E questa è la prima immagine che il regista di Wild, Jean-Marc Vallée, ci restituisce di Cheryl: quella di una donna sofferente ma determinata, con un paesaggio sterminato e incolto davanti a sé e un altro alle proprie spalle. Capiamo da subito che è una tosta, di quelle donne che non si fermano davanti a niente. Possiamo solo immaginare dove stia andando, o perché, e non ci interessa. Il breve prologo di Wild, con un montaggio frenetico di fotogrammi che diverranno familiari allo spettatore nel corso del film, riassume la personalità, il passato, le ragioni e le scelte di una protagonista che queste emozioni, questi ricordi, queste motivazioni ha già dentro di sé, perse - forse smarrite - nell’inconscio, nel dolore, nel limbo di una esistenza bloccata a un punto letteralmente morto.
Per Cheryl è difficile andare avanti dopo la morte della madre Bobbi (Laura Dern), motivo di stress e causa scatenante la crisi esistenziale. Un divorzio non difficile ma doloroso come l’accettazione dell’amore che non c’è più, e una rete di rapporti complessi e mai del tutto risolti. Allontanarsi da tutto, dunque, dai lacci come dai legami sfibrati e da un presente privo di senso appare l’unica scelta possibile, incamminandosi in questo viaggio imprevedibile lungo la Pacific Coast Trail, dal Messico al Canada.
Wild compie la scelta di concentrarsi solo ed esclusivamente sul personaggio di Cheryl, tra passato e presente, giocando con i flashback per ricucire la vita di una donna a una svolta critica della propria vita. Una giovane immersa (ma non persa) nella solitudine dei sentieri d’America, in scenari suggestivi e sempre diversi, una persona che ha bisogno di sciogliere i nodi del cuore e di imparare a perdonare se stessa e il destino, il cui disegno spesso tradisce le intenzioni umane. Cheryl ritroverà dentro se stessa il forte legame con la figura materna, da sempre vissuta in modo conflittuale, farà finalmente pace con il passato, il dolore e la morte, e accetterà la precarietà della vita come quel fatto inesorabile che dà, però, a ogni singolo giorno e ogni singola scelta compiuta un significato più alto.
Contrariamente a quanto si possa pensare Wild non è un film d’azione, né di tensione. Non ci sono vie impervie da percorrere, e non si deve neppure combattere contro la natura ostile. Wild è un semplice (ma non banale) racconto di viaggio in cui anche il rapporto del protagonista con l’ambiente diventa la metafora di una sfida interiore, di un riappropriarsi della propria dimensione, della propria identità, del proprio essere.
La scrittura a cura di Nick Hornby (dal romanzo autobiografico della stessa Cheryl Strayed), esalta l’idea avvolgente di “one woman show” in cui Reese Witherspoon è l’elemento di luce (e ombra) attorno al quale tutto ruota: storia, personaggi, flashback, panoramiche delle distese americane, canzoni, rumori. La piccola Reese sfodera il carattere che ci si aspetta, si spoglia delle sue sovrastrutture di attrice e si immerge in quello che vuole essere per lei il ruolo della svolta professionale, a dieci anni di distanza dall’Oscar per Walk The Line.
Wild potrebbe essere confrontato con altre opere dalla trama più o meno simile: Into The Wild, 127 ore, All is Lost. In questi anni il cinema americano sembra avere cercato nella natura incontaminata risposte certe per l’umanità alla deriva, in una lotta per la vita contro l’elemento imprevedibile della natura. C’è una tendenza a indagare l’insondabile animo umano, con il rischio però di ricondurre ogni dubbio esistenziale alla insoddisfazione della vita urbana, come a una forma di cattività, per cui l’unica cura è un ritorno alle radici essenziali dell’essere.
Wild, nel suo piccolo, si distacca da questa prospettiva, e probabilmente ha un obiettivo meno ambizioso ma ugualmente efficace. Prima di tutto, è una storia di donne. In secondo luogo, è una storia di donne desiderose di stringere il filo delle generazioni, di aggrapparsi all’albero genealogico al femminile e di sfamarsi di quelle profonde radici. Cheryl legge Adrienne Rich mentre la voce fuori campo recita alcuni frammenti della sua poesia. Sullo sfondo, terra secca, fruscii, rumori. E parole che ci raccontano la sua evoluzione, il dramma della separazione dal grembo materno, il fascino ammaliante e perverso della solitudine quando l’unico suono che possiamo percepire, nel mondo, siamo noi stessi.
Come nel precedente Dallas Buyers Club, Jean Marc Vallée ha preso un’attrice hollywoodiana doc, l’ha privata del suo status, le ha consegnato un ruolo atipico e attorno alla star che si faceva interprete ha chiuso il cerchio del film; un anello che gira. Il regista è abile sia nella fase di montaggio, in cui riesce a mettere insieme flashback e presente con coerenza e suggestione, sia nelle scelte visive, dove sa esaltare il paesaggio nella sua integrazione con il personaggio di Cheryl, l’elemento umano. Vallée si concede diverse digressioni sinestesiche, catalizzando l’attenzione sui suoni della natura e sui colori naturali, ma forse ciò che più tocca il cuore dello spettatore è l’occhio sensibile con cui, pur in brevissime scene, descrive il cruciale rapporto madre-figlia: rabbia, discussioni, emozioni negate e urlate su una fotografia dai toni rossi e caldi.
Il senso della rabbia repressa per il fato e il lutto e l’incapacità di amare è alla fine racchiusa in un fotogramma: la radiografia del male si riflette nella foto di una paesaggio qualunque, appesa nell’ufficio del medico che decreta la malattia terminale di Bobbi. Cheryl allora non lo sapeva. La risposta è là fuori, e dentro di noi. Nel viaggio.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Jean-Marc Vallée
Sceneggiatura: Nick Hornby dal romanzo di Cheryl Strayed
Interpreti: Reese Witherspoon, Laura Dern, Gaby Hoffmann
Fotografia: Yves Bélanger
Montaggio: John Mac McMurphy, Martin Pensa
Durata: 115'
Anno: 2014
Uscita italiana: 2 aprile 2015