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REVENANT (Redivivo) - Di morti invincibili 

20/1/2016

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La deriva (fallimentare) di un progetto, questo Revenant, redivivo in sé, che di morti ne ha subite, rimodulato, rimodellato (cambiando pelle e colore) da mani che ne hanno inquinato l’assetto, la giovinezza (il prospetto, in nuce, era in mano a Park Chan-wook), fino a imbastirsi su quelle di Alejandro González Iñárritu e, ancor prima, su quelle di un non meglio identificato Mark L. Smith sceneggiatore. 
Povero Revenant, e la brutta fine che ha fatto. Povero Hugh Glass, eroe integerrimo e felino dalle sette vite, che soffre un po’ per gioco nella sua maschera di invincibilità, saltellando tra i livelli del suo videogame a tematica western, infilandosi nelle pance dei cavalli dopo volate da altitudini mortifere e sventrandoli con la perizia tecnica di un macellaio.
​Ancor meglio definirlo (super)eroe, questo Leonardo DiCaprio esecutore del compito alla solita, precisa maniera, in un macrocosmo zeppo di manierismi, di calcolati effetti (grafici e sommariamente evocativi), già ammiccamenti allo spettatore poco seriale, pindarismi vuotati di significato in se stessi e in funzione di quella fondante, imprescindibile connettività tra forme (e contenuti), qui smarritasi nel divertissement narcisista del regista.
​
Lo schema sinottico, in potenza elementare tanto basta a virgolettarvi intelligentemente, si struttura attorno all’implicazione innescata dal meccanismo vendicativo: un protagonista umiliato (Hugh Glass) a cui tutto viene sottratto compie un lungo e travagliato viaggio per esplicitare una qualche fisica rivendicazione sul nemico, colui che gli uccide il figlio (qui, più bestia tra le bestie, un rozzo e codardo Tom Hardy, nei panni di John Fitzgerald). Ad aggiungersi, lo scenario più avvezzo a contestualizzarne il volto: la foresta, il selvaggio e le sue leggi, l’indiano padrone in una terra di cui testimonia (lottandovi contro) la sottrazione per altrui mano, lo snaturamento del suo carattere antropologico, imbastardito dai bianchi cacciatori di pellame. Tutto (fin troppo) al suo teorico posto. Eppure, addendi, materie prime, embrioni di idee, illusioni di onnipotenza risultano fiati sprecati per quel che di sostanzioso si può e si cerca di rintracciare: (quasi) niente, alludendo a una verticalità lacunosa.
Iñárritu dirige un lavoro la cui struttura è impotente di fronte alle perdite di senso, che provi a esser simbolico o più semplicemente letterale, come detriti che vanno a sgretolarsi su fianchi instabili; perdite che evidenziano l’imbarazzante disabilità nella costruzione di un universo composito, che si rimpalli focolari di concetto, intrecciandosi in un reticolato che possa rispondere a tutte quelle intenzionalità che precedono un qualsiasi progetto. Un assenteismo generale, ma che bombarda ogni montagna facendone avvallamento o cratere specifico, laddove il virtuosismo (pure degno di una certa qualità oggettiva) si macchia del comune errore di farsi sterile, ridondante, furbo, gommoso, per ultimo invalidante. E vincono l’ostinata e ricercata fluidità, il caparbio tentativo di abbracciare ciò che vi è (di palpabile e non) tramite piani sequenza nervosi che, tesi alla loro più forte atleticità, finiscono per svendersi in gratuiti formalismi, sovente meccanici. 
​
Eppure, la regia artificiosa, stilisticamente assimilabile a quel Birdman dove invece bene funzionava, nel suo arbitrario macchiarsi di espedienti, tra luce fredda e nevischio (come quei grossolani schizzi di sangue che cadono sull’obiettivo megalomane) non è poi, forse, la più grave delle colpe, in un’opera dove le approssimazioni via via vengono imbrattate da una coperta avvenente ed esibizionista.
Iñárritu e Smith vincono nell’impresa di sbagliare nella maniera più camuffata e sottile possibile anche la sceneggiatura, le sue travi e i suoi infissi, i riverberi e le emanazioni, insistendo sulla logica di ogni evento rovesciandoci sulla faccia torte di ovvietà, mancando di snocciolare, a raggiera, ogni altro tassello di scrittura che, satellite, avrebbe dovuto roteare attorno alla logica primaria  della vendetta: non percepita, solo scritta (letteralmente) in due inquadrature, mentre Glass, dilaniato nell’aspetto ma non nelle viscere, scopre una natura che già conosce, lotta contro un corpo scotennato ma saldo attentato dopo attentato, incontra rappresentanti di tribù che, in poco meno di un minuto, comunicano di condividere un passato a lui simile. E, ovviamente, ha visioni mistiche e para-sentimentali della sua donna (indiana) uccisa, inserite in un contesto semi-spirituale, tra ruderi di chiese e pitture rupestri, tentando di cavalcare un solenne ascetismo senza senso. 
​
Ogni tentativo di articolazione è esposto; ne vediamo gli ingranaggi rugginosi che competono a cristallizzare una fisionomia impossibile: ognuno senza apposito filtraggio, narrato sotto le veci di un’ottusa, mal spiegata, solo pubblicizzata tematica, che però si confonde, persa nel voler a tutti i costi mostrare la bellezza della sofferenza, senza saperla raccontare. Si mescolano abbozzi di panismo, vecchi dualismi nei rapporti con l’indigeno (l’uno ostile, l’altro di avvenuta integrazione, per il buon Glass), sottotematiche religiose gettate senza apparente concatenazione (lo stesso buon Glass sa che la vendetta è nelle mani del signore, e tuttavia a essa non si sottrae, pur lasciando il corpo del cattivo Fitzgerald ai padroni dell’amica terra; Fitzgerald ne ha una visione bieca, triviale, tanto più scioccamente a rinsaldare il velato manicheismo che li lega). 
Personaggi in posti e caratterizzazioni vacanti, dove la natura pare spersonalizzata nel suo essere presentissima. Glass, integerrimo, nulla ha più da imparare (detto ciò, non dovrebbe, di fatto, esistere), essendo capacissimo, fortissimo, senza remore, travagli, dubbi, moti interni, tanto che del tanto osservabile strazio non avvertiamo i decibel, nemmeno sottopelle; certamente l’obiettivo non è di confrontarsi contro la natura (o insieme a essa), o ri-scoprire che si può vivere, si deve vivere, val la pena vivere, perché di motore per la sopravvivenza ne dimostra, programmaticamente, da subito la pulsione, reagendo contro gli orsi, non lasciandosi morire. 
Quale dunque lo scopo di Glass? Nessuno. In effetti, è già morto, come (forse, a questo punto) in maniera ficcante egli stesso (ci) ricorda. Nulla, va da sé, la missione, il sottotesto, la carica, il climax, l’idea portante, il senso del film stesso. Sulla chiusa, sugli occhi glaciali, disperati di uno sguardo in macchina, si stende il rimpianto del mancato combaciare di strumenti e idee.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema 


Scheda tecnica

Titolo originale: The Revenant
Anno: 2015
Durata: 156’
Regia: Alejandro González Iñárritu
Sceneggiatura: Mark L. Smith, Alejandro González Iñárritu
Interpreti: Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Will Poulter, Domhnall Gleeson
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Musiche: Ryūichi Sakamoto, Carsten Nicolai

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