In questo caso abbiamo il volto in primo piano di una donna che canta, mentre gli altri musicisti rimangono sfocati in fondo all’immagine, indistinguibili e non riconoscibili (il gruppo, originario di Manchester, si chiama The Retrosettes Sister Band ed esegue You got the Love, cover dei Florence + The Machine). Intuiamo però che la band sta suonando su una pedana girevole, posta all’interno del giardino del lussuoso hotel sulle Alpi in cui il film è ambientato, perché le facce fuori fuoco che sono in campo cambiano e si susseguono una dopo l’altra alle spalle della cantante.
Youth è già tutto qui: un film in cui c’è sempre qualcuno o qualcosa (un personaggio-maschera, una situazione ironica o paradossale, un virtuosismo registico e fotografico) in primo o primissimo piano che, a seconda dei casi e delle circostanze, ruba la scena al resto, focalizza su di sé tutta l’attenzione, declama, tira fuori frasi sentenziose e massime apodittiche, si pone in direzione dei riflettori e si gode il suo momento di gloria, di sequenza in sequenza e di scena madre in scena madre. Chi in quell’istante non è sotto le luci della ribalta, perché non tutto può essere illuminato contemporaneamente dal faro principale, nemmeno nel cinema saturo e sovraccarico di Paolo Sorrentino che tutto abbraccia e frulla insieme, non fa altro che osservare quanto accade a due passi da sé in modo talvolta partecipe ma più spesso distaccato, tra vago interesse e amaro disincanto. Resta sfocato e distante, proprio come i musicisti della prima inquadratura che osservano la propria frontman cantare, mentre la pedana gira su se stessa e ruota vorticosamente, esattamente come il film del quale essa è a conti fatti una metafora plastica e un simbolo perfetto.
I personaggi del settimo film di Sorrentino sono tutti osservatori e allo stesso tempo osservati, delle creature circensi e artefatte ora tacite ora sproloquianti, ora seminascoste nell’ombra ora intente a pontificare sui massimi sistemi e sulle proprie vite con la sicurezza di chi sa guardarsi dentro con affilata e disarmante onestà ma, come il regista, proprio non sa rinunciare a una certa autoindulgenza. Il loro buen retiro nell’albergo svizzero in cui risiedono è tutto all’insegna dello spiare gli altri e dell’essere adocchiati da chi sta loro accanto, non per voyeurismo ma perché solo provando a intuire da lontano i sentimenti altrui si può riuscire a fare i conti in modo più schietto con se stessi, con le proprie aspirazioni messe a dura prova dal tempo che passa e dai bilanci obbligati di carriere e percorsi artistici giunti in un modo o nell’altro al capolinea e costretti a scendere a patti con l’autunno - o forse con l’inverno, vista l’ambientazione - dell’esistenza. Una sorte crepuscolare che, emblematicamente e non casualmente, caratterizza tutti i personaggi di Youth. Dei guardoni, sì, ma tutto sommato piuttosto bonari.
Il divo californiano interpretato da Paul Dano sbircia la quotidianità di Fred Bellinger, il compositore impersonato da Michael Caine; quest’ultimo e il regista Mick Boyle (Harvey Keitel), durante i pasti, si soffermano di continuo su una coppia di vecchi che non spiccica una parola; la figlia di Fred (Rachel Weisz) rivolge lo sguardo al padre che si scaglia con violenza contro l’emissario di Buckingham Palace perché non vuole suonare le sue celeberrime Simple Songs al cospetto della Regina e nel frattempo piange fuoricampo; lo stesso Fred si commuove, non inquadrato se non alla fine del monologo della figlia (tutto in primo piano, ancora), mentre costei gli vomita addosso tutte le sue colpe e la sofferenza che ha causato alla famiglia e alla sua povera madre con la sua strafottenza d’artista.
Perfino lo spettatore, in Youth, guarda (naturalmente) ed è al contempo guardato, da uno stile che ammicca senza sosta nella sua direzione, che non perde occasione per affermare il magistero della sua perfezione formale, che accumula un gorgo di immagini sensoriali e rutilanti senza mai fermarsi un attimo, perché rifiatare anche solo un secondo equivarrebbe a sciogliersi come neve al sole, a far crollare un castello di sabbia già di suo fragilissimo. Perché forse guardarsi allo specchio, ovvero contemplare il proprio ombelico e riflettersi nella propria ambizione elevata a potenza, sarà sembrato a Sorrentino più importante, al colmo del paradosso, che lasciarsi guardare per davvero da qualcuno, senza filtri e mascheramenti.
È per questo motivo che Youth, come nessun altro suo film precedente, irrita e tiene estranei, infastidisce e respinge, inducendo inevitabilmente a chiamarsi fuori da una giostra folle, in senso tutt’altro che positivo, in cui alto e basso, sublime e infimo, si fondono e si attraggono non per necessità ma in virtù di un gusto manipolatorio e fine a se stesso per lo spiazzamento e per la deformazione. Una vocazione in cui una sinfonia può coincidere coi versi di una mandria con sprezzo del pericolo, se solo lo si vuole, e le microunità in cui è segmentata la narrazione, vista la totale autoreferenzialità di ogni singola parte, cozzano le une contro le altre e fanno franare rovinosamente l’insieme, che oltretutto si smarrisce tra una miriade di piccoli personaggi di contorno inutili e grotteschi, alcuni anche molto giovani.
Youth, complice questa volontà liberatoria di concedersi tutto e il contrario di tutto (i videoclip tamarri e le dive ingrate, il cattivo gusto e le citazioni più disparate e pretenziose, addirittura dei riferimenti ai gala di beneficenza a Cannes) si limita a vivacchiare a ridosso dei suoi stessi piaceri proibiti e gratuiti, che nella stragrande maggioranza dei casi sono vizi autoriali che ostruiscono in maniera compiaciuta qualsiasi barlume di credibilità. Il risultato è un film tronfio che costeggia stancamente, e con ottusa miopia, una copia calligrafica e sbiadita di quella vita che desidererebbe raccontare, più che restituirne la stanchezza e l’apatia.
In quest’affresco così compromesso non stupisce allora che la leggerezza, che si vociferava dovesse essere una delle massime caratteristiche del nuovo Sorrentino, appaia anch’essa, come si dice in uno dei tanti scambi di battute del film, nient’altro che una perversione: una chimera da inseguire ma che la mano pesante e il tratto spesso di Sorrentino possono solo distorcere e alterare, rendendo le motivazioni che dovrebbero animare questa ricerca abbastanza dubbie e insincere e riuscendo a muovere la macchina da presa meno del solito neanche per metà film. Trasformando anche le linee di dialogo e le scene più emotive e dirette, che potevano arrivare al cuore senza mediazioni e avevano tutte le carte in regola per farlo, in vezzi sfiancanti, coccolati con una goffaggine così esasperata da risultare addirittura tetra.
Se con La grande bellezza Sorrentino aveva firmato un film tanto incostante quanto pieno di ''sparuti sprazzi'' di luce autentica e di sconfinata forza, con Youth realizza invece un'opera solo e soltanto scostante e nociva, che porta al parossismo un'involuzione manieristica sconcertante e va a sbattere. Inevitabilmente.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Youth
Anno: 2015
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Durata: 118’
Interpreti principali: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda, Madalina Ghenea
Uscita italiana: 20 maggio 2015
| |