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BEGOTTEN - La creazione oscura

21/5/2013

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Begotten, pellicola del 1991 e opera prima di E. Elias Merhige (qui accreditato come Edmund E. Merhige), conosciuto grazie a titoli come L’Ombra del Vampiro e Suspect Zero, è film ostico, respingente; lo si potrebbe definire anti-cinematografico. Spesso etichettato come sperimentale, snob ed elitario, per il suo essere in apparenza privo di una qualsivoglia volontà di comunicazione, è in realtà oggetto estremamente peculiare, vera sfida per lo spettatore, spesso tentato di interrompere la visione dopo i primi minuti: se si va oltre l’impulso di allontanarsi da ciò che non si riesce a comprendere, si assiste allo schiudersi di un’opera realmente diversa da ogni altra, che non vuole piacere e non usa l’immagine in modo seduttivo, bensì sottopone a una prova, una sorta di “iniziazione” verso una forma di linguaggio filmico che trova nel simbolico la sua modalità espressiva primaria.
È proprio dal punto di vista linguistico che Begotten, a primo acchito incomprensibile, ci offre una chiave interpretativa, nelle due didascalie iniziali: “Portatori di linguaggio, fotografi, scrittori di diari, Voi con le vostre memorie siete morti, congelati. Persi in un presente che non smette mai di trascorrere. Qui vive l’incanto della materia. Un linguaggio in eterno”. E ancora: “Come una fiamma che brucia via l’oscurità, la vita è carne su ossa che si contorce al suolo”. Parole anch’esse criptiche, chiuse, che lasciano perplessi ma acquistano un senso, se rilette dopo la visione; un significato la cui comprensione è puramente soggettiva, variabile a seconda dell’atteggiamento mentale e, soprattutto, dell’inconscio di chi guarda. All’ Es, infatti, si rivolge il film di Merhige, scavalcando le sovrastrutture dell’ Ego e del vedere standardizzato, incoraggiando così un approccio passivo, una sorta di stato di semi-coscienza, necessario per accogliere nel modo più completo possibile un flusso di immagini che verrebbe altrimenti rifiutato a livello razionale.
Begotten, ossia il participio passato di to beget, generare, creare: una Creazione oscura e macabra, violenta fino al limite della sopportazione, un anti-narrato che scombussola e crea disagio, proprio in virtù del suo essere slegato da un qualsiasi filo logico evidente e manifesto. I credits finali svelano le identità nascoste dei personaggi, figure mascherate che agiscono al di fuori di ogni tradizionale unità di tempo e luogo, mostrate in un bianco e nero sporchissimo, sgranato, talmente saturo e sovraesposto da far risultare le immagini talvolta non facilmente distinguibili; non vi sono dialoghi né score, soltanto suoni della natura ripetuti in un loop alienante.
La violenza, si diceva: estrema, dilatata, quasi intollerabile poiché non motivata, bensì scagliata nuda e cruda sullo sguardo; a fine film, nello scorrere dei titoli di coda, riusciamo a identificare ciò che abbiamo visto, a dargli un nome, ed è proprio in quel momento che Begotten sceglie di dischiudersi, invogliando alcuni a una seconda visione che è quasi d’ obbligo, al fine di rileggere il testo filmico sotto una luce più definita. Colui che vediamo sbudellarsi nell’incipit è Dio, la donna che ne viene generata e si auto-insemina col suo sperma è Madre Terra, e il ragazzo brutalizzato ne è il Figlio, quella “carne su ossa” che si contorce, torturata e seviziata, al suolo.
Archetipi potentissimi, che non potevano venire rappresentati in modo classico: il viaggio allucinatorio, quello che a un occhio distratto è solo un’accozzaglia di immagini prive di senso, reca in sé un significato trascendentale, un vero e proprio rituale iniziatico che è pugno nello stomaco per coscienze troppo avvezze a linguaggi chiari e spesso carichi di fronzoli. Ogni minuto di film ha richiesto un lavoro di post-produzione di circa dieci ore, al fine di snaturare il visivo da ogni residuo di realtà: otto mesi di elaborazione finale per 78 minuti di pellicola, una durata per alcuni interminabile, per altri fascinosa e mesmerizzante.
Begotten è l'opera ostica per eccellenza. Non ammette mezze misure e, soprattutto, non pretende di essere compresa. Com’è noto, Merhige si dirigerà successivamente su lidi più limpidi e sicuri, con risultati alterni; ci si trova dunque a rimpiangere il coraggio estremo di un esordio così inconsueto.

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Begotten
Anno: 1991
Regia: E. Elias Merhige
Sceneggiatura: E. Elias Merhige
Fotografia: E. Elias Merhige
Musiche: Evan Albam
Durata: 78'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Brian Salzberg, Donna Dempsey, Stephen Charles Barry

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THE THEATRE BIZARRE - Frammenti d'orrore

9/5/2013

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Gli horror a episodi hanno sempre avuto un discreto fascino in ambito produttivo, ottenendo spesso buoni riscontri da parte degli appassionati. Il sottogenere ha conosciuto un momento di ricchezza negli anni Sessanta, sciorinando opere discontinue ma non prive di momenti d'interesse, tra le quali possiamo senz'altro ricordare Tre Passi nel delirio (con l'indimenticabile Toby Dammit di Fellini), Il giardino delle torture, i Racconti dalla tomba e Le cinque chiavi del terrore, questi ultimi tutti diretti dallo specialista in materia Freddie Francis. 
Dopo un momento di appannamento, le antologie horror hanno rialzato la testa negli anni Ottanta, grazie soprattutto al bellissimo Creepshow della premiata ditta Romero/King, per poi scomparire nell'oblio, mantenendo alte quote soltanto in terra asiatica (il notevole Three... Extremes e diversi prodotti thailandesi), e ricomparire con prepotenza in questi ultimi anni. Da almeno un lustro infatti le miscellanee sono tornate a occupare un posto di rilievo, con lavori segnati da una forte incostanza interna e caratterizzati da risultati complessivi talvolta discreti (l'inglese Little Deaths) talvolta mediocri (l'ossessivo ed estenuante V/H/S).
Oggi ci occupiamo dell'ennesima raccolta a tinte oscure, realizzata nel 2011, transitata con alterne fortune in numerosi festival di genere e (ovviamente) rimasta inedita in Italia: The Theatre Bizarre, produzione americana con sei cortometraggi diretti da diversi registi e un intermezzo spezzettato a unire i vari episodi, ambientato tra le fosche e affascinanti tinte del Teatro Guignol, in cui una ragazza dalla platea assiste a uno spettacolo in cui un uomo-marionetta (Udo Kier) presenta le sanguinarie storie che di volta in volta compongono l'antologia.
Nel primo episodio, The Mother of Toads, un ragazzo effettua un viaggio a Parigi alla ricerca di segreti riguardanti il Necronomicon lovecraftiano, salvo poi imbattersi in una maledizione radicata nella notte dei tempi. La direzione è affidata a Richard Stanley, in passato autore di cult come Hardware e Dust Devil (Demoniaca nella versione nostrana). Nonostante il nome di riferimento lasciasse presagire un buon risultato, il corto di Stanley risulta il peggiore del lotto: fiacco, banale, approssimativo, con soluzioni logistiche d'infinita prevedibilità. L'unico motivo d'interesse risiede nella (sprecata) presenza di Catriona MacColl, indimenticabile protagonista dei capolavori fulciani Paura nella città dei morti viventi, L'aldilà e Quella villa accanto al cimitero. Ma lei da sola non basta a salvare il naufragio.
Il secondo segmento, I Love You, è invece diretto da Buddy Giovinazzo, nel 1984 regista del cult Combat Shock, il più “serio” lavoro mai prodotto dalla Troma, un film rivestito da una terribile dose di atavica e corrosiva malinconia. Anche sulla breve distanza l'italo-americano conferma le linee-guida della sua pellicola più conosciuta, dipingendo una dolente storia di abbandono e solitudine, destinata inevitabilmente a sfociare nella tragedia. Costruito con mano sicura, l'episodio si lascia apprezzare per la solidità stilistica che lo caratterizza, salvo però chiudersi con un finale non abbastanza incisivo.
A seguire, arriva il mitico Tom Savini, nella doppia veste di attore e regista per Wet Dreams, episodio che si apre con una ragazza quasi nuda che volteggia come una libellula chiamando all'amore il fidanzato. Quasi una dichiarazione d'intenti, peraltro non suffragata dal proseguimento del racconto, che si evira (in tutti i sensi) in un giochino a incastro tra sonno e veglia, sulle orme del torture porn più tradizionale e pedestre.
Siamo a metà della visione, e quando ormai appare chiaro come il livello dell'antologia non sia propriamente esaltante, arriva il gioiello che ne risolleva appieno le sorti: The Accident, diretto dal semi-debuttante Douglas Buck, montatore di Offspring e Territories ma alle prime armi dietro la macchina da presa. Nel segmento, una bambina riflette con la propria madre sul senso della vita e della morte, poche ore dopo aver assistito a un incidente in cui un motociclista è rimasto ucciso. Nonostante lo scarso minutaggio, il lavoro di Buck colpisce a fondo per l'atmosfera nostalgica e dotata di sorprendente sensibilità che lo ricopre, ricordando da vicino il bellissimo Wendigo di Larry Fessenden; una ninna nanna con i colori dell'infanzia, quasi sacrale, in cui si scontrano note di speranza e disarmonie di orrori imparati troppo presto, alla ricerca del significato di un'esistenza giovane ma già matura. “Mamma, perché dobbiamo morire?” chiede la bimba. “Per lasciare posto agli altri”, risponde la madre. “Ma finché siamo in vita, dovremmo solo farci del bene”. Banale? Forse, ma anche emozionante.
Il quinto episodio, Vision Stains, è diretto da Karim Hussain, famoso nell'ambiente per aver realizzato una dozzina di anni fa il violentissimo (e insopportabile) Subconscious Cruelty. Protagonista della vicenda una ragazza, che uccide altre donne consumate da tristi esistenze, con l'obiettivo di estrarne dalla mente i ricordi, così da riportarli sul suo diario e conservarli in eterno. Intrigante sulla carta, il frammento risulta però un po' troppo confuso, e come nella sua opera più rinomata (?) Hussain dimostra di avere la fastidiosa tendenza a blandire le sue capacità nell'eccessiva ricerca formale e stilistica.
A chiudere il Teatro degli orrori arriva Sweets, diretto da David Gregory, specialista in documentari e videoclip ma quasi vergine nei riguardi della fiction. Il suo ritaglio, dedicato a una coppia in perenne bulimia, sfrutta estetica lollipop e derivazioni kitsch per dare vita a un guazzabuglio disgustante e appiccicoso, che sfocia in una zuccherosa orgia antropofaga non troppo lontana dalla memorabile suzione dei corpi del Society yuzniano. Eccessivo e ridondante, risulta comunque un corto divertente e non privo di discrete intuizioni, a confermare come in The Theatre Bizarre, a conti fatti, i frammenti migliori risultino quelli degli autori meno conosciuti: d'altronde, come quasi sempre accade, il successo sta nelle idee, non nell'aprioristica fiducia al “nome” coinvolto.
Incasellando l'ultima scena di morte le marionette del Guignol intanto ci salutano, pronte a dirigere altrove le loro storie dannate.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Into The Pit


Scheda tecnica

Regia: Jeremy Kasten, Richard Stanley, Buddy Giovinazzo, Tom Savini, Douglas Buck, Karim Hussain, David Gregory.
Attori principali: Udo Kier, Catriona MacColl, André Hennicke, Suzan Anbeh, Tom Savini, Lena Kleine, Kaniehtiio Horn, Lindsay Goranson.
Anno: 2011
Durata: 114'

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THE BAY - Morte di una nazione

10/4/2013

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Ci voleva la classe di un veterano come Barry Levinson, classe 1942, per ridare linfa vitale al found footage: un sottogenere nato dalle ceneri di The Blair Witch Project, o, se si preferisce, da quelle del ”famigerato” e oramai storico Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Un fenomeno, questo dei P.O.V. (Point Of View, o handycam movies), che negli ultimi anni si è dimostrato come una delle galline dalle uova d’oro del cinema americano contemporaneo, soprattutto in ambito strettamente horror. 
Ma non è tutto oro quel che luccica, dal momento che buona parte dei titoli prodotti si sono rivelati una stanca reiterazione di idee e stilemi all’acqua di rose, figli di un pensiero di cinema quantomeno povero e abusato. Con qualche (ottima) eccezione: il capolavoro romeriano Diary of the Dead innanzitutto, vera e propria messa in scena di uno scacco cognitivo dinanzi alla frammentazione delle immagini, un saggio teorico sull’impossibilità di dare una rappresentazione compiuta al Reale che ci circonda; ma anche, in maniera minore, i pur ottimi [REC] di Jaume Balaguerò e Chronicle di Josh Tank. 
The Bay si muove all’interno delle medesime coordinate, ma anziché affrontare il genere attraverso la lente della riflessione teorica, preferisce puntare dritto ai contenuti: il virus non è più l’immagine (come in Diary of the Dead), bensì è dentro di noi, radicato all’interno della nostra comunità (società); agli occhi – telecamere, cellulari, skype e quant’altro – non resta quindi che registrarne le conseguenze. Barry Levinson utilizza così le moderne tecnologie per guardare innanzitutto al cinema del passato: da Lo squalo di Steven Spielberg al grande horror politico degli anni Settanta e Ottanta, quello che si trasformava in punto vista sporco e deformante della realtà sociale di tutti i giorni. L’horror scomodo, non riconciliato, lontano dalle mode del pensiero dominante: l’horror che si poneva innanzitutto l’obiettivo di raccontare l’Uomo e la fragilità delle infrastrutture da lui create.  
E al passato The Bay ci guarda davvero: un film dove tutto è già successo, qualche anno fa, in una località costiera del Maryland. Un piccolo porto marittimo dove le famiglie si recano in vacanza per festeggiare il 4 luglio, una sorta di isola felice in cui l’americano medio ripone tutta la fiducia e la speranza insite nel celeberrimo sogno del Grande Paese. Ma è un sogno che a poco a poco assume le sembianze di un incubo: il livello di tossicità delle acque, causato dalle scriteriate politiche aziendali del luogo, genera un parassita che comincia a prendere il controllo delle persone, trasformando la festa nazionale in una mattanza incontrollata. Oggi, a distanza di qualche anno, un’aspirante giornalista sopravvissuta ai fatti tenta di mettere insieme le testimonianze di quella giornata, grazie all’utilizzo di tutto il materiale audiovisivo rinvenuto.
The Bay diventa così il racconto della disfatta di una Nazione, divorata al suo interno proprio nel momento di massimo splendore, quello in cui si appresta ad autocelebrare se stessa (la festa dell’indipendenza): per la prima volta nella sua carriera, Levinson usufruisce degli stilemi dell’horror per dipingere un affresco nero e pessimista dell’America, governata da un caos strisciante che dilaga liberamente senza che nessuno riesca a porvi rimedio. Ed è un caos che nasce dall’interno: nessuna minaccia terroristica, nessun intervento esterno; il cancro è già insito dentro di noi, irrimediabilmente. Attraverso il cinema, non si può far altro che mettere in scena l’inarrestabile proliferare delle metastasi. 
Utilizzando le caratteristiche proprie del found footage, The Bay effettua il disperato tentativo di far vedere ciò che non esiste, ciò che non è stato mostrato: un passato (seppure molto prossimo), raccontato attraverso gli strumenti del futuro digitale; è in questa contraddizione che risiede il cuore del film, permeato di una visione apocalittica su un mondo, il nostro, che non morirà per mano degli alieni o altro. Semplicemente, finirà quando non rimarrà più nessuno in grado di vedere.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: The Bay
Anno: 2012
Regia: Barry Levinson
Sceneggiatura: Michael Wallach
Fotografia: Josh Nussbaum
Musiche: Marcelo Zarvos
Durata: 84’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Kristen Connolly, Anthony Reynolds, Kether Donohue, Christopher Denham.

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CARNIVAL OF SOULS - L'incubo invisibile

8/4/2013

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Realizzato nel 1962 e diretto da Herk Harvey, Carnival of Souls uscì con una destinazione ben definita: il circuito dei drive-in, in cui erano proiettati B-Movies a basso costo, spesso con un double bill nel corso della stessa serata. Il lavoro di Harvey, per le caratteristiche che tra poco andremo a spiegare, non ottenne però un gran successo: sparì quasi subito dalla programmazione, e venne dimenticato a lungo, prima di essere recuperato, restaurato e redistribuito in sala nel 1989. Un oblio eccessivo, che non rende merito a un film interessante, inquietante, capace di anticipare soluzioni narrative che sarebbero poi state riprese in abbondanza da molte pellicole uscite nei lustri a venire.
La trama ruota intorno alla figura di Mary, organista che un giorno subisce un brutto incidente d'auto, precipitando nel lago insieme alle amiche. I soccorritori la credono morta, ma quasi per miracolo Mary riemerge dalle acque, sana e salva. Poco dopo la ragazza si dirige verso una piccola cittadina dello Utah, dove è stata assunta per suonare l'organo nella Chiesa locale; giunta sul posto, inizia però a essere preda di angoscianti visioni e inspiegabili allucinazioni che la inducono progressivamente a perdere contatto con la realtà.
Attraverso scelte stilistiche coraggiose e non proprio adatte al pubblico di massa, Harvey opta per una messinscena lenta, ipnotica, melliflua, costruita allo scopo di immergere con gradualità lo spettatore nei sentieri incubali di cui è vittima la sua protagonista. 
Figura di donna misteriosa e seducente, Mary naviga su territori assai lontani rispetto a molte eroine dell'horror: anziché cercare il contatto umano quale primaria fonte di salvezza, la ragazza compie un percorso opposto, rifiutando ogni aiuto, in una disperata dimostrazione di forza ed emancipazione: sdegnata dall'amore fisico e spirituale abbraccia la sua solitudine, scivolando passo dopo passo nelle spire del terrore in una malcelata e sorprendente misandria (ovvero l'avversione istintuale verso il genere maschile). 
Eppure, poco alla volta, l'indipendenza di un'anima alla continua ricerca dell'affermazione di sé non può che crollare di fronte all'incedere traumatico degli eventi: Mary è preda di deliri sempre più frequenti, vede ombrose figure di uomini in stato cadaverico, crede di essere inseguita e perseguitata, e giunge fino al punto di "smaterializzare" il proprio corpo, entrando in una dimensione parallela in cui, oltre a smarrire l'udito, risulta lei stessa invisibile al resto dell'umanità. Soltanto a quel punto si decide a cercare conforto presso il vicino di stanza che le fa la corte; ma forse sarà troppo tardi.Per rispetto nei confronti di chi non avesse visto il film, evitiamo di svelare la risoluzione dell'enigma; anticipiamo solo, come già accennato, che l'idea principale sarà poi ripresa nel cinema contemporaneo da pellicole famosissime (e talvolta assai sopravvalutate). Un pregio notevole per Carnival of Souls, e non il solo: pur con qualche lentezza eccessiva, infatti, il lavoro di Harvey si avvale di soluzioni visive strepitose (l'uscita iniziale di Mary dall'acqua con i piedi immersi nel fango, le improvvise apparizioni dei suoi inconcepibili persecutori, la totentanz a velocità accelerata nel luna park abbandonato), e si dota di una protagonista, Candance Hillgoss, azzeccata e funzionale nella sua interpretazione oscillante tra risolutezza, ingenuità, candore e spasmi di terrore. Notevole, inoltre, l'utilizzo del sonoro, grazie al quale si crea una mescolanza di musiche diegetiche ed extradiegetiche: una sinfonia complessa e stordente, che accompagna le sinestesie dominanti nella seconda parte dell'opera.
Ubriacante, tagliente, beffardo, polanskiano ante-litteram, Carnival of Souls costituisce un bell'esempio di horror low budget, in cui nascondere le eventuali pecche strutturali attraverso le idee e la fantasia. 
Nel 1992 è uscito un insulso e inutile remake, prodotto da un Wes Craven che già allora stava imboccando la strada del successivo stordimento senile. L'originale in bianco e nero è invece da non perdere.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Carnival of Souls
Anno: 1962
Regia: Herk Harvey
Sceneggiatura: John Clifford, Herk Harvey
Fotografia: Maurice Prather
Musiche: Gene Moore
Durata: 84'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Candace Hilligoss, Sidney Berger, Frances Feist, Art Ellison

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