dei microfoni ambientali, piazzati di nascosto nell’abitazione e sull’automobile degli Whitney per spiare le mosse di Jenny, da lui vanamente concupita. David è un mago dell’elettronica e appartiene a una classe sociale inferiore rispetto a quella di Billy, oltre a essere un suo amico di vecchia data; tutti elementi, questi, che contribuiscono a rendere ancor più credibile, agli occhi di Billy, l’inquietante verità.
Inoltre, e soprattutto, c’è l’evidenza delle voci del padre, della madre e di sua sorella che non possono lasciare adito a dubbi. Dalle conversazioni emergono riferimenti espliciti ai rituali necessari per chi, essendo già parte naturale della (high) society, (4) intenda diventarne un membro a tutti gli effetti, che prevedono un’iniziazione di tipo sessuale orgiastico, in cui l’incesto, lungi dal costituire un momento accessorio, diviene parte inevitabile e integrante della cerimonia. In più viene fatto esplicito riferimento a Billy come elemento estraneo al contesto e potenzialmente pericoloso.
4) Si noti come sia nel doppiaggio che nella sottotitolazione italiana (che riporta fedelmente il testo del doppiaggio anziché essere la traduzione dei dialoghi in inglese) la parola “society” viene sempre tradotta con “famiglia”, modificandone il senso e la portata semantica.
A partire da questo snodo narrativo cruciale, il film si sviluppa seguendo due direttrici principali e parallele: la strenua lotta fra Billy e i suoi nemici – di fatto la quasi totalità della comunità di Beverly Hills – e soprattutto il delinearsi, attraverso l’abile regia di Yuzna, del sistema di valori, di comportamenti e di usanze che scandiscono la vita e la condotta della high society americana. Mentre il primo punto viene approfondito seguendo i canoni consolidati del thriller, a parte il geniale e delirante finale e alcuni lampi di horror grottesco qua e là disseminati – senza particolari deviazioni dalle coordinate portanti del genere, a livello di sviluppo dell’intreccio – il secondo trova proprio nel finale la chiusura perfetta e geometrica del suo senso. È quindi a partire dall’analisi socio-antropologica della upper class statunitense che Society trova il suo principale motivo di interesse e, in definitiva, la sua peculiare unicità.
Attraverso una tessitura narrativa e descrittiva di estremo equilibrio ed efficacia, Yuzna individua nella famiglia – sia in senso esteso, sia soprattutto con riferimento a quella che si costituisce come prima cellula dell’organismo della classe dirigente – il fondamento cardine dell’ordine sociale in cui i giovani rampolli iniziano a formarsi sulla base del sistema di principi che costituisce l’asse portante della high society. Aderire a tale orizzonte identitario e valoriale significa sentirsi parte di una élite che, per diritto di nascita, quindi di sangue, conserva e accresce i propri privilegi, attraverso una trasmissione sostanzialmente ereditaria di titoli e cariche, in un sistema sociale fortemente gerarchizzato e radicalmente chiuso a qualsiasi intromissione delle classi subalterne. L’esatto opposto dell’american dream.
Il complotto, secondo l’accezione comunemente accettata, è l’azione cospirativa di una minoranza ai danni di una totalità, di un sistema ordinato e costituito, per minarne la solidità o ribaltarne le gerarchie. È quindi del tutto coerente, rispetto all’accezione del termine, il riferirlo all’azione di una classe sociale, il cui scopo appare quello di porsi non tanto al di fuori della legge, ma al di sopra di essa. Il problema è che, nel caso in questione, sono coloro che dettano le regole a non rispettarle o, meglio, sono coloro a cui il racconto della legalità fa comodo, solo in quanto sistema di coercizione delle masse, a servirsene.
Per certi versi, si può affermare che il vero complotto, in questo caso, è contro la sostanza dell’american dream e per la sua preservazione esclusiva come fabula, come racconto mitico e falsificante della democrazia, dell’uguaglianza e del riscatto sociali. Naturalmente, l’efficacia del complotto è direttamente proporzionale al controllo che i congiurati possono esercitare sulle componenti del sistema su cui intendono intervenire. È qui che emerge uno dei cortocircuiti innescati dal gioco del potere, il quale per preservarsi dovrebbe giungere a controllare ogni singola componente della società, ma, in quanto tale, già si trova in una condizione di controllo assoluto. Non è un caso, infatti, che in Society la polizia, l’alta magistratura, gli psichiatri, cioè coloro che controllano il corpo e la mente della società, siano al servizio o addirittura a capo dell’élite dirigente.
Il vero e definitivo momento in cui emerge la natura ferina e distruttrice del potere si ha comunque nel convulso finale in cui, come da tradizione del cinema classico americano, convergono in un unico luogo il protagonista e i suoi avversari per il confronto risolutore, ma soprattutto in cui convergono i vettori di senso del film, le cui fila verranno tirate magistralmente da Yuzna.
Billy, dopo essere riuscito a più riprese a sfuggire ai propri nemici, ritorna imprudentemente a casa, dove sta per iniziare il cerimoniale del sacrificio e dell’orgia catartica con cui i detentori del potere santificano la propria missione e celebrano la propria identità. Le vittime designate sono Billy stesso ( 5 ) e l’amico Blanchard, cioè due corpi estranei rispetto alla Società. Il sacerdote officiante è il giudice Carter, mentre il maestro di cerimonia è il dottor Cleveland. I partecipanti altri non sono che i membri dell’altolocata comunità losangelina, ( 6 ) mentre, al di fuori dell’edificio, alcuni poliziotti montano di guardia.
5) In questa sequenza emerge anche la verità sul ruolo di Billy all’interno della propria famiglia: egli non è figlio naturale della coppia, ma è stato allevato per poter essere, un giorno, sacrificato.
6) Aspetto questo che non può che richiamare alla mente il finale di Rosemary’s Baby.
È in questa lunga sequenza conclusiva, scandita dai deliranti discorsi dei celebranti, uniti all’altrettanto delirante commistione di corpi, membra, fluidi, secrezioni che si celebra l’eterno rito del potere: “Beverly Hills discende da Giulio Cesare e da Gengis Khan” dice il giudice a sancire la superiorità della razza eletta, la schiatta dei predatori e dominatori del genere umano. Gli fa eco il dottor Cleveland, che sibila a Billy: “Tu sei di una razza diversa, di un’altra specie, di un’altra classe! Non puoi essere uno di noi”.
La sequenza unisce e fonde l’atto di parola ( 7 ) – espressione della legge e dell’ordine, momento regolativo lapidario e incontrovertibile (il protagonista è legato a una specie di guinzaglio e impossibilitato a rispondere, mentre viene apostrofato beffardamente dagli aguzzini) – e l’atto sessuale, che indica il momento culminante in cui il potere sancisce il proprio dominio sul corpo delle vittime, così come la prerogativa di essere l’unico detentore del privilegio di vivere liber(tin)amente la dimensione pulsionale e infine il diritto di amministrare la sfera del sacro tramite il sacrificio, cioè il sacrum facere.
Affinché il rituale orgiastico – in cui tutti i convenuti si (con)fonderanno letteralmente in un unico mostruoso organismo lattiginoso e putrescente (8) – abbia inizio, è indispensabile la presenza di uno o più capri espiatori: ecco perché può iniziare solo dopo l’arrivo di Blanchard e di Billy. Esso decreterà, come momento cerimoniale nonché di aggregazione sociale, l’unità della Società in un unico corpo simbolico e fattuale.
7) Si tratta di uno dei segmenti narrativi più parlati del film.
8) Il merito della riuscita della sequenza va ascritta sicuramente anche a Screaming Mad George e ai suoi effetti speciali non solo estremamente efficaci, ma in grado di rendere alla lettera, potenziandola enormemente, la metafora voluta da Yuzna, cioè la costituzione corporea gommosa, posticcia e inconsistente dei rappresentanti della upper class.
Nonostante le molte suggestioni estreme evocate dalla sequenza esaminata, Yuzna non rinuncia a concedersi una conclusione beffarda e vagamente catartica, in cui il protagonista riuscirà a sfuggire ai nemici: Billy, prima di essere sacrificato, viene invitato a battersi a mani nude con Ted Ferguson, il rampollo più in vista della Society. Ted sembra avere la meglio, fino a quando Billy non decide di ricorrere, come difesa estrema, a una delle pratiche sessuali più amate dalla Società, per colpire l’avversario: l’elbow fist fucking, con cui sorprende il suo contendente (e come si potrebbe, d’altronde, non risultarne quantomeno sorpresi?) e lo rivolta, letteralmente, come un guanto. Di Ted non rimane che l’interno afflosciato del suo corpo dissolto, purulento e cosparso di vermi. La metafora è chiara.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Into The Pit
Scheda tecnica
Titolo originale: Society
Anno: 1989
Durata: 94’
Regia: Brian Yuzna
Soggetto e sceneggiatura: Woody Keith, Rick Fry
Fotografia: Rick Fichter
Musiche: Mark Ryder, Phil Davies
Montaggio: Peter Teschner
Effetti speciali: Screaming Mad George
Interpreti principali: Billy Warlock, Ben Meyerson, Ben Slack, Devin Devasquez, Tim Bartell