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JIMMY P. - Le strade perdute della parola

24/3/2014

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Oggetto di pesanti critiche e incomprensioni, Jimmy P. è stato considerato una delle più grandi delusioni del concorso dell’ultimo festival di Cannes. Una sorpresa amara per tutti i fedeli ammiratori di un regista, Arnaud Desplechin, mai incline al compromesso e sempre portavoce di uno sguardo unico e mai convenzionale sulla realtà delle cose. E le premesse di questa sua ultima fatica, effettivamente, sembravano costruite appositamente per trarre in inganno: tratto dal saggio Psychothèrapie d’un Indien des planes, dello psicanalista e antropologo Georges Devereux (qui interpretato da Mathieu Amalric), Jimmy P. è il primo film in lingua inglese del regista e il primo realizzato in territorio statunitense. 
Un connubio mai facile, quello tra cinema e psicanalisi, volto molto spesso a semplificare una materia enormemente complessa a vantaggio della spettacolarizzazione delle emozioni, come a voler scegliere sempre e comunque il tragitto più facile e breve per arrivare a destinazione. In realtà il film di Desplechin non sembra affatto intenzionato a ripercorrere quei sentieri già ampiamente battuti da altri in precedenza, anche se, per la prima volta nella sua filmografia, oggi sembra palesarsi maggiormente uno scarto tra le intenzioni e il risultato finale. Ma andiamo con ordine. 
Il film racconta il rapporto che viene a formarsi tra Jimmy Picard, un indiano della tribù dei Piedi Neri, e lo psicanalista chiamato a seguire il suo caso. Siamo nel Kansas del 1948: Picard è un reduce della Seconda Guerra Mondiale che, come molti altri, è ritornato in patria accusando diversi malesseri dei quali i dottori non riescono a trovare spiegazione. Il percorso di cura intrapreso da Devereux porterà alla scoperta dell’origine dei suoi traumi, ma allo stesso tempo servirà anche allo psicanalista per imparare a comprendere meglio una parte di sé. 
Desplechin è abile nell’evitare le trappole del film di ambientazione ospedaliera, cercando continuamente una via nuova al genere: per fare questo, continua in quell’opera di trasfigurazione del narrato che da sempre è costante del suo cinema. Senza mai eccedere in sperimentazioni teoriche, anche Jimmy P. è un film che fa del confronto/scontro tra entità diverse il perno intorno al quale svilupparsi e crescere, attraverso la funzione della parola. E non potrebbe essere altrimenti, poiché tutto si muove entro i confini di una situazione specifica e ben definita come appunto può essere una seduta psicanalitica. Ma è un film che esce sempre dai confini dell’ospedale, che viaggia sempre sull’onda evocata dai dialoghi tra i protagonisti, per vivere in una dimensione che travalica la prigione dei luoghi fisici per assumere sembianze proprie. 
Non è una biografia, innanzitutto, nonostante quella didascalia in apertura (“tratto da una storia vera”) tenti in tutti i modi di portare lo spettatore fuori strada. È un viaggio, in fin dei conti. Un road movie tutto interiore che trova nel linguaggio la propria strada, le proprie lost highways sterminate sulla quali correre e perdersi. Jimmy P. è il racconto di una presa di coscienza (anzi, di due) che avviene attraverso la trasformazione della parola in immagine, attraverso un dualismo che permette all’inconscio e alla personalità di emergere e di affermarsi completamente grazie all’incontro, all’avvicinamento con l’altro. E lo fa utilizzando gli strumenti del cinema classico, con una narrazione squisitamente pacata e con una sensibilità tutta personale nell’utilizzo degli spazi. Guardando tanto a Truffaut (impossibile non pensare a Il ragazzo selvaggio) quanto a John Ford, e infatti non è certamente un caso che, a un certo punto, i protagonisti si ritrovano al cinema a guardare Alba di gloria. 
Forse però tutto questo non ci basta, è vero: forse ci dovremmo sentire in dovere di chiedere qualcosa di più a Desplechin. Forse, per la prima volta, questo suo viaggio interiore a tratti ci appare quasi meccanico, mai inedito, già visto. Forse avremmo preferito correre liberamente anche noi in quelle praterie, come fa il giovane Jimmy nei ricordi evocati attraverso la seduta; invece è un piacere che ci viene quasi negato. Perché il tentativo, in parte riuscito, di evadere dalla struttura asfissiante dell’ospedale dà l’impressione di una prova incerta e soffocata, colpevolmente sospesa tra il desiderio di sperimentazione e l’aderenza a un classicismo negato ma pur sempre all’erta. 
Ma se questo dovesse significare ignorare completamente il film o, peggio, bollarlo sbrigativamente senza riconoscerne le qualità, allora preferiamo schierarci apertamente entro le fila dei sostenitori. Con riserva, ma pur sempre entusiasti.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Jimmy P. (Psychotherapy of a Plains Indian)
Anno: 2013
Regia: Arnaud Desplechin
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Kent Jones, Julie Peyr
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musiche: Howard Shore
Durata: 117’
Interpreti principali: Benicio Del Toro, Mathieu Amalric, Gina McKee, Larry Pine, Gary Farmer, A Martinez

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