La vecchia e puzzolente madre, Molly “La pazza”, le sarà prima ingannevole maschera e poi rinnovata spalla per un passato da scoperchiare riesumando le sue vetuste rimozioni. Un fantomatico omicidio a farle da capo accusatorio (di cui ella non conserva alcuna lucida consapevolezza) e una nemesi allargata, prepotente, lo spirito di un villaggio conservatore che l’ha espulsa demonizzandola e che lei stessa ha saputo demistificare in un peregrinare cosmopolita, costruendosi l’immagine in un divario tutto moderno, che allo stile sartoriale d’haute couture guarda e che da esso prende le proprie mosse (di rivincita su una comunità medievale che l’ha resa strega per autoindotta necessità d’esorcismo).
Ma l’input alla vendetta è a-tendenziale, in Tilly: più che regolare i conti barbaramente (ed è ciò che separa notevolmente l’opera da un revenge movie a tutto tondo) anela a un sentirsi accettata, a una restaurazione del suo ruolo e della sua affettività, della sua identità da detergere tramite l’imporsi della giustizia (non a caso unica arma impugnabile da una donna del Nuovo Mondo, almeno per le prime battute).
Il lavoro della Moorhouse non è certamente spurio da tematiche in precedenza affrontate (la propensione al sentimentalismo e alle dinamiche familiari, oltre che un deciso gusto per la tragedia), eppure quest’altro capitolo s’apre (e audacemente diremmo “così avrebbe dovuto mantenersi”) come un’efficace variazione sulla commedia cinica e disincantata, così sopra le righe per personaggi eccentrici e mai eccessivamente parodistici, per carica magnetica intelligentemente calibrata su una Kate Winslet, a metà tra femme fatale, germe estraneo dell’indipendenza femminile, impenetrabile outsider e donna rinchiusa nel dolore.
Non poco concorre lo stile visivo alla perpetua ricerca di angolazioni significanti, virgolettature a rinsaldare l’idea di un’esperienza spettatoriale che scongiuri la docile linearità e la standardizzazione linguistica, pur non cedendo a orpelli virtuosistici. L’efficace brio caustico e dirompente che caratterizza un lasso che eccede dal mero preambolo finisce, però, per sgualcirsi, venendo letteralmente infettato da una mano di pece melodrammatica in acuta escalation (con il merito, certo, di non perdere mai l’assetto comico e di farne, anzi, sostrato basilare e integrante), mentre decessi francamente immeritati (e non meritati dalla protagonista) avvicinano l’oggetto a una scia di memoria hollywoodiana, a scomodare il caro fato che da sempre s’è accanito lacrimevole contro le eroine di tutti i tempi.
Non è di happy ending o meno che si parla: la conclusione, poi, fa dell’impatto dell’esecuzione vendicatrice (e purificante) la sua più riuscita colonna; eppure, le sottolineature strettamente tragiche, l’idea di dramedy a cui sembra occhieggiare fatica ad amalgamarsi, compiuta, in una fattura che sia ordinata e coesa (anzi, nel tentativo di eccedere l’ordine scade quando la pur fresca e ammiccante sceneggiatura inciampa in un orizzonte di eventi prevedibili o stonati).
In sostanza, è proprio quando The Dressmaker cerca di mescolare le carte e riassettare il mazzo che produce un effetto di confusione discorsiva, lasciando il fruitore al suo stesso limbo periferico, indeciso tra la godibilità orchestrata dell’opera e il suo accavallarsi di elementi talvolta aleatori e scartabili (al di là di una chiara intenzionalità che invece ben si esaurisce sul finale, ma che tende a perdersi nel percorso). Presto si dipana l’ossatura più strutturale di un melodramma che ossequia ognuno dei suoi principi storici, tra hybris originale, collettività ostile, morte che sopraggiunge implacabile a rinsaldare l’idea deterministica di una maledizione imbattibile, così com’è dalla protagonista esperita, specialmente quando essa stessa sembrava finalmente eclissarsi.
Il destino di solitudine e di isolamento così si compie, a riportare l’adulta Tilly allo stato di esclusione e condanna della sua infanzia e senza possibilità di riscatto esistenziale, laddove i molteplici tentativi si asserviscono a una più generica imposizione divina (e a diversi deus ex machina drammaturgici). Il risultante è dunque una parabola circolare, ove il perno della narrazione subisce una sadica riduzione/nobilitazione nella figura di una donna-Messia che, pur nel sacrificio della propria essenza sociale, consegna al villaggio gli strumenti per la configurazione di un microcosmo possibile esulando da puritanesimo e parziale civilizzazione; certo, una metamorfosi soltanto potenziale, ai fatti impossibile perché parto di un onnipresente cinismo, e da attuarsi attraverso l’immagine nuova e moderna, la percezione di se stessi e la moda come scettro di potere e seduzione.
Non sarebbe difficile, allora, ritenerla un’occasione mancata (forse nemmeno pensata). Il pragmatismo suggerisce che è nella volontà di dipingere la storia di una donna e della sua forza che giace il pensiero produttivo, pena una stratificazione non per forza sottotestuale ma più verosimilmente da lasciar affiorare. Un secondo suggerimento, quello per cui sono i caratteri ben congeniati e i quadri (parzialmente) stravaganti a centrare l’obiettivo, restituisce l’ipotesi che sia Kate Winslet, catalizzando, a fare ben oltre la sua parte. Un film riuscito, ma a metà.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: The Dressmaker
Anno: 2015
Regia: Jocelyn Moorhouse
Sceneggiatura: Jocelyn Moorhouse, P.J Hogan
Attori: Kate Winslet,Judy Davis, Liam Hemsworth, Hugo Weaving
Musica: David Hirschfelder
Fotografia: Donald McAlpine
Durata: 118’
Uscita italiana: 28 aprile 2016