ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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GRÂCE À DIEU (Grazie a Dio) – Liberare la paura

20/10/2019

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​Le luci del presente, le ombre del passato. Fantasmi oscuri che si aggirano nella mente, spettri irrequieti che ancora danzano confusi senza aver trovato pace. La vita, gli impegni, il lavoro, la famiglia. Ma poi la notte, il silenzio, i ricordi, il dolore. Tormenti che incalzano Alexandre Guérin, quarantenne capace di costruire nel tempo un’esistenza ricca di gioie e certezze: una moglie affezionata, cinque figli in crescita secondo dettami di fede e rispetto, un’occupazione solida in banca. Dietro alla cortina lieta del quotidiano, ci sono però i residui tossici di un’infanzia complicata, durante la quale Alexandre ha subito abusi sessuali da parte del parroco Bernard Preynat. Attenzioni che hanno lasciato un marchio indelebile nello spirito di quel bambino ora diventato uomo. 
Sono passati una trentina d’anni da allora, ma in fondo nulla è mai cambiato. Con vivo sconcerto, Alexandre scopre che Preynat ancora opera a stretto contatto con i bimbi. Disgustato e sconvolto, contatta il Cardinale Barbarin, responsabile della diocesi di Lione. Espone il suo caso, rievoca i fatti accaduti, chiede che il prete sia allontanato. Da quel momento inizia un lungo viaggio tra ricerca di giustizia e insabbiamenti, tentativi di salvare altre reali e potenziali vittime e sporche omissioni da parte dello stesso Barbarin e di tutta la Chiesa. 
Alexandre è la scintilla, la miccia che accende la bomba; dopo di lui altri vengono allo scoperto, trovando finalmente il coraggio di parlare: tra loro, tra i tanti, François Debord ed Emmanuel Thomassin, anch’essi destinatari delle “affettuose carezze” di Preynat al tempo dei campi scout. Nasce un’associazione, La parole libérée, destinata a fornire sostegno alle prede a cui il parroco ha violato l’innocenza; le denunce abbandonano il campo prettamente religioso e si inseriscono nel contesto giudiziario; i protagonisti rivelano i maltrattamenti subiti, coinvolgono i mass media, si battono affinché giustizia sia finalmente fatta. Affinché Preynat, Barbarin e tutti i responsabili degli scempi paghino per le colpe di cui si sono macchiati. Un percorso arduo, ma portato avanti con determinazione e coraggio.
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Dopo numerose opere di alto livello, legate comunque alla finzione narrativa, François Ozon torna nelle sale con un film questa volta basato su eventi reali. Premiato con l’Orso d’Argento a Berlino e accolto con grandi applausi e pressoché unanimi lodi da parte del pubblico e della stampa francese, Grâce à Dieu (Grazie a Dio) arriva finalmente anche da noi, trainando con sé il suo carico di aspra e necessaria denuncia. 
Se si studia un momento la genesi della lavorazione, si scoprono cose per le quali non c’è purtroppo di che sorprendersi. Il film è stato realizzato in segreto, con un titolo fittizio e una trama fasulla, così da evitare interferenze da parte della Chiesa. Sebbene la vicenda sia ambientata a Lione, gran parte delle scene sono state girate in Belgio e in Lussemburgo, o nella regione parigina, sempre per scartare le ingerenze del potere cattolico lionese. Inoltre, una volta rivelati trailer e vera sinossi del film, nel quale sono persino utilizzati i veri nomi dei soggetti coinvolti (il parroco peraltro è ancora oggi un “presunto innocente” in attesa di processo), gli avvocati di Preynat hanno tentato di bloccarne l’uscita, chiedendo un provvedimento d’urgenza a tale scopo; un attacco per fortuna fallito, in quanto i giudici hanno deliberato a favore della libertà di espressione artistica (e chissà se in Italia il verdetto sarebbe stato lo stesso; ci si permetta qualche dubbio in merito).
Nonostante gli ostacoli, possiamo dunque ammirare senza impedimenti un’opera da molti accomunata al recente Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, anche se i contatti tra le due pellicole sono in verità soltanto superficiali. Mentre infatti il film americano puntava su coordinate piuttosto definite, legate al giornalismo d’inchiesta, il lavoro di Ozon, di ben altro spessore, si concentra sull’emotività delle vittime, sulla loro interiorità, sui rapporti familiari, cercando di scavare all’interno di anime e cuori le cui ferite mai si potranno del tutto rimarginare. 
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Da sempre cantore di una sessualità disinibita, fremente, trasgressiva, multiforme, dipinta in varie tonalità di affermazione di sé, il regista di Swimming Pool, Potiche, Jeune et Jolie, Une nouvelle amie e L’amant double si pone ora al lato opposto, andando a indagare le pieghe non totalmente cicatrizzabili di contatti fisici squallidi, patologici, coercitivi, privi di volontà di scelta. Una strada d’analisi tortuosa, che facilmente sarebbe potuta scadere nel sensazionalismo e/o nella caccia alla tiepida lacrima. Ozon, invece, con estrema abilità, respinge questi rischi, mettendo in scena un film sorprendentemente costruito quasi come un thriller, teso e dal gran ritmo, a tratti perfino concitato, in cui lo spettatore è scaraventato nel torbido mare della vicenda subito, senza preamboli, senza avere la possibilità di immergere prima i piedi in acqua per acclimatarsi. Grâce à Dieu parte spedito e non si ferma più; rari i momenti di stasi, poche le sequenze topiche. L’impasto è compatto, fluido, efficace, sempre lucido. 
In costante e brillantissimo stato di forma ormai da oltre un decennio, Ozon rifugge pure i tranelli della rappresentazione a tesi: la condanna alle ignominie pedofile di Preynat e all’omertà di Barbarin è forte e conclamata, ma la sceneggiatura non ricatta il pubblico costringendolo solo a una crociata ideologica. L’autore riesce invece a mantenersi in equilibrio tra precisa descrizione dei fatti e analisi psicologica di uomini che combattono per una causa giusta, giustissima, cercando al contempo di trovare così o lo scopo di un’intera vita o una maturazione della vita stessa, oltreché l’approdo tanto agognato a una minima serenità interiore. 
​
Accompagnato dalla bravura dei suoi principali attori, Melvil Poupaud (indimenticato protagonista, tra gli altri, di Laurence Anyways di Dolan), Denis Ménochet (visto in Jusqu’à la garde – L’affido) e l’ottimo Swann Arlaud, e da uno stuolo di “comprimari” di gran livello (Frédéric Pierrot, Hélène Vincent, Josiane Balasko), Grâce à Dieu sfrutta i dettami della denuncia sociale per farsi strumento di emancipazione e liberazione. Il senso dell’opera sta infatti (anche) proprio qui: liberare la paura, liberarsi dalla paura, affrancarsi dalla schiavitù del silenzio, svincolarsi dalla sedimentazione di una sofferenza per la quale non esiste alcuna prescrizione.
Il compimento dell’atto cinematografico in quanto tale, e della missione di tutte le vittime che oggi combattono per impedire che simili orrori restino impuniti e si ripetano in Francia come altrove, risiede nelle profondità di questo concetto: alzare lo sguardo, comunicare, aprirsi, ascoltare, comprendere, agire. Per non avere più paura.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Film al cinema, La vie en rose

Recensioni film di François Ozon: Dans la maison (Nella casa) – Jeune et Jolie (Giovane e bella) – Une nouvelle amie (Una nuova amica) – Frantz – L’amant double (Doppio amore)

Scheda tecnica

Titolo originale: Grâce à Dieu
Anno: 2019
Durata: 127’
Regia e sceneggiatura: François Ozon
Fotografia: Manuel Dacosse
Montaggio: Laure Gardette
Attori: Melvil Poupaud, Denis Ménochet, Swann Arlaud, François Marthouret, Bernard Verley, Josiane Balasko, Frédéric Pierrot, Hélène Vincent

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LOCARNO 72 - Adoration, di Fabrice du Welz

17/8/2019

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​Il dodicenne Paul vive insieme alla madre, che lavora come infermiera in un istituto privato. Le sue giornate trascorrono perlopiù all’aria aperta, nei boschi intorno alla clinica, dove il ragazzo raccoglie uccellini feriti per poi cercare di curarli. Il consueto ménage si modifica il giorno in cui conosce Gloria, fanciulla problematica ricoverata in istituto a causa di disturbi mentali. Tra i due nasce subito un rapporto di grande affetto, tenerezza e complicità, anche se i loro incontri avvengono di nascosto, dato il divieto imposto a Paul di interagire con i pazienti.
​Una notte i ragazzi decidono di fuggire, insieme. Si avventurano nella foresta e cercano di far perdere le tracce, lasciando al contempo che il loro amore sbocci senza più catene né impedimenti. Inizia così un vagabondaggio tra sonni all’addiaccio, furti di barche a motore, bagni nel fiume, incontri imprevisti, rifugi temporanei, scoperta della sessualità, difficoltà e contrattempi: una fuga verso la libertà, folle e forse irrealizzabile, alla ricerca di un Eden dai contorni sfocati.
​
Il belga Fabrice du Welz si è imposto con forza all’attenzione di tutti gli appassionati di horror e affini grazie al magnifico Calvaire, uscito nel 2004; un film disperato e ammaliante, struggente e indimenticabile. La sua carriera è poi proseguita su livelli discreti, pur senza toccare nuovamente quei vertici, attraverso l’ipnotico Vinyan, il morboso Alléluia e i trascurabili Colt 45 e Message from the King, esordio americano. Dopo quest’ultima prova non esaltante du Welz è tornato a casa, nelle Ardenne, per mettere in scena la storia di un amore totalizzante tra due protagonisti di tenera età in completa contrapposizione caratteriale e simbolica.
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Paul e Gloria sono il giorno e la notte, la pace e il conflitto, la luce bianca e la luna nera. Lui è innocenza pura, ingenuità, semplicità. Un ragazzino ispirato all’Idiota di Dostoevskij e al Candido di Voltaire, la cui vita consiste soltanto nel prendersi cura degli uccellini, nel trovare una panica beatitudine tra i profumi della natura e nel mantenere un forte legame con la madre. Una creatura angelica, con movenze paragonabili a quelle di un Santo. Lei è invece mistero, confusione, paura, tensione. Una fanciulla etichettata come “pericolosa”, affetta da paranoie e manie persecutorie, capace di vividi slanci di dolcezza ma anche di improvvise e impetuose esplosioni di collera o terrore, che ovviamente sconvolgono la mente pulita di Paul. 
Eppure, nella loro veemente contrapposizione, Gloria e Paul (interpretati dall’intensissima Fantine Harduin, scoperta in Happy End di Michael Haneke, e da Thomas Gioria, visto in Jusqu’à la garde - L’affido di Xavier Legrand) trovano un punto di raccordo, un legame invisibile agli occhi corrotti degli adulti, un sentimento profondo che devia dai confini della giovane età per farsi abbraccio universale. La loro unione esemplifica i devastanti turbamenti del primo amore, mentre la loro fuga verso una meta di improbabile raggiungimento (la casa del nonno di Gloria, a centinaia di chilometri di distanza) si pone come tentativo di abbandonare precocemente le barriere (im)poste sulla terra di mezzo tra infanzia e adolescenza, per dare anima a un qualcosa che possa donare il Senso primordiale e definitivo a una pur così giovane vita.
​ 
Presentato in anteprima a Locarno nella maestosa cornice di Piazza Grande, Adoration conferma l’indiscutibile talento di du Welz, autore che sa come insinuare a piene mani il lirismo all’interno della narrazione, senza che quest’ultima venga peraltro fagocitata dalla bellezza estetica. Il suo stile alterna con scorrevolezza macchina a mano e inquadrature fisse, piani ravvicinatissimi e campi larghi, sottolineature cromatiche e suggestioni icastiche, musiche armoniche e inserti inquietanti, lasciando confluire il cuore dello spettatore nel rituale di una passione assoluta, per la quale si è disposti a tutto. D’altronde, a ben vedere, anche lo splendido Calvaire raccontava un amore malato eppure a suo modo straordinario; lo stesso faceva Vinyan, con la cieca discesa di Emmanuelle Béart nelle viscere della giungla alla ricerca del figlio perduto; in qualche perversa maniera perfino Alléluia era un quadro dipinto con i colori di un desiderio monopolizzante.
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Pur con qualche lacuna (il personaggio della madre di Paul, abbozzato e poi dimenticato) e alcuni sviluppi un po’ forzati, Adoration si mantiene ricco e pregevole nella sostanza. E come sempre in du Welz, l’equilibrio tra il bene e il male vacilla e sfuma, cercando di superare la pelle morta dell’umana miseria, senza riuscirci davvero. Non a caso, in uno dei dialoghi più belli del film, Paul, dall’alto della sua celestiale fragilità, dice a Gloria: “io non voglio fare mai del male del nessuno”, e lei risponde: “lo farai, vedrai. Prima o poi succede. Succede sempre”. 
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Adoration è il ritratto di un legame vorace e di un sogno di emancipazione; è riconquista della libertà ma anche impossibilità di accettare una perdita (come ben ci spiega il guardiano interpretato da Benoît Poelvoorde); è sfida a testa alta contro l’altrui incomprensione ma anche inesorabile discesa nella palude della rovina; è, infine, la tragedia di un’unione paradisiaca destinata a schiantarsi sui muri del reale. A meno che, per una volta, la Favola possa decretare il suo trionfo. Contro ogni legge e contro ogni logica.
 
“Tu ne me quitteras jamais? Alors je t'aimerai pour toujours”

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Locarno 72, La vie en rose

Scheda tecnica

Regia: Fabrice du Welz
Anno: 2019
Durata: 98’
Sceneggiatura: Fabrice du Welz, Vincent Tavier, Romain Protat
Attori: Thomas Gioria, Fantine Harduin, Benoît Poelvoorde, Laurent Lucas
Fotografia: Manu Dacosse
Musiche: Vincent Cahay
Montaggio: Anne-Laure Guégan

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LOCARNO 72 – Notre dame, di Valérie Donzelli

13/8/2019

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​Maud Crayon lavora come architetto in un piccolo studio guidato da un capo piuttosto scorbutico. La vita della donna è, senza usare mezzi termini, un casino. La situazione professionale non la soddisfa, sogna qualcosa di meglio, e deve crescere in gran parte da sola due figli avuti dall’ex marito, il quale peraltro, ogni volta che litiga con la nuova compagna, non trova di meglio da fare che rifugiarsi proprio a casa di Maud, la quale da par suo non riesce a evitare di accoglierlo e concedergli cibo e riparo (e magari anche sesso).
​Quando la municipalità di Parigi indice un concorso aperto a tutti con cui si premierà il miglior progetto per il rinnovamento della piazza antistante la cattedrale di Notre-Dame, Maud costruisce un modellino, pur essendo ormai tardi per iscriverlo alla gara. Poi però accade un fatto miracoloso e Maud scopre di aver vinto la selezione, anche senza aver partecipato. Di punto in bianco è accolta in pompa magna dal sindaco, le viene assegnato un budget esorbitante con cui realizzare il progetto, gli occhi di Tv e stampa piombano su di lei.
​Allo shock della nuova condizione si aggiungono altri due eventi importanti e inattesi: una gravidanza non voluta e l’incontro con un giornalista che è soprattutto un (altro) suo ex compagno, a cui è rimasta molto legata. Questa baraonda rivoluziona la vita di Maud e scatena una serie di situazioni che la porranno in seria difficoltà pratica ed emotiva, ma al contempo le permetteranno di trovare finalmente la libertà.
​  
Lo sapete ormai a menadito: da queste parti adoriamo Valérie Donzelli. Ne amiamo illimitatamente la spontaneità, la freschezza, l’estro, il coraggio, il benessere che si prova guardando i suoi lavori, spesso in doppia veste di regista/interprete. Caratteristiche esplose una decina d’anni fa con il folgorante esordio La reine des pommes e confermate in seguito con lo straordinario La guerre est déclarée, l’irresistibile Main dans la main e l’interessante Que d’amour, senza dimenticare alcune sconquassanti prove da sola attrice, ad esempio in Les grandes ondes. 
Molti dei titoli sopra citati hanno avuto la loro prima mondiale al Festival di Locarno, ed è proprio Locarno a riaccogliere una volta ancora la Donzelli per presentare Notre dame, nuovo lungometraggio da regista a quattro anni di distanza da quel Marguerite et Julien che aveva generato tanti dissensi, a causa di ambizioni e sperimentazioni spinte sino all’eccesso. Pericolo, questo, ben lontano dal potersi rintracciare in Notre dame, dove invece ritroviamo al 100% la Valérie a cui siamo tanto affezionati.

Nel tratteggiare la storia di questa donna alle prese con rivoluzioni intime e logistiche che si assommano una sull’altra in breve tempo, la Donzelli mette in scena, una volta di più, un mondo colorato e poetico, onirico e fiabesco, in cui la fantasia non si pone confini. Il risultato è divertimento puro e delizioso. Una scarica di adrenalina, una luce nel buio, i cui ingredienti sono gli stessi a cui ci ha ben abituati: battute al fulmicotone, ritmo indiavolato, dialoghi che sfiorano dolcemente l’assurdo, trovate esilaranti, passionalità priva di pudori, corpi senza veli (anche maschili) in mostra, canzoni e mini-balletti, radio che diffondono notizie strampalate, situazioni impossibili che diventano possibili, senso del gioco, coreografie a cui tutto il cast si adegua con piena convinzione, movimenti nello spazio che si traducono in gioiose danze, voce fuori campo di truffautiana memoria, visione del cinema come infinito contenitore di vibrazioni multiformi, colori accesi, incanti e sorprese. Non manca nulla, davvero nulla, nel raggiante disegno di Notre dame (non a caso il cognome della protagonista, Crayon, si traduce in italiano come matita o pennarello), senza peraltro che la ricetta risulti ripetitiva o troppo simile ad altre opere precedenti, tale è la capacità della regista di rimodellarsi ogni volta.
La Maud del film è una donna circondata da ex, che indossa sempre lo stesso buffo vestito scozzese e il cui cuore combatte tra passato, presente e futuro; è un bravo architetto catapultato in un impegno maledettamente grande da sostenere; è un personaggio insicuro e con idee troppo ardite per la società bigotta che la circonda. Tutto ciò rischia di farle perdere forza, di farla crollare. Ma sarà proprio al limite del disastro che Maud troverà modo di combattere, accettando i fallimenti e setacciando la propria anima verso la conquista di una nuova fiducia nella vita.
​
Oltre a questo ottimo ritratto al femminile, a cui regala piena sostanza la scatenata interpretazione della Donzelli, che come sempre non si risparmia in niente e non ha alcuna paura nel mettersi totalmente a nudo (in tutti i sensi), in Notre dame ci sono gli uomini, perlopiù approfittatori e fragili, che si infilano sotto le coperte altrui pur di non stare soli. E poi c’è Parigi, omaggiata e ritratta con affetto in tutta la sua armonia ma anche nelle zone più ombrose. E infine c’è lei, la Cattedrale, o ciò che era sino a pochi mesi fa. Vedere questo film dopo l’incendio di aprile genera un effetto straniante, perfino commovente; il grande schermo ci mostra un totem che al momento delle riprese (antecedenti al disastro) c’era e adesso non c’è più. O meglio c’è ancora, ma con un aspetto diverso. La stessa Donzelli ha dichiarato che dopo il rogo era terrorizzata al pensiero di far uscire nelle sale una pellicola al cui centro si staglia un monumento storico che non esiste più in quella veste. Allo stesso tempo però ha riflettuto sul fatto di essere stata, per volere del destino, l’ultima persona a filmare Notre-Dame nel suo completo splendore, regalandole così una sorta di immortalità.
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In ogni caso, a noi è stato consegnato un lavoro di alto valore e accecante bellezza, in cui la Donzelli si fa accompagnare da Pierre Deladonchamps (protagonista nel 2013 del magnifico L'inconnu du lac), dal bravissimo Bouli Lanners (apprezzato quest’anno anche in C’est ça l’amour) e da Thomas Scimeca, Samir Guesmi e Virginie Ledoyen. In Francia uscirà a dicembre: c’è solo da sperare che arrivi anche in Italia, e in molti altri paesi, per rendere giustizia all’ennesimo gioiello palpitante, fremente e vitale partorito da una mente creativa con pochissimi eguali nel cinema contemporaneo.
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Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Locarno 72

Articoli correlati Valérie Donzelli:     Main dans la main     Que d'amour     Les grandes ondes

Scheda tecnica

Anno: 2019
Durata: 89’
Regia: Valérie Donzelli
Sceneggiatura: Valérie Donzelli, Benjamin Charbit
Fotografia: Lazare Pedron
Montaggio: Pauline Gaillard
Attori: Valérie Donzelli, Pierre Deladonchamps, Thomas Scimeca, Bouli Lanners, Virginie Ledoyen, Isabelle Candelier, Samir Guesmi

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LOCARNO 72 – La fille au bracelet, di Stéphane Demoustier

12/8/2019

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Lise ha 18 anni. Due anni prima la sua migliore amica è stata uccisa a coltellate. Lise è stata sin da subito la principale (e unica) sospettata. Dopo un iniziale periodo di fermo le è stata concessa la libertà vigilata, con l’obbligo di un braccialetto elettronico fissato alla caviglia per favorirne sempre il rintracciamento. Adesso siamo finalmente arrivati alla fase finale del processo: gli avvocati dell’accusa e della difesa espongono le rispettive arringhe, la ragazza siede al suo posto in tribunale ascoltando tutto con glaciale fermezza e faticando spesso a trovare le parole quando viene interrogata (o rifiutandosi di rispondere). Nuovi aspetti compromettenti della vita di Lise emergono, con particolare riferimento alle sue abitudini sessuali, ben più disinibite di quanto la morale comune vorrebbe. Le sedute si susseguono, il verdetto si avvicina. Lise ha davvero ammazzato l’amica, oppure no?

​Lili Hinstin, nuova direttrice artistica del Festival di Locarno, ha sottolineato come La fille au bracelet sia stato il primo titolo a essere scelto per la sezione dedicata a Piazza Grande, evidenziando così quanto lei e il suo staff abbiano fortemente creduto in quest’opera. A conti fatti non si può dar loro torto, dato il buon impatto del terzo lungometraggio di Stéphane Demoustier, bravo a mettere in scena con efficacia un dramma processuale in cui rispetta i canoni del genere ma riesce a inserire degli elementi in più, e senza remore nell’affidare il ruolo più “antipatico”, quello dello spietato pubblico ministero, alla sorella Anaïs Demoustier, attrice che come sapete noi amiamo tantissimo, e che aveva già interpretato la parte di un'avvocatessa nella bella commedia romantica À trois on y va (qui la nostra recensione).
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Lo schema di base di La fille au bracelet (ispirato al film argentino Acusada) pare in realtà non discostarsi molto da altre pellicole similari, essendo fondato sull’accumularsi di oratorie racchiuse tra gli spazi del tribunale in cui si decide il destino della giovane protagonista (l’esordiente Mélissa Guers). Si ricostruiscono i fatti dei minuti in cui è avvenuto l’omicidio, di ciò che era stato prima e di ciò che è stato dopo; si analizza il rapporto tra Lise e l’amica; si mostrano elementi nuovi che colgono di sorpresa la parte avversa. Accusa e difesa giocano le loro carte, la sfida è serrata, l’equilibrio pare indirizzarsi talvolta verso una direzione talvolta verso l’altra, il contenzioso è di difficile risoluzione. In questo senso la narrazione appare solida e puntuale, ma non offre particolare guizzi.
​Gli elementi di maggiore interesse giungono però altrove, a partire dal giorno in cui il pubblico ministero mette in luce il video di una fellatio compiuta da Lise a un ragazzo con cui non aveva alcun rapporto sentimentale, video poi postato in rete dall’amica, gesto che aveva provocato la rabbia di Lise. Questo evento, oltre a porsi come (presunto) movente dell'assassinio, apre scenari atti a discutere l’emancipazione sessuale della sospettata, decisamente eccessiva per una società ancora incatenata a dogmi antiquati ma di complessa estirpazione. Lise diventa così una ragazza “facile”, una poco di buono che ha perso la retta via, una persona da guardare con sdegno e timore. Il processo esce a quel punto dai confini del mero omicidio e diviene atto sociale d’accusa verso la licenziosità della gioventù contemporanea.
In parallelo si attua poi un secondo, e ancora più coinvolgente, percorso narrativo complementare, quando la macchina da presa esce dal tribunale e si infila nell’auto che riporta Lise a casa, e poi tra le pareti della casa stessa, dove lei e i genitori vivono ore e notti d’attesa tra una seduta del processo e l’altra. In queste sospensioni temporali il regista si concentra sulle emozioni che percuotono la madre (la sempre ottima Chiara Mastroianni) e il padre (Roschdy Zem), incatenati in una situazione soffocante e dolorosa. Lui sta vicino alla figlia, ripassa con lei ciò che dovrà dire in tribunale il giorno dopo, cerca di accompagnarla attimo per attimo. La madre invece sembra distante, distaccata, perfino lontana. Sono in realtà due facce della stessa medaglia, due modi uguali e contrari di affrontare la stessa pena interiore, una pena non priva di dubbi nei riguardi della loro stessa figlia. Entrambi vogliono che Lise sia innocente, lo desiderano con tutto il cuore, ma devono affrontare momenti in cui perplessità e titubanze si insinuano nella mente. Ciò li rende genitori peggiori? No, affatto. Li rende semplici esseri umani.
​
Alla fine, tra silenzi carichi di tensione, discussioni in aula e momenti di ribellione di un’adolescente inevitabilmente segnata (per sempre?) da due anni di ansia, La fille au bracelet giunge al suo culmine, che tale in fondo poi nemmeno è. Il verdetto infatti arriva, ma non elimina le incertezze. D’altronde, come ha giustamente dichiarato Stéphane Demoustier, “a me non interessa sapere se Lise sia colpevole o innocente; sarà lo spettatore a deciderlo”.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Locarno 72

Altri film con Anaïs Demoustier recensiti:     Demain et tous les autres jours        À trois on y va        Une nouvelle amie              La casa sul mare        Il viaggio di Jeanne        Au fil d’Ariane       La belle personne       Thérèse Desqueyroux

Scheda tecnica
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Regista: Stéphane Demoustier
Anno: 2019
Durata: 95’
Attori: Mélissa Guers, Roschdy Zem, Chiara Mastroianni, Anaïs Demoustier, Annie Mercier
Fotografia: Sylvain Verdet
Musica: Carla Pallone
Montaggio: Damien Maestraggi

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SAUVAGE – Senza tetto né legge

19/7/2019

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Léo ha 22 anni. Vive in strada e si prostituisce per una clientela gay. Lo fa per soldi, certo, ma anche perché non riesce nemmeno a immaginare alcuna vita diversa da questa. Le sue giornate e nottate sono scandite dagli incontri con gli avventori che lo abbordano tra le strade del parco in cui lavora. I tempi vuoti sono invece occupati da reiterati consumi di droga e piccoli furti di cibo. La sua esistenza è tutta qua: hashish, crack, cocaina, sesso a pagamento. La salute ne risente, il fisico si debilita sempre più, ma a lui pare non importare granché, tanto che quando una dottoressa gli propone di disintossicarsi e dare un taglio agli eccessi, lui risponde: “e per quale motivo dovrei farlo?”. 

​Léo è allo sbando. Un ragazzo perduto, uno dei tanti. Gli unici amici, o presunti tali, sono i “colleghi” con cui condivide la strada e gli sballi. In particolare un coetaneo di origine maghrebina, di cui è innamorato, senza peraltro essere ricambiato fino in fondo. Così, tra un veloce blow job a 20 euro e appuntamenti più lunghi a casa dei partner di turno, giovani, anziani, disabili, esperti, novizi, timidi o psicopatici a seconda dei casi, e tra eccitanti giochi di ruolo e situazioni malsane e degenerate, la vita vagabonda di Léo scorre impetuosa e immobile, navigando verso l'autodistruzione. 
​
Presentato a Cannes alla Semaine de la Critique nel 2018, candidato ai César 2019 come miglior opera prima e non distribuito in Italia, Sauvage è il lungometraggio d’esordio di Camille Vidal-Naquet, classe 1972, già autore di corti piuttosto apprezzati. Il suo film è il ritratto moderno e spietato di un ragazzo senza tetto né legge, per citare il capolavoro di Agnès Varda con cui condivide il nichilismo del protagonista, errante un po’ per scelta un po’ per necessità, privo di legami familiari e mancante di ogni tipo di confine morale. Un animale barbaro, almeno in apparenza, che trasforma la sua omosessualità in un lavoro e sfrutta il sesso come arma di sostentamento, salvo poi bruciare subito ogni guadagno sotto l’egida imperante della droga. Se l’indimenticabile antieroina della Varda era una misteriosa ragazza venuta dal mare, il Léo di Sauvage è un soggetto nato direttamente dalla/sulla strada, perlomeno all’interno dei confini narrativi. Nulla infatti ci viene detto riguardo al suo passato, ai probabili traumi subiti, al percorso che lo ha condotto verso questa esistenza spericolata. 
Nello schema del film non esiste un prima e un dopo: soltanto l’attimo, il presente, aspro e brutale, analizzato sia nella specificità della figura dominante della messinscena, sia con uno spettro rappresentativo più ampio, atto a mostrare le dinamiche della comunità dei prostituti gay. Questo secondo aspetto dona forza e spessore all’opera di Vidal-Naquet, bravo a mettere in scena i contrasti e le sfumature di un micro-mondo che si snoda attraverso una realtà parallela perlopiù sconosciuta alle persone che stringono tra le mani una vita “normale”, eppure non tanto diversa nelle sue connotazioni situazionali ed emotive. Anche tra i ragazzi di strada non mancano infatti amori anelati e perduti, amicizie sincere e fasulle, rapporti di potere, malcelate invidie, accecanti gelosie, egoismi e solidarietà, regole esplicite e implicite: un universo a sé stante ma in fondo simile a tanti altri, ritratto dal regista con la giusta lucidità ed efficacia.
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Sauvage è dunque l’attento disegno della prostituzione giovanile nel mondo omosessuale, ed è al contempo il disvelamento di un carattere specifico, quello di Léo, tra le cui pieghe si assestano sentimenti che vanno oltre il mero afflato masochista. Usato spesso come (im)puro strumento di piacere con cui soddisfare ogni voglia senza alcun ritegno, il protagonista del film è in realtà un’anima smarrita che cerca disperatamente anche (e soprattutto) un po’ d’amore, tanto da gioire per una notte “calme et tranquille” da trascorrere accoccolato nel letto di un cliente con il triplo dei suoi anni. Nella mente di Léo non c’è futuro, non ci sono progetti. La strada è l’unico territorio che padroneggia. La strada gli fornisce persino l’acqua con cui abbeverarsi. Tuttavia, negli angoli del suo sguardo, si comprende un grande, enorme desiderio di essere amato, in contrasto con l’insopprimibile bisogno di libertà. Un conflitto di difficile risoluzione.
L’esordio di Vidal-Naquet si nutre di profonde opposizioni. Assistiamo a scene di sesso esplicite (qualcuna non simulata) e sequenze forti e sgradevoli (un metodo “innovativo” per derubare un cliente e un tentativo di sodomia a dir poco “estremo”), eppure non mancano abbracci, con le persone e con la stessa Madre Terra, e momenti di tenerezza. Ci sono sequenze in discoteca con musica pompata ad alto volume ma anche attimi di silenziosa quiete. Violenze ma anche delicatezze. Un mix ben congeniato, che non accusa sfaldamenti né traiettorie banali.
Se prima si è citata la Sandrine Bonnaire di Sans toi ni loit, in realtà tanti sono i riferimenti cinefili che si possono qui chiamare in causa: i ragazzi di vita di Pasolini, i primi lavori di Gus Van Sant, la seminale e irrinunciabile lezione dei Dardenne, la carnalità sfrontata di Kechiche, Flesh di Paul Morrissey e non ultimi gli Eastern Boys di Robin Campillo. A tal proposito va sottolineato che il bravissimo interprete Félix Maritaud, nella realtà attore pornografico molto conosciuto nell’hard gay e ora in rampa di lancio nel cinema “tradizionale”, ha recitato anche nel premiatissimo 120 battiti al minuto dello stesso Campillo. La pellicola, ambientata a Strasburgo, non si limita comunque alla semplice derivazione e riesce a imporre un’identità propria e vincente.
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Dolente nota a margine: dopo il passaggio a Cannes, Sauvage è stato distribuito in Francia e poi in Germania, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Spagna. In Italia nessuno, al momento, si è azzardato ad acquistarlo. Lo si è visto solo in un festival a tematica LGBT a Torino. D’altronde, è facile pensare come un film di questo genere da noi sarebbe impossibile da realizzare, anche soltanto da immaginare. E va da sé, quasi nessuno lo andrebbe a vedere al cinema. In un paese ancora così bigotto e retrogrado, non c’è spazio per alcun sauvage. Ma questa, purtroppo, non è una novità. 

Ciò non impedisce il recupero di un’opera assolutamente apprezzabile: cruda, in qualche tratto perfino scioccante, eppure realistica, intensa, coraggiosa e non priva di dolci sospiri d’amore.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

​Titolo originale: Sauvage
​Anno: 2018
Durata: 99’
Regia: Camille Vidal-Naquet
Sceneggiatura: Camille Vidal-Naquet
Fotografia: Jacques Girault
Montaggio: Elif Uluengin
Musiche: Romain Trouillet
Attori: Félix Maritaud, Eric Bernard, Nicolas Dibla, Philippe Ohrel

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DEMAIN ET TOUS LES AUTRES JOURS – In fondo al mare

3/2/2019

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​“Figlia mia, dove sono finite le lacrime del tuo primo dolore?

La tua mano le ha asciugate. Poi il vento ha asciugato la tua mano. Sono evaporate, e sono ricadute sotto forma di pioggia, un po’ più lontano.”

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Mathilde ha solo 9 anni. Ma deve affrontare problematiche che la costringono a diventare più grande di quanto in realtà sia. I suoi genitori sono infatti separati. La bimba vede il padre saltuariamente, limitandosi in molti momenti a colloqui con lui via web. La difficoltà peggiore, però, è il comportamento della madre, afflitta da disturbi mentali che spesso la conducono a smarrimenti di cui giocoforza subisce le conseguenze anche la giovane figlia. Tra fughe improvvise, acquisti insensati, viaggi in treno senza meta, vagabondaggi per strade e centri commerciali, giornate trascorse immobile come un automa e atteggiamenti imbarazzanti in mezzo alla gente, il teorico ruolo di protezione della madre perde di significato, sviando anzi verso la direzione opposta: è Mathilde, più volte, a doversi prendere cura di lei, a occuparsi della casa, a dover gestire quegli aspetti della vita quotidiana di cui una ragazzina di quell’età non dovrebbe farsi carico. Il cuore buono di Mathilde la porta a “salvare” uno scheletro utilizzato in via didattica dagli insegnanti della sua scuola, mentre a farle compagnia appare dal nulla un piccolo gufo parlante, che si tramuta in buon amico e confidente. Intanto gli eccessi della madre si accrescono, giorno dopo giorno. Nel frattempo Mathilde cresce, suo malgrado, troppo in fretta, costretta dagli eventi.
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Presentato in Piazza Grande a Locarno 2017, selezionato in concorso al My French Film Festival 2019 e purtroppo non distribuito in Italia, Demain et tous les autres jours è il sesto lungometraggio come regista di Noémie Lvovsky, vista recentemente in D’après une histoire vrai di Polanski e qui anche co-sceneggiatrice e co-protagonista insieme alla piccola Luce Rodriguez, rivelazione luminosa di nome e di fatto. L’opera della Lvovsky è una favola ad altezza di bambina, messa in scena con una notevole libertà espressiva che scava nei duri contorni del reale miscelando quest’ultimo con inserti diretti verso il magico mondo del fantastico. La storia assomma le connotazioni del racconto di formazione, le tante sfumature di un complesso e combattuto rapporto madre-figlia, le difficoltà di sopravvivenza di tante famiglie sfaldate da silenzi e incomprensioni. Materiale eterogeneo, ancor più in virtù della variante onirica, evidenziata dalla presenza dell’onnisciente uccello parlante e dalle cupe scene gotiche partorite dalla mente di Mathilde, la quale inventa fosche storie con cui dare sfogo alle proprie insicurezze e alla rabbia repressa per le pazzie della genitrice.
Va da sé come non sia semplice trovare un giusto e duraturo equilibrio tra tutte queste componenti. Non c’è dunque da stupirsi se il film talvolta pare sfilacciarsi. Eppure, anche nelle imperfezioni, la regista non perde mai di vista il senso e la forza della narrazione, utilizzando gli occhi profondi di Luce Rodriguez come tramite per lasciarci entrare nel dramma di una donna “qui ne peut plus coexister avec le monde” (1) e di una bimba che non si arrende e non smarrisce la volontà di mordere il presente. Oltre al lavoro in fase di scrittura e dietro la macchina da presa, l’autrice dell’apprezzatissimo Camille Redouble (2012) si ritaglia anche un ruolo attoriale impegnativo, recitando il “grain de folie” (2) di una madre traviata dai demoni della mente con un intenso stordimento espressivo non lontano dalla Séraphine di Yolande Moreau (non a caso citata nei ringraziamenti alla fine dei titoli di coda). 

1) Thomas Sotinel, Le Monde
2) Ariane Allard, Positif


Coraggioso e convinto delle proprie scelte, il film, girato nell’appartamento dei defunti genitori di due amici d’infanzia della Lvovsky e portato a termine nonostante l’abbandono anticipato del set da parte della Rodriguez per problemi di salute, si avvale di musiche che spaziano da Vivaldi a Philip Glass, trovando una bella alternanza di tonalità chiare e scure in una tavolozza riempita con passione e freschezza. Inoltre, la pellicola si copre di radici ancor più solide grazie alle folgoranti apparizioni di Mathieu Amalric e Anaïs Demoustier, capaci entrambi di realizzare ciò che solo i grandi attori sanno compiere, ovvero rendersi indimenticabili anche con un minutaggio assai limitato. 
Così, tra dignità e compassione, voli empatici e corse di speranza, compleanni racchiusi in uno scrigno in fondo al mare e notti di Natale attese e poi letteralmente bruciate, vaghe stelle in divenire e inevitabili prigioni, Demain et tous les autres jours raggiunge con successo il suo obiettivo, trovando l’apice in un’ipnotica e fradicia danza conclusiva che accomuna madre e figlia. Un ballo che è insieme poesia in movimento, catarsi definitiva, elogio della diversità e glorificazione di un legame che non potrà mai essere incenerito dalle amarezze. Perché il sole e la luna, pur nelle loro inconciliabili differenze, sapranno sempre respirare la tenerezza di un abbraccio.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Demain et tous les autres jours
Regia: Noémie Lvovsky
Sceneggiatura: Noémie Lvovsky e Florence Seyvos
Fotografia: Jean-Marc Fabre
Montaggio: Annette Dutertre e Anne Weil
Anno: 2017
Durata: 95’
Attori: Luce Rodriguez, Noémie Lvovsky, Mathieu Amalric, Micha Lescot, Anaïs Demoustier, India Hair

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NOS BATAILLES (Le nostre battaglie) – Aspettando te

29/11/2018

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​Ripartire. Ricostruire. All’improvviso, da un giorno all’altro. Lottando con le incertezze, la paura, le novità da comprendere, le situazioni da preservare. Cercando un equilibrio difficile, in precario tentennamento tra doveri e responsabilità, dubbi e angosce. Questo è ciò che accade a Olivier, marito, padre e al contempo capo squadra e sindacalista nell’azienda presso cui lavora. Ruoli scelti, voluti e accettati ma complessi da gestire, se ti dedichi agli altri confondendo le priorità e ogni volta esci alla mattina senza nemmeno sapere a che ora rientrerai a casa, mentre la moglie e i figli ti attendono e sentono la tua mancanza. Perché per loro non ci sei. Spesso. Troppo spesso. Al punto che un bel giorno la tua compagna se ne va, senza preavviso e senza indicazioni, lasciandoti solo con i bambini e una vita che di punto in bianco diventa troppo tortuosa. 
Ti ritrovi così a dover organizzare e assemblare daccapo ogni fase della quotidianità: far svegliare i bambini, vestirli, portarli a scuola, andare a recuperarli, nutrirli, aiutarli con i compiti, dovendo al contempo spiegare loro che la mamma è andata via per un po’ ma sicuramente tornerà. Anche se dentro di te senti brividi di gelo perché in realtà non lo sai se tornerà. E nemmeno sai dov’è andata. Ma intanto ci sono i figli, le lotte aziendali per assicurare migliori condizioni di lavoro agli operai, i crolli di colleghi che non reggono il peso delle decisioni altrui. Tutto ti spinge giù, ti travolge. Tu annaspi, corri, cerchi di stare a galla, per chi ha bisogno di te ora più che mai. E pensi a lei, a quel letto vuoto, all’amore che hai trascurato, rotolando in una giostra di emozioni che ti stordisce.

Il cinema francofono da alcuni anni a questa parte sta dimostrando vera maestria nel presentare e raccontare piccole storie capaci di indagare la sempre più precaria realtà attuale del mondo del lavoro, senza peraltro dimenticare l’abilità, da tempo conclamata, di mettere in scena con efficacia intimi drammi familiari. Nos Batailles, accolto con entusiasmo pressoché unanime dalla stampa d’Oltralpe e proiettato in anteprima italiana in concorso al Torino Film Festival, è la summa di queste due poetiche. A dirigerlo il belga Guillaume Senez, nato a Bruxelles, classe 1978, che già si era fatto conoscere nel 2015 con il racconto di formazione adolescenziale Keeper, presentato a Locarno e vincitore del premio della giuria proprio al TFF. A interpretarlo Romain Duris, ex “belloccio” di Francia ormai maturato, adesso in grado di essere a suo agio anche in ruoli di spessore e qui, con folta barba, occhiaie e berretto di lana, alla migliore interpretazione della sua carriera. 
Nos Batailles sfrutta le grandi lezioni dei Dardenne e si muove sulle tracce segnate recentemente da Stéphane Brizé e Joachim Lafosse, accumulando le qualità, tra gli altri, di film meravigliosi come La loi du marché e L’économie du couple (Dopo l’amore). Da un lato la lotta operaia e le terribili problematiche economiche e psicologiche causate dal perenne rischio della perdita del posto, dall’altro i conflitti che si consumano all’interno delle pareti domestiche nell’esercizio dei sentimenti. Due strade convergenti in un disegno filmico in cui Senez accantona la finzione per lasciar fluire l’improvvisazione all’atto delle riprese, quasi tutte svolte senza dialoghi prestabiliti, trovando un realismo genuino e per questo toccante. Non a caso si assiste alla pellicola in un’immersione mentale che ci fa sentire davvero dentro alla storia, una storia in cui si sta semplicemente parlando di noi, delle nostre colpe e dei nostri desideri. Il tutto senza artifici né forzature, in modo semplice e diretto. E dunque ancora più vero.
​
Laura non c’è. Ha sofferto a lungo in silenzio e a un certo punto non ce l’ha più fatta. Olivier vede convergere tutto su di lui, con due figli che soffrono l’assenza della madre e pongono domande scomode poiché non possono decifrare fino in fondo ciò che sta accadendo. Intorno, una nonna premurosa che cerca di aiutare con toni misurati; una sorella (Laetitia Dosch, tornado dirompente, sempre più brava ogni giorno che passa) che vorrebbe fare tanto ma è frenata da una personalità a sua volta troppo fragile; una dolce e malinconica collega di lavoro non più giovanissima che nutre una spinta “speciale” nei confronti del protagonista. Figure secondarie in realtà ricche di sfumature e sostanza, ben incastonate in un quadro lucido e compatto che ci rende partecipi della vicenda con assoluta naturalezza, sino a giungere a una magnifica inquadratura finale da cui sgorgano spontaneamente lacrime di affetto e speranza.
Le nostre battaglie sono queste. Le si affronta per colmare i vuoti, ritrovarsi e magari chissà, perfino rinascere. A volte ci si riesce, a volte no. Ma si combatte, cullando nel cuore chi non finiremo mai di sognare. E aspettare.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Torino Film Festival


​Scheda tecnica

​Regia: Guillaume Senez
Sceneggiatura: Guillaume Senez, Raphaëlle Desplechin
Fotografia: Elin Kirschfink
Montaggio: Julie Brenta
Attori: Romain Duris, Laure Calamy, Laetitia Dosch, Lucie Debay, Lena Girard Voss
Anno: 2018
Durata: 98’

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LES GARDIENNES – Il coraggio delle donne

24/10/2018

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​“Generale dietro la collina, ci sta la notte, crucca e assassina, e in mezzo al prato c’è una contadina, curva sul tramonto sembra una bambina…”

​(Francesco De Gregori, "Generale")

Prima Guerra Mondiale. Uomini al fronte. Figli e mariti che rischiano la vita per la patria. Nel frattempo, lontana dalle bombe, una fattoria. Immersa nel verde. Un luogo bucolico dove madri e mogli portano avanti l’attività di famiglia, lavorando duramente nei campi dall’alba al tramonto, ogni giorno. La semina, la mietitura, il raccolto. Il bestiame. Il sudore. La fatica. Senza pause. Nell’attesa del ritorno dei propri cari. Con la speranza di vederli riapparire da un momento all’altro lungo il viale che porta alla fattoria, congedati o perlomeno sgravati dalla battaglia per qualche giorno di permesso. Lo sguardo là, verso quel viale, con il sogno di riabbracciarli e allo stesso tempo il terrore di non vederli tornare più.
​Settimane, mesi, scanditi dai ritmi incessanti del lavoro. Progettando il difficile acquisto di innovativi e costosi macchinari con cui alleggerire lo sforzo. Il caldo e poi il freddo, i mancamenti, la forza di volontà. Donne che vacillano ma resistono. Compiono scelte talvolta estreme per difendere la sacralità e il buon nome della famiglia. Si impegnano fino allo stremo per accumulare risparmi e darsi una qualsiasi possibilità di futuro. Donne che pregano di non ricevere la visita di un uomo vestito di nero attraverso il quale conoscere l’insopportabile notizia del soldato “morto con onore”. Donne che combattono la loro personale guerra e intanto amano. E sperano. Aspettando la fine dell’incubo. 
​
Xavier Beauvois, attore e regista classe 1967, dopo alcune opere giovanili già molto apprezzate si era definitivamente imposto all’attenzione generale nel 2010 con lo splendido Des Hommes et des Dieux (Uomini di Dio), premiato a Cannes e vincitore di un meritatissimo premio César come miglior film francese dell’anno. In questo nuovo lavoro, uscito nei cinema francesi alla fine del 2017 e purtroppo al momento non distribuito in Italia, l’autore adatta per il grande schermo un romanzo pubblicato nel 1924 da Ernest Pérochon, la cui copia gli era stata regalata tempo prima dalla produttrice Sylvie Pialat ed era rimasta a lungo sul comodino prima che l’autore la leggesse e se ne innamorasse. Un romanzo ricco di tragedie, malattie e dolori, che Beauvois ha voluto parzialmente mitigare pur senza rinunciare all’inevitabile cupezza del contesto. Un buio interiore posto in piena antitesi con la straordinaria luce naturale di un luogo racchiuso nella bellezza atavica della natura. 
Come in Des Hommes et des Dieux, anche qui il regista non rinuncia al lirismo, alla ricercatezza formale, alla bellezza estetica (incarnata dalla sontuosa fotografia di Caroline Champetier, non a caso la stessa operatrice del film del 2010, nonché di Holy Motors di Carax e Les Innocentes di Anne Fontaine), accompagnando lo spettatore in un immobile viaggio liturgico in cui si abbracciano i colori suadenti del bosco, dei fiori, delle spighe di grano. Eppure, in una confezione di notevole eleganza, Beauvois riesce a trovare anche concretezza, fornendo un incisivo ritratto di donne forti e coraggiose che portano sulle proprie spalle il costante peso della perdita ma riescono ad asciugare le lacrime e dedicare ogni stilla di energia ai campi, alle attività da svolgere giorno dopo giorno, al mantenimento della fattoria come obiettivo primario e intoccabile. Sfidando lo sfinimento e proseguendo sempre a testa alta, a denti stretti, chiudendo il loro cuore nel nome della saggezza oppure aprendolo a un desiderio di emancipazione e/o verso un genuino sogno d’amore.
​Per oltre due ore anche noi stiamo là, alla tenuta dei Paridier, ipnotizzati davanti a un film in cui si parla poco e si lavora tanto, tantissimo. Lo stile di Beauvois, quasi sacrale e mai invasivo, accoglie panoramiche silenti, primi piani di volti scavati dallo sforzo, note solenni del grande compositore Michel Legrand e connotazioni vicine al western. Una visione che richiede un minimo di concentrazione, in teoria priva del puro elemento emozionale, in realtà fiera, intensa e toccante.

​Per dare corpo e tangibilità alle sue protagoniste, Beauvois si affida alla sempre bravissima Nathalie Baye, alla discreta Laura Smet (madre e figlia nella vita reale, per la prima volta insieme su un set cinematografico) e alla debuttante Iris Bry. Accanto a loro alcuni uomini, presenze assenze con minutaggi inferiori, tra i quali si segnala Olivier Rabourdin (che ricordiamo ad esempio per l’ottimo Eastern Boys). Quattro nomination ai César per Les Gardiennes, compresa quella come miglior speranza femminile proprio per l’esordiente Iris Bry, il cui approdo nel mondo del cinema è stato a dir poco sorprendente. Si tratta infatti di una ragazza che non aveva alcuna esperienza di recitazione né alcun progetto di diventare attrice. Un giorno, per caso, all’uscita di una libreria, è stata notata dalla direttrice del casting Karen Hottois, che colpita dal suo viso l’ha inseguita e fermata per strada, chiedendole se fosse interessata a fare un provino per un film. L’ennesima dimostrazione di come, a volte, il destino possa davvero cambiare tutta una vita.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Les Gardiennes
Regia: Xavier Beauvois
Sceneggiatura: Xavier Beauvois e Frédérique Moreau (dal romanzo Les Gardiennes di Ernest Pérochon)
Montaggio: Marie-Julie Maille
Costumi: Anaïs Romand
Fotografia: Caroline Champetier
Musiche: Michel Legrand
Anno: 2017
Durata: 134’
Attori: Nathalie Baye, Iris Bry, Laura Smet, Cyril Descours, Gilbert Bonneau, Olivier Rabourdin, Mathilde Viseux-Ely

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LA CASA SUL MARE (La Villa) – Al centro del mondo

5/5/2018

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​A volte accade. Succede che scopri un autore e te ne “innamori”, al punto di iniziare a seguirlo con assoluta e viscerale fedeltà lungo gli anni, ricavando la gioiosa impressione di incontrare un caro amico ogni volta che ti appresti a vedere un suo nuovo film. 
A volte accade. Sovente, a dire il vero. Ma raramente con un'intensità tale da superare i confini della semplice ammirazione. Per certi versi è ancora più bello se ciò si verifica con un autore non di primo piano, diciamo pure di nicchia; perché così lo senti ancora più “tuo” e l'affezione per lui assume contorni ancora più speciali. A maggior ragione se nel corso del tempo ti rendi conto di amare così tanto un personaggio che ti conferma in ogni occasione una qualità fondamentale, purtroppo troppo spesso trascurata o sbeffeggiata: la coerenza. 

L'esempio di Robert Guédiguian reca in sé aspetti assai poco paragonabili a qualsiasi altro regista. Sia per come ha sempre portato avanti la sua carriera innalzando la suddetta coerenza a tratto imprescindibile e intoccabile del suo cinema, sia per la magia con cui si è costruito intorno una vera e grande famiglia che lo accompagna con immutabile fedeltà da oltre 30 anni. Una famiglia che da un lato trascende l'arte per abbracciare la realtà (Ariane Ascaride, musa sullo schermo e fedele compagna nella vita) e dall'altro si rifugia proprio nell'arte per richiamare, ancora e sempre, gli stessi attori/amici (Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet). Loro, ancora loro, sempre loro, con lui dall'inizio, sin dal primo lungometraggio (Dernier été, 1980, dove già c'erano la Ascaride e Meylan) o arrivati poco dopo (Darroussin in Ki lo sa, 1985) per poi non andarsene più. 
La lieta famiglia di Guédiguian non si è mai smembrata, si è rinfrescata dotandosi di nuovi membri (Anäis Demoustier), è nel frattempo ovviamente invecchiata, ma è sopravvissuta a tutto, con incredibile costanza, riunendosi felicemente per l'ennesima volta all'alba del 2017, per dare vita, corpo e anima a La casa sul mare (La Villa), ventesimo lungometraggio dell'autore marsigliese, presentato e applaudito al festival di Venezia e per fortuna approdato alcuni mesi dopo anche nelle sale.

L'amicizia e gli affetti della vita reale, in La Villa, si fondono ancor più del solito con la finzione scenica. La Ascaride, Meylan e Darroussin (tutti e tre magnifici, come sempre) interpretano infatti tre fratelli che dopo tanti anni di separazione si ritrovano nella loro casa d'infanzia, affacciata sul mare, al capezzale del padre, colpito da un ictus all'apparenza irreversibile. Angèle è un'attrice segnata dal lutto, perché proprio in quel luogo 20 anni prima aveva perduto una figlia, tragicamente annegata, e da quel momento non aveva più voluto tornare vicino a quelle acque, simbolo di un dolore mai rimarginato. Joseph è un ex sindacalista votato alla lotta operaia, un aspirante scrittore disilluso e colpito dalla perdita del posto di lavoro e da una depressione mai superata, nonostante uno spirito sagace e la dolce presenza al suo fianco di Bérangère, fidanzata molto più giovane di lui. Armand è invece un uomo semplice, rimasto sempre lì a fianco del padre, per mantenerne in vita ideali e ambizioni (il ristorante a prezzi bassi per gente con pochi soldi) e salvaguardare la terra natia dagli inevitabili cambiamenti del tempo. 
Intorno ai tre fratelli, all'improvviso di nuovo insieme dopo 20 lunghi anni, si muovono figure di contorno solo in apparenza secondarie, come Martin, vecchio amico che non vuole in alcun modo accettare l'aiuto del figlio per il proprio sostentamento e progetta, insieme all'amata compagna, una fuga “definitiva”, e Benjamin, giovane pescatore follemente innamorato di Angèle e capace di recitare a memoria intere opere teatrali.
Cambiamenti, si diceva. In quel posto davanti al mare nulla è più come in passato. I turisti se ne sono quasi tutti andati, la gente vende le proprie case, le feste e l'eccitazione fremente di una volta non esistono più. Ma forse sono soprattutto loro, i protagonisti della vicenda, a essere cambiati, marchiati dal destino, da fortune e sventure, da scelte giuste o errate, da vittorie e sconfitte. Eppure, per qualche giorno, quel piccolo angolo di Francia diventa “il centro del mondo”, un nucleo in cui accadono eventi imprevisti e incontri sorprendenti, amori nascono e altri intrecciano le proprie mani per l'eternità, si riacquistano sorrisi smarriti nell'oblio e si acquisiscono consapevolezze, rinasce la speranza e appaiono nuovi sogni. Perché sì, è evidente, tutto “era meglio prima”; ma ciò non significa che anche adesso non possa palesarsi qualcosa di magico, forse perfino di miracoloso. Un qualcosa destinato a mutare percezioni del presente e proiezioni future.
​Così, proprio lì, “au centre du monde”, da dove si era fuggiti per sopravvivere e dove si è tornati controvoglia, forse alla fine si vorrà perfino rimanere. Magari per sempre.

Purezza. In questo parola risiede la coscienza più profonda del film. Guédiguian parla d'amore soffiando su melodie intime e soavi, rimpiange il passato dandosi (e dandoci) però anche speranze per l'avvenire, conferma se stesso e ci culla con un delicato racconto che commuove con semplicità. Non siamo di fronte a una favola (come nel recente Au fil d'Ariane), né a una storia che sfocia nella Storia (come in L'armée du crime o Une histoire de fou). È forse un lavoro che si avvicina di più alle opere giovanili dell'autore; non a caso Guédiguian, oltre a citare Claudel e Brecht, cita se stesso (inserendo una giocosa scena tratta da Ki lo sa, con la triade Ascaride-Darroussin-Meylan presente al gran completo), ma non si vede alcun tipo di arroganza o supponenza in una scelta simile. È semplicemente un omaggio alla giovinezza ormai lontana, sua e dei suoi attori/compagni/amici, e al contempo un messaggio dedicato alla vita che avanza, colpisce, ferisce ma non si spegne. 
L'ultima parte, in cui il racconto intimo dei protagonisti si allarga a tematiche attuali inerenti l'immigrazione, riconduce parzialmente al Kaurismaki di Miracolo a Le Havre e L'altro volto della speranza. Un elemento narrativo forse non indispensabile, che peraltro si amalgama senza difficoltà al resto dell'opera e nulla toglie alla concretezza della pellicola, acuendone anzi i tratti rivolti al senso atavico dell'umana solidarietà. E se è vero che La casa sul mare non tocca i picchi emotivi di opere come La ville est tranquille, Marius et Jeannette e À la place du coeur, è altresì vero che davanti a un simile dipinto filmico, candido e colorato di bontà, rispetto e sensibilità, non si può che ringraziare per l'ennesima volta Monsieur Guédiguian e la sua splendida famiglia. Artisti di grandissimo spessore e persone vere, avvolte da legami profondissimi, da fili impossibili da spezzare, da sentimenti che non finiranno mai.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose, Film al cinema

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Scheda tecnica

Titolo originale: La villa
Anno: 2017
Durata: 117'
Regia: Robert Guédiguian
Sceneggiatura: Serge Valletti e Robert Guédiguian
Fotografia: Pierre Milon
Montaggio: Bernard Sasia
Attori: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin

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L'AMANT DOUBLE – La doppia vita dell'amore

7/11/2017

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​Titoli di testa. Musica opprimente. Lo sguardo misterioso di una ragazza mentre si fa tagliare i capelli. La sensazione di un pericolo imminente. Il senso primario di un viaggio tra i sentieri dell'incubo. Poi, subito dopo, il dettaglio di una vagina. 
Indizi. Immediate chiavi di lettura di ciò che sarà. Il corpo, violato dalla macchina da presa. Il sesso. L'inquietudine. Il sommovimento di ruoli e sensazioni. L'afflato disturbante. Briciole di pane utili per non perdersi tra i successivi labirinti narrativi di L'amant double, nuovo lavoro di François Ozon, presentato in concorso all'ultimo Festival di Cannes e accolto da giudizi a dir poco contrastanti, tra entusiasmi senza remore e pesanti reticenze.

Ispirato al romanzo breve Lives of the Twins di Joyce Carol Oates, il film narra la vicenda di Chloé, fragile donna di 25 anni che soffre di perenni dolori al ventre, dovuti forse a stress nervoso. Su consiglio del proprio medico Chloé inizia una serie di sedute nello studio di Paul, psicologo attento e silente, del quale la donna, aprendosi a lui e raccontandogli la sua vita, presto si innamora, ricambiata. I due iniziano una relazione di coppia e vanno a convivere. La condivisione degli spazi conduce però in breve tempo a insofferenze causate dal fatto che, mentre Paul sa tutto di Chloé, lei non sa quasi nulla di lui e del suo passato. I turbamenti degenerano nel momento in cui la ragazza scopre l'esistenza di Louis, fratello gemello di Paul, anch'egli psicologo, di cui il compagno non le aveva mai parlato. Assumendo una finta identità Chloé comincia a frequentare anche lo studio di Louis, restando immediatamente attratta dai modi decisi e dominanti dell'uomo, opposti rispetto alla dolcezza caratteriale di Paul. Si avvia così un doppio legame, una doppia relazione, un meccanismo perverso che scatena reazioni a catena e lascia riemergere dalle tenebre segreti inconfessabili. 

È innegabile come in questi ultimi anni Ozon si sia imposto come uno degli autori più brillanti e costanti di tutto il cinema non soltanto francese, bensì europeo. Conosciuto e amato da tanta parte del pubblico sin dalle sue prime opere di successo (Les amants criminels, 1998, Sous le sable, 2000), il regista parigino nel tempo ha trovato una compiutezza stilistica eccezionale, grazie alla quale ha recentemente realizzato un quartetto di lavori di livello assoluto (Dans la maison, Jeune et Jolie, Une Nouvelle Amie e Frantz). Forse conscio del proprio stato di grazia, Ozon ha deciso questa volta di andare oltre, di alzare ancora di più il tiro, imbastendo un dedalo filmico di non facile assimilazione ma di indubbio interesse. 
Nel racconto della doppia vita amorosa della giovane Chloé (un'ottima Marine Vacth, bella conferma dopo la folgorazione di Jeune et Jolie), del rapporto “malato” con i gemelli Paul e Louis (entrambi rappresentati dallo sguardo magnetico di Jérémie Renier), dell'ingannevole sviluppo spiraliforme che accompagna tutta la durata del film tradendo continuamente le attese per farsi altro da sé, Ozon ha voluto per certi versi sfidare lo spettatore, tentanto di trascinarlo in un vicolo morboso, grondante alta tensione, situato all'estremo opposto rispetto alle sfavillanti luci melò di Frantz. 
I temi tanto cari alla poetica ozoniana, dalla sessualità in perenne mutamento al corpo come eterno contenitore di seduzione e scoperta, trovano ancora modo di farsi vivi, dovendosi però in questo caso scontrare con gli ostacoli di una sceneggiatura che declama gli schemi di genere salvo poi sbottonarsi da ogni gabbia, quasi a voler a tutti i costi mostrare una libertà artistica che finisce, in qualche punto, paradossalmente, per eccedere senza validi motivi. Ciò non basta, comunque, a cancellare la fascinazione che ancora una volta Ozon riesce a porre sul piatto, utilizzando come sempre la forma, elegante ma mai pomposa, per dare sostanza e anima all'intreccio, appoggiato sui gradini di una scala a chiocciola sulla quale i protagonisti girano storditi e perduti.
Abile nel disegnare immagini erotiche stuzzicanti e ardite (vedasi il cunnilingus "insanguinato" e la scena della sodomia donna-uomo fatta da Chloé a Paul con l'ausilio di uno strap-on, tanto per ribadire una volta ancora il gusto di Ozon per il ribaltamento dei ruoli), l'autore lascia scivolare il suo film, in più occasioni, nelle terre buie dell'horror, assommando inoltre una vasta serie di omaggi cinefili più o meno evidenti, da Hitchcock a De Palma, da Cronenberg al Polanski di Rosemary's Baby, giungendo perfino a sfiorare (presumiamo inconsapevolmente) il Takashi Miike di Imprint (devastante e allucinato episodio dei Masters of Horror), senza peraltro nascondere mai il suo tocco personale e ben riconoscibile. 
Non è un caso che dopo il passaggio a Cannes il film sia stato in molti casi denigrato e accusato di voler “prendere in giro” la platea. Anche la stampa francese, all'indomani dell'uscita nelle sale transalpine, si è schierata su fronti opposti. In effetti, durante la visione, si avverte la sensazione di un gioco, voluto e divertito, architettato per confondere le idee. Ma non è che questo debba per forza deve essere sinonimo di burla nei confronti del pubblico. L'importante è essere disposti a giocare anche noi, senza voler esigere a ogni costo il banale e stantio rispetto delle regole. 
Se si riesce a porsi davanti al film con questo stato d'animo, si potranno apprezzare le qualità di una pellicola che, pur non avendo la stessa lucidità e solidità delle splendide opere precedenti, sa trovare piena dignità e regalare confusione e turbamenti, sogni e incubi, attrazione e repulsione, certezze e dubbi, corpi frementi e anime dolenti. Un universo seducente e arcano. Anzi due. O forse di più. Mondi infiniti. Come infinite sono e sempre saranno le sfumature dell'amore. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

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​Scheda tecnica

Anno: 2017
Durata: 110'
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon
Fotografia: Manuel Dacosse
Montaggio: Laure Gardette
Musiche: Philippe Rombi
Attori: Marine Vacth, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset, Myriam Boyer

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