“Tecnicamente, sì”
Berberian Sound Studio, tuttora inedito da noi (salvo la partecipazione al Noir Fest di Courmayeur lo scorso dicembre), è il secondo lungometraggio del britannico Peter Strickland, già autore del pregevole Katalin Varga (2009), dramma sul tema della vendetta che aveva dato un primo assaggio del suo notevolissimo talento visivo. Un innato dono per l’immagine che si esprime appieno in quest’opera a metà tra l’exploitation e la cultura alta, con un titolo che è omaggio al mezzosoprano Cathy Berberian, figura importantissima del panorama musicale contemporaneo e moglie di Luciano Berio.
È proprio da un’opera d’avanguardia dei due coniugi, Visage, strutturata, per usare le parole stesse del regista, in “17 minuti di ululati”, che nasce uno dei concetti chiave del film, ossia l’ecletticità dell’elemento sonoro nel cinema orrorifico. Da qui, le definizioni di "alto" e “basso” che si mescolano: citando ancora una volta Strickland, nel giallo italiano anni ’70 (che Berberian Sound Studio non soltanto omaggia, ma disseziona in modo quasi fisico) era prassi comune trovare compositori d’avanguardia (Berio, ma soprattutto Bruno Maderna, che lavorò con nomi come John Cage e scrisse lo score per La Morte Ha Fatto L’Uovo di Giulio Questi), dando dunque al suono un ruolo cardine, a volte preminente rispetto alle immagini stesse.
Il film trova il suo fulcro nel mostrare ciò che solitamente viene tenuto nascosto, l’anima uditiva del corpo filmico: il mite e impacciato ingegnere del suono Gilderoy (uno strepitoso Toby Jones), giunge nell’Italia degli anni ’70 dal Regno Unito per lavorare a un film horror, Il Vortice Equestre, del regista Giancarlo Santini (un efficace Antonio Mancino) e prodotto da Francesco Coraggio (ottimo e credibile Cosimo Fusco); Santini e Coraggio incarnano lo stereotipo dell’industria italica del giallo/horror di quegli anni, o per meglio dire, di come essa veniva (e viene) percepita all’estero: sbruffoni, maleducati, viscidi con le attrici e con i colleghi. Un campionario di certo non lusinghiero e per molti versi eccessivo, un po’ troppo manicheo nel dipingere ritratti esageratamente a tutto tondo. Pecca in ogni caso perdonabile, poiché il duo regista/produttore funziona in modo efficace nel suo rappresentare la forza di contrasto a Gilderoy, disorientato e intimidito da un ambiente così dissimile al suo, vero e proprio vortice di volti e voci nel quale si ritrova risucchiato tra ostilità, indifferenza e qualche sporadico gesto amichevole.
Berberian Sound Studio, claustrofobico nel suo svolgersi quasi interamente all’interno della sala di registrazione, si snoda, criptico e sinuoso, attraverso il lavoro di sonorizzazione della pellicola di Santini, che non ci viene mai mostrata (solo i protagonisti la visionano, in fase di doppiaggio) ma alla quale assistiamo dal punto di vista unicamente sonoro, eccezion fatta per i titoli di testa (quasi inutile menzionare l’omaggio Argentiano) che sostituiscono quelli del film di Strickland: nessuna delle due opere contiene o mostra l’altra, esse si mescolano in continuazione. Parlare di metacinema (o metacinema sonoro, in questo caso) sarebbe dunque inesatto, perché si tratta di un’opera a due facce, solo apparentemente diverse in quanto parte del medesimo corpus.
Nel corso del narrato l’ambiguità cresce, tutto diviene sempre più confuso, al punto da faticare a distinguere i nomi dei personaggi di Berberian da quelli del film di Santini: volti che sono soltanto la trasposizione fisica di voci, urla (notare il cameo di Suzy Kendall alle prese con un grido), sussurri, terrificanti maledizioni stregonesche o agghiaccianti preghiere. La confusione pervade la mente di Gilderoy e il confine tra realtà e finzione diventa sempre più labile: il Vortice Equestre racconta di stregoneria e Inquisizione, la brutalità di ciò che scorre su quello schermo e a cui non ci viene permesso di assistere (ma verso il quale non nutriamo curiosità, poiché il senso dell’udito è pienamente soddisfatto e compensa la mancanza della vista) entra nell’anima del protagonista proprio attraverso i suoni che egli produce, mediante le care vecchie tecniche rumoristiche a base di verdure schiantate al suolo, accoltellate, maciullate.
Una delle sequenze chiave dell’opera vede Gilderoy alle prese con la riproduzione dell’audio di una tortura particolarmente cruenta: davanti a un pentolone con acqua bollente, l’uomo si identifica con l’aguzzino e crolla, rifiutandosi di proseguire. È l’inizio di una china discendente, una consunzione mentale e fisica che troverà il suo climax in una scena precisa, sorta di confine tra due spazi e tempi narrativi, demarcata da una “bruciatura di sigaretta” su un fotogramma.
Rimangono molti quesiti nella mente dello spettatore, alimentati da un finale aperto e da una seconda parte che fomenta ulteriormente il senso di spaesamento: Berberian Sound Studio è pellicola enigmatica, simbolica e liberamente interpretabile, opera a tratti squisitamente onirica e visivamente magnifica (eccelsa la fotografia firmata da Nicholas D. Knowland), in cui il suono, vero protagonista, si sposa alla perfezione a immagini essenziali, primissimi piani, dettagli ravvicinati che compongono il mosaico di uno dei film più peculiari degli ultimi anni. Notevolissimo (e non poteva essere altrimenti) lo score, firmato dalla band indietronic dei Broadcast, con le performance vocali della cantante Trish Keenan, al suo ultimo lavoro prima della prematura scomparsa avvenuta nel 2011.
Berberian Sound Studio difficilmente vedrà una distribuzione nel nostro Paese, cosa che purtroppo non stupisce, ma resta senza dubbio una delle opere più interessanti degli ultimi anni, collocando Strickland tra i nomi più promettenti del panorama cinematografico europeo.
Chiara Pani
Sezione di riferimento: Into The Pit
Scheda tecnica
Titolo originale: Berberian Sound Studio
Anno: 2012
Regia: Peter Strickland
Sceneggiatura: Peter Strickland
Fotografia: Nicholas D. Knowland
Musiche: Broadcast
Durata: 92’
Uscita in Italia:
Interpreti principali: Toby Jones, Cosimo Fusco, Antonio Mancino, Fatma Mahmed , Suzy Kendall