ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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ANNETTE – We love each other so much

24/11/2021

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Lui, attore, stand up comedian irriverente, provocatore, fuori dagli schemi ma capace di far ridere tutto il pubblico. Lei, famosa soprano specializzata in finte morti sulla scena. Un amore glamour che però va anche in profondità, oltre ai paparazzi e ai titoli sensazionalistici nei programmi televisivi. Un legame forte, puro, almeno in apparenza, sino a che la nascita della loro figlia non provoca, per paradosso, il sorgere di difficoltà, invidie, rabbia sopita, sentimenti oscuri che deflagrano sino a scendere nei vortici innominabili del misfatto e dell’autodistruzione.

«So may we start?»

Sì, potete cominciare. Siamo pronti a venire con voi, attenti e fiduciosi, mano nella mano, tra le spire di un viaggio cinematografico che ci porterà in universi paralleli da cui faremo fatica a riemergere. E sarà bello. Bellissimo. Ne siamo sicuri. Lo capiamo fin da subito, dai primi istanti, quando la voce di Leos Carax ci invita a zittire le parole, a fermare persino il respiro, per immergerci totalmente nella vicenda che a breve seguirà.

Già da quei primi secondi sorge il sospetto che ciò che stiamo per vedere ci resterà nel cuore. Indizio che diventa certezza immediatamente dopo, quando lo stesso Carax e i fratelli Sparks, autori del soggetto originario e della colonna sonora, escono da una sala di registrazione, incontrano i principali attori del film e iniziano a camminare, insieme, cantando, in una processione tramite la quale essi chiedono il permesso di dare avvio alla sospensione temporanea di ogni contatto con la nostra quotidiana realtà, prima di farsi (letteralmente) passare i costumi di scena e assumere l’aspetto dei propri personaggi. Un incipit strepitoso, irresistibile, da cui usciamo inermi, pronti a tutto, esaltati dalla sensazione/convizione che l’opera in progressivo svelamento davanti ai nostri occhi risulterà indimenticabile.

«It’s time to start!»

Inutile perdersi in complessi giri di parole o tediose analisi critiche. Alle volte le cose è sufficiente esclamarle con semplicità: Annette è una meraviglia. Centoquaranta minuti di cinema sublime, tra luci della ribalta, ombre del pensiero, creatività illimitata, ubriacanti sfumature di colore e fantasia, musiche strepitose e fantasmi dall'oltretomba.

Le maschere del capolavoro Holy Motors trasformate in geniali burattini ebbri di fascino romantico e inquietante; Adam Driver che sfoggia i muscoli, fa ondeggiare la sua vestaglia, violenta il microfono, simula un’andatura sgraziata e sciancata ma canta come un usignolo, neanche fosse quello il suo mestiere da sempre; Marion Cotillard che pare un'odalisca e si muove lieve, alla stregua di una libellula, a piedi nudi sulla terra e tra le stelle. E poi, stacchetti e brani interi che si stampano nel cervello, scene da antologia in costante dialogo diretto o indiretto con il pubblico dentro e oltre lo schermo, lo spettacolo che culla la poesia e dopo muta in un quasi horror intriso di atti impuri, rimorsi e punizioni senza salvezza. Sino alla chiusura del cerchio, durante i titoli di coda, quando Carax, gli attori e stavolta pure i membri della troupe tornano in processione per augurarci la buonanotte.

«Let’s waltz in the storm!»

Dentro ad Annette ci sono tematiche non nuove ma nemmeno banali: la sete di successo, lo sfruttamento minorile, la spietatezza dello show business, l’egoismo della gente che va a teatro godendo nel vedere le tragedie perché ogni volta «lei muore al posto nostro». E c’è Carax, all’esordio in lingua inglese (ma con produzione in buona parte francese), con la sua imperitura voglia di prendere a calci in faccia i modelli preconfezionati, e pure il bisogno di psicanalizzarsi per trovare, chissà, un po’ di tregua dai demoni che lo perseguitano. Non manca nemmeno l’autocompiacimento, senz’altro, così come si notano alcune sequenze allungate forse oltre la reale necessità. Ma francamente, poco importa. Perché tutto il resto vola alto, altissimo, toccando vette paradisiache in un paio di momenti di commovente splendore (la prima esibizione pubblica della piccola, il suo dialogo finale con il padre) e mantenendo un costante livello di raggiante ispirazione che avvicina il miracolo, a maggior ragione in questi tempi di cinema spesso inscatolato e incapsulato.

«Sympathy for the abyss»

La nascita di una bimba/fantoccio/marionetta («push push push, that’s it!»), il solletico nel letto, un drammatico naufragio tra onde blu cobalto, una tenerissima dichiarazione d’amore tra note delicate («we love each other so much»), il rombo della motocicletta, le mele morsicate, le dolci odi alla luna, il richiamo del precipizio: Annette vive di accenti, contrasti, opposti, invenzioni, ferite, revenant, deflagrazioni, voci angeliche, corpi sensuali, corpi innocenti, corpi straziati, costruendo un mosaico che lascia storditi e scalando la vetta di miglior film dell’anno.

Così, quando la troupe ci saluta, ballando sorridente e festante, noi non possiamo fare altro che ricambiare e applaudire. Dicendo un forte e sincero grazie.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose, Film al cinema
 
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Scheda tecnica
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Anno: 2021
Durata: 139’
Regia: Leos Carax
Sceneggiatura: Sparks, Leos Carax
Fotografia: Caroline Champetier
Montaggio: Nelly Quettier
Musiche: Sparks
Attori: Adam Driver, Marion Cotillard, Simon Helberg, Devyn McDowell
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PETITE MAMAN – La magia dell’infanzia

21/10/2021

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​​Nelly ha otto anni. Quando sua nonna muore in una casa di riposo, lei e i suoi genitori si recano nell'abitazione dell’anziana per sistemarla e svuotarla. Alla tristezza per la scomparsa della donna si aggiunge l’inattesa sparizione della madre, la quale una mattina senza preavviso se ne va lasciando Nelly da sola con il padre. Per occupare le ore la bimba si reca nel bosco circostante e incontra Marion, coetanea che sta costruendo una capanna tra gli alberi (proprio come aveva fatto la mamma di Nelly tanto tempo prima, nello stesso luogo). Tra le due si stringe subito un legame d’amicizia, utile a entrambe per combattere solitudine, smarrimenti e paure.

Céline Sciamma, senza alcun dubbio uno dei nomi più stimolanti dell’intero panorama europeo, prosegue con successo e piena efficacia la sua esplorazione di sentimenti, forza d’animo e fragilità che caratterizzano le età giovanili. Dopo i pregevoli Naissance des pieuvres e Tomboy e gli splendidi Bande de filles e Portrait de la jeune fille en feu (oltre a lavori eccellenti in veste di sceneggiatrice, ad esempio per Ma vie de courgette), l’autrice francese realizza una mini favola ad altezza di bambina, nella quale si espandono le pregevolezze di un tesoro in miniatura.

Applaudita nel corso del Festival di Berlino e ispirata ai capolavori di Hayao Miyazaki, Petite Maman è un’opera contenuta in termini di durata (70 minuti), ambientazione e personaggi coinvolti. L’aspetto minimale non si traduce però affatto in parzialità d’analisi o povertà di significato. Pur in una cornice limitata, la Sciamma riesce una volta ancora a raggiungere corde profonde, emozionando per la delicatezza di sguardo, la facilità di tocco e l’ampiezza di percezioni che si emana da ogni singola inquadratura, in un film, per usare le sue stesse parole, «pensé pour rassembler en offrant les mêmes opportunités d’implication et de sensations pour les spectateurs petits et grands».

La storia di una bimba alle prese con le ferite di una doppia perdita, in un caso definitiva (la nonna), nell’altro temporanea ma angosciante (la madre), consente all’autrice di disegnare un lucido e sincero ragionamento sull’infanzia, periodo complesso e al contempo ebbro di appassionato coinvolgimento verso l’esistenza, anche nelle sue declinazioni in apparenza marginali eppure entusiasmanti. L’incontro di Nelly con Marion forma un senso di immediato legame, sviluppando poi momenti di semplice idillio racchiusi nell’atavica magia di un gioco qualsiasi, di una capanna da rinforzare e abbellire pezzo per pezzo, di un confuso ed esilarante tentativo di approccio culinario, di un dialogo sussurrato prima di addormentarsi, di un abbraccio che non ha bisogno di parole.

Nel candore di queste immagini, l’eventuale sospetto di riempimento fine a se stesso fa in fretta a scomparire; ogni tassello è infatti valido, finanche essenziale, per esplicare il turbine di pensieri che può accompagnare bimbe di quell’età, combattute tra la voglia di ridere e godersi ogni istante e l’obbligo di deviare la mente verso preoccupazioni e timori molto più “adulti” e inquietanti.

Il confronto è reso con la consueta bravura dalla Sciamma attraverso sequenze di carattere quasi documentaristico, alternate a svolte in cui si inneggia alla fantasia sfiorando l’elemento soprannaturale, senza peraltro mai scordare la potenza del campo visivo. Quest’ultima è esaltata dall’abile regia “silenziosa”, dai colori del clima autunnale e dall’insistenza sui volti dolci e puri delle sue protagoniste (le sorelle Joséphine e Gabrielle Sanz), alle quali si affianca, pur con poche apparizioni, Nina Meurisse, recentemente in primo piano nel notevole Camille, premiato nel 2019 a Locarno. L’innocenza è costretta a scontrarsi con incertezze per il futuro, nostalgie e addii non completati a dovere, ma a vincere è alla fine il coraggio, eroismo supremo che talvolta sa sconfiggere il dolore e ridare lustro alla speranza.

In fondo, Nelly e Marion appartengono alla stessa famiglia delle Marie ed Anne di Naissance des pieuvres, del/della Michael/Laure di Tomboy, dell’indimenticabile Marieme di Bande de filles (meraviglia al cui interno si cela una delle scene più belle degli ultimi 10/15 anni) e delle folgoranti Marianne ed Héloïse di Portrait. Racconti contemporanei e amori di epoche lontane, caotiche città e pacifiche campagne, soffocanti periferie e sospiri bucolici: sfondi assai diversi tra loro, ma sempre uniti dalla capacità di scavare nei cuori e regalare momenti di reale benessere intimo e contemplativo.

​Uno stratificato universo in divenire che la Sciamma continua a padroneggiare con ammaliante sicurezza, nel nome della volontà di non cedere al peso della vita.
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Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Film al cinema

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Scheda tecnica

Anno: 2021
Durata: 72’
Regia: Céline Sciamma
Sceneggiatura: Céline Sciamma
Fotografia: Claire Mathon
Montaggio: Julien Lacheray
Attori: Joséphine Sanz, Gabrielle Sanz, Nina Meurisse, Stéphane Varupenne, Margot Abascal
Uscita in Italia: 21 ottobre 2021
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ANTOINETTE DANS LES CÉVENNES – Io, lui, lei e l’asino

10/6/2021

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​Antoinette insegna in una scuola di Parigi. Al contempo, è l’amante del padre di una delle sue alunne. Le vacanze estive stanno per iniziare, e la donna è felice ed eccitata al pensiero che di lì a breve potrà trascorrere del tempo con lui. L’uomo però le annuncia che partirà per una settimana, con moglie e figlia al seguito, per una gita sulla catena montuosa delle Cévennes, durante la quale ripercorrerà il cammino compiuto nel 1878 da Robert Louis Stevenson e narrato in un celebre libro dello scrittore.
​Antoinette, profondamente delusa dalla notizia, compie un gesto istintivo e imprevedibile e si mette in viaggio, da sola, verso la stessa destinazione, mossa dalla speranza di incontrare sul posto l’amante e ricavare comunque dei momenti di intimità con lui, nonostante la presenza della famiglia. Giunta alla meta, scopre però che l’oggetto del desiderio non c’è. Avendo ormai pagato la (sostanziosa) quota prevista dal servizio organizzato, Antoinette resta lì e inizia ad affrontare il cammino di Stevenson, con l’unica compagnia di un testardo asino. Totalmente inesperta riguardo a questo genere di situazioni, dovrà affrontare tante difficoltà e misurarsi con ostacoli mai sperimentati; passo dopo passo riuscirà però a sviluppare una straordinaria empatia con l’animale e sarà in grado di reinventare se stessa, aprendo la strada a nuove speranze e nuove consapevolezze.

A volte si ha a che fare con film che non sembrano offrire alcun particolare spunto innovativo, né dal punto di vista della storia né sul versante tecnico; nonostante ciò, se ne ricava un intrattenimento piacevolissimo, derivato dalla bontà di lavori che non hanno bisogno di vezzi, idee eclatanti o lampi rivoluzionari per risultare tremendamente affascinanti. È il caso di Antoinette dans les Cévennes, opera seconda in veste di regista per Caroline Vignal (vent’anni dopo Les autres filles), uscito nei cinema francesi a settembre 2020 e distribuito in Italia a giugno 2021 con il consueto, orripilante titolo Io, lui, lei e l’asino, ennesima conferma di una pessima abitudine nostrana che pare proprio non voler conoscere fine. 

La storia della tenace Antoinette (e dell’asino Patrick) accoglie su di sé i dettami fondamentali della commedia romantica, accarezzando pure le coordinate del racconto di formazione e sfiorando il mito del western. Il pellegrinaggio spirituale (ma anche carnale) dell’eroina protagonista attraverso paesaggi da favola nel sud della Francia non si limita al mero gusto della scenografia da cartolina, ma sfrutta il tepore dell’estetica bucolica per sviluppare un senso di forte partecipazione alle vicende di una donna insieme caparbia e imbranata, dolce e un po’ svampita, romantica e appassionata, capace di scavare dentro di sé per scalare terreni impervi, crescere e maturare, superare le delusioni e regalarsi una rinnovata fiducia verso il domani.
Il ritratto appena espresso è portato in scena con gusto e sensibilità, strizzando l’occhio al cinema popolare senza per questo affogare nella banale e facile goliardia. Il film della Vignal è divertente, corroborante, gradevole in ogni istante, ma non perde mai di vista i significati importanti che lo nutrono, indirizzati verso precetti di rispetto per la natura e consapevolezze interiori, trovando un pregevole equilibrio tra autorialità e accessibilità.

Amato dalla stampa transalpina in modo pressoché unanime, Antoinette dans les Cévennes è realmente “un bijou de drôlerie qui touche en plein coeur” (Emily Barnett, Marie Claire), una boccata di aria pura, una nuotata distensiva contro le brutture del mondo, in un’acqua resa ancor più limpida dalla prova magistrale di Laure Calamy, premiata con un meritato César come miglior attrice dell’anno. 
Diventata famosa in Francia soprattutto per la serie televisiva Dix pour cent, ma apprezzata anche come interprete teatrale (premio Molière nel 2018 per Le Jeu de l'amour et du hasard di Marivaux) e vista spesso al cinema in film di qualità come Fidelio, l'odyssée d'Alice, Rester vertical, Nos batailles, Ava e Sibyl, la Calamy abbraccia qui la consacrazione della sua carriera e del suo talento, grazie all’abilità e alla spontaneità nel gestire una girandola impazzita di emozioni, tra entusiasmi genuini e fanciulleschi, improvvisi scoppi di pianto, scatti di rabbia e frustrazione, assortite tenerezze, soliloqui e imbarazzi. Una ridda di sentimenti che la Calamy sa rendere con toni e accenti irresistibili, naturalmente castrati o del tutto perduti con il doppiaggio, ragione per la quale, come sempre, il consiglio è se possibile di vedere la versione della pellicola in lingua originale.

Con lei, sempre in scena, espletiamo anche noi un ideale cammino di Stevenson, sulle tracce di una missione forse troppo complicata, di un amore forse impossibile, lasciando però la porta aperta a ogni soluzione che il destino possa presentare. E in una pausa ci sediamo e sorridiamo, liberi e sereni, lasciandoci andare persino a un bacio inatteso, mentre intorno risuonano le note del leggendario brano My Rifle, My Pony and Me, già utilizzato nel 1959 da Howard Hawks per il capolavoro Rio Bravo (Un dollaro d’onore).
In quel bacio, in quella melodia, la notte distende i sogni, lasciando poi spazio alla corsa disperata verso un caro amico a cui dire addio (o magari no), giusto epilogo di un film che non inventa nulla ma fa davvero bene all’anima.
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Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

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Scheda tecnica

Titolo originale: Antoinette dans les Cévennes
Regia e sceneggiatura: Caroline Vignal
Fotografia: Simon Beaufils
Costumi: Isabelle Mathieu
Montaggio: Annette Dutertre
Musiche: Matei Bratescot
Durata: 95’
​Anno: 2020
Uscita in Italia: 10 giugno 2021
Attori: Laure Calamy, Benjamin Lavernhe, Olivia Côte
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MYFFF 2021 – Tu mérites un amour, di Hafsia Herzi

29/1/2021

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​«Tu mérites un amour qui veuille danser avec toi, qui trouve le paradis chaque fois qu’il regarde dans tes yeux, qui ne s’ennuie jamais de lire tes expressions… Tu mérites un amour qui balayerait les mensonges et t’apporterait le rêve, le café et la poésie.» (Frida Kahlo)
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La fine di una relazione, con tutto ciò che ne consegue. Dolore, rabbia, angoscia. Lacrime, difficoltà di accettazione, desiderio di rivalsa. Gelosia, mancanza di lucidità, assenza di controllo. Volontà di lasciarsi andare alla deriva, naufragando dolcemente nel mare del buio. Oppure orgoglio e forza nel reagire e correre incontro alla vita. Sempre però con quel sentimento pulsante, intoccabile e indistruttibile che bussa alla porta.
​Scoprire lui a casa di un’altra donna, tuffarsi nella collera al punto di ridursi a pedinamenti e minacce. Ingaggiare sedicenti guru per riti pseudo magici. Vederlo allontanarsi sempre più, poi tornare, poi di nuovo sparire, poi ancora tornare. Nel frattempo darsi, ad altri, per rapporti fugaci, improvvisi e improvvisati, piacevoli ma forse del tutto inutili. Perché nella mente c’è ancora soltanto lui.
​
In occasione dell’uscita in Francia di Alice et le maire (Alice e il sindaco), durante un’intervista promozionale, un giornalista chiese ad Anaïs Demoustier quale fosse il film che in assoluto l’aveva più colpita ed emozionata tra tutti quelli visti durante l’anno (il 2019). Anaïs rispose Tu mérites un amour, di Hafsia Herzi. Una scelta sorprendente, almeno a livello teorico, ma a conti fatti non così tanto, dato che nell’opera d’esordio in veste di regista della Herzi ritroviamo molti elementi di quel cinema libero e sfrontato che alla Demoustier piace sempre interpretare.
Nel disegnare le chagrin d’amour di una giovane donna alle prese con le mille battaglie interiori che accompagnano il termine temporaneo o definitivo di una storia, la Herzi riempie i tratti di una rappresentazione aperta, vivace e passionale che osa e sfida le convenzioni. L’attrice salita alla ribalta in La grain e le mulet di Abdellatif Kechiche (Cous Cous, 2007) mette in scena un qualcosa che assomiglia a un one woman show: scrive la sceneggiatura, dirige, finanzia con i suoi soldi e si affida pure il ruolo di protagonista, alternando il lavoro davanti e dietro la macchina da presa, alla quale si concede con notevole intensità espressiva in un affascinante girotondo di variazioni d’umore.

Lila, personaggio che assomiglia nelle fattezze a Frida Kahlo («ma tu sei molto più bella» gli sussurra un timido apprendista fotografo che le chiede di fargli da musa), è lo specchio riflettente della stessa Herzi, la quale, ben coscia della propria sensualità, non ha paura di dedicarsi a baci voluttuosi con diversi partner e a mostrare (peraltro quasi del tutto fuori campo) persino un rapporto a tre, senza comunque che il sesso diventi il punto dominante del racconto. Nel suo viaggio tra i tormenti del sentimento l’attrice-regista soffia infatti nella narrazione un caleidoscopio di primi piani disfatti, sane risate, danze liberatorie, attimi giocosi, esplosioni d’ira, stasi di malinconia, solidificando una figura femminile a tutto tondo alla quale, dopo qualche remora iniziale, si finisce per affezionarsi e non poco.
In Tu mérites un amour non vi è nulla di nuovo o stupefacente. Ma ciò che c’è respira, scuote e trova evidenti elementi di contatto con la realtà di tanti di noi, facendosi portavoce di esperienze concretamente vissute. Sulla scia del suo mentore Kechiche, palese fonte di ispirazione (è anche ringraziato nei titoli di coda), Hafsia Herzi cerca di raccontare una storia comune attraverso uno sguardo però attento e brulicante di vibrazioni e sensazioni contrastate, dandoci l’impressione di entrare nella messinscena e partecipare a dialoghi con amici di tutti i giorni. Molto pare improvvisato, ma in verità tutto è scritto. Eppure suona naturale e fluido, caratteristica che non a caso ritroviamo splendidamente espressa nella filmografia dell’autore di La vie d’Adèle e Mektoub My Love.
Il valore aggiunto è lei, Hafsia; se stessa, le sfumature del viso, i lineamenti del corpo, il maglione giallo in contrasto con la pelle bruna, le frasi concitate, i farfugliamenti, le (volute) ripetizioni di gesti e parole. Rare sono le inquadrature in cui non è presente; questo aspetto lascia talvolta insinuare un sospetto di leggero egocentrismo, ma il fastidioso sentore è accantonato grazie alla bontà di alcuni personaggi di contorni completamente indovinati, in particolare l’amico gay pieno di verve e malizia (un irresistibile Djanis Bouzyani) e il sopracitato fotografo, simbolo d’innocenza in un mondo corrotto ed egoista.
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Girato con pochi mezzi, selezionato a Cannes, applaudito in modo unanime dalla stampa transalpina, inedito in Italia ma acquistabile e visibile in streaming fino a metà febbraio 2021 con i sottotitoli nell’ambito del My French Film Festival, Tu mérites un amour cavalca e doma onde selvagge, approdando a una soffice sequenza finale che dà ulteriore lustro a tutta l’operazione. 
Lì risiede il piccolo grande rimedio alla pena del cuore. Un abbraccio. Una spalla silente a cui appoggiarsi. Una semplice carezza.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Tu mérites un amour
Regia e sceneggiatura: Hafsia Herzi
Musiche: Nousdeuxtheband
Fotografia: Jérémie Attard
Montaggio: Maria Giménez Cavallo e William Wayolle
Anno: 2019
Durata: 102’
Attori principali: Hafsia Herzi, Djanis Bouzyani, Jérémie Laheurte, Anthony Bajon, Sylvie Verheyde

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PAPICHA – Un sogno chiamato libertà

11/10/2020

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​Cantare. Ballare. Urlare. Organizzare una piccola sfilata di moda. Giocare con un pallone a piedi nudi tra le pozzanghere. Ridere insieme alle amiche. Sentirsi viva e affermare la propria individualità. Sentimenti e gesti semplici, ovvi, scontati. In teoria, ma non nella pratica, se sei una ragazza in età universitaria nell'Algeria degli anni '90, luogo indirizzato verso il buio della ragione, dove i fondamentalismi religiosi crescono a dismisura e tracimano in regole becere che privano le donne di qualsiasi diritto.
​Eppure vuoi lottare, per il presente e il futuro, perché ami la tua terra, per il desiderio di sottrarti all'orrendo oscurantismo dilagante. Anche se intorno a te le ragazze “ribelli” iniziano a essere persino ammazzate a bruciapelo, se rifiutano di coprirsi interamente il corpo e cercano di non rassegnarsi a un'esistenza silente racchiusa nella prigione del pensiero e dell'azione.

Il quadro appena enunciato scuote l'anima e il senso di Papicha, esordio nel lungometraggio di Mounia Meddour, selezionato a Cannes 2019, uscito nei cinema francesi a ottobre dello stesso anno con cospicuo successo di pubblico e critica, premiato con 2 César (migliore opera prima e migliore attrice emergente per la protagonista Lyna Khoudri) e arrivato finalmente nelle sale italiane a fine agosto 2020, con il titolo Non conosci Papicha (consueta variazione risibile e inutile). Un'opera che unisce valore tecnico, abilità di scrittura e profonda importanza di un messaggio che parte dallo specifico ambito di riferimento per farsi appello universale contro follie e sopraffazioni insopportabili e inaccettabili.

La storia è appunto quella di Nedjma, detta Papicha, ragazza che in un'Algeria in rapido affondamento verso l'estremismo trascorre le sue giornate in un campus universitario da cui in pratica può uscire solo per visite alla madre o notturne fughe clandestine, favorite da un compiacente guardiano a cui lasciare di volta in volta una lauta mancia. Nedjma ama cucire, ha talento e fantasia, compone vestiti su misura che vende alle compagne e immagina di mettere in atto una vera sfilata. Le amiche del cuore, come lei disgustate dalle norme sempre più restrittive in via di definizione o al contrario già promesse spose, la spalleggiano nel progetto, mentre fuori la violenza e l'intolleranza assumono i contorni di un mostro spaventoso da cui si rischia di essere divorati.

Nella paura, tra le fauci della tensione, camminando tra squarci di autonomia che si assottigliano inesorabilmente, Papicha morde il terreno, sputa in faccia alla cecità dell'ossessione religiosa, si sveste invece di coprirsi e si rende sensuale con trucchi e smalti, rincorrendo l'intenzione di esprimere istinto e indipendenza. Ma il mondo malato che la attornia toglie (letteralmente) la corrente e stringe il giogo, travisando e bruciando cervelli, cavalcando le onde di una tragedia ormai già in atto e alzando muri attorno al collegio-carcere. 

Nonostante gli sforzi e il coraggio, tutto sembra perduto. C'è però bisogno di combattere. Ancora e ancora più che mai. 

La Meddour porta nel suo lavoro elementi di chiaro autobiografismo: la regista infatti ha trascorso l'adolescenza in Algeria, studiando giornalismo in una cité simile a quella ricostruita nel film, prima di fuggire verso la Francia insieme alla famiglia (il padre, anche lui cineasta, era già stato vittima di minacce per la sua attività intellettuale). Percorso non dissimile da quello di Lyna Khoudri, anche lei scappata dall'Algeria insieme al padre durante quegli stessi anni '90 qui rappresentati in una finzione che tale non è, in quanto specchio fedele della realtà del periodo. 

La costruzione della sceneggiatura e il tratteggio spazio-temporale riportano dunque a concrete esperienze di vita, ma la Meddour non si limita a uno schema simil-documentaristico, regalando al film emozioni forti, intense, brulicanti, in bilico e alternanza tra fasi leggere e gaudenti dove il dramma gratta sottopelle e pugni nello stomaco che tolgono il fiato. A questo si aggiunge una brillantezza nella messinscena tutt'altro che banale, simboleggiata ad esempio da una devastante scena di omicidio in cui l'atto stesso è inquadrato in flou sullo sfondo e in piano ravvicinato si assiste al graduale shock espressivo di Nedjma, la quale comprende ciò che è appena avvenuto anche senza bisogno di girarsi e guardare; il sonoro inoltre per qualche istante sparisce, al fine di costringerci a "subire" l'evento sconvolti e muti.

Papicha, in originale parlato nel particolare dialetto françarabe (commistione di lingua francese e termini francofoni “arabeggiati”), è un film da applaudire a lungo e senza dubbio alcuno, per l'invidiabile amalgama di tanti tasselli ognuno al posto giusto: la qualità di conduzione, i toccanti turbamenti, il ritmo sostenuto, il magnetismo della splendida protagonista, il disegno di alcune figure secondarie ma essenziali (l'indisciplinata ma fragile Wassila, la docile Samira, il proprietario della merceria, il custode e la direttrice dell'istituto).
​Sopra a tutto si erge poi quel messaggio, onnipresente e mai troppo ribadito, rivolto verso un'utopia che tale nemmeno dovrebbe essere, in Algeria come in ogni altro paese: un grande sogno chiamato libertà.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Papicha
Anno: 2019
Durata: 108'
Regia: Mounia Meddour
Sceneggiatura: Mounia Meddour e Fadette Drouard
Musiche: Robin Coudert
Attrici: Lyna Khoudri, Shirine Boutella, Amira Hilda Douaouda, Zahra Doumandji
Uscita in Italia: 27 agosto 2020

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ROUBAIX, UNE LUMIÈRE – Una luce nell’ombra

15/7/2020

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​Roubaix. La città più povera di tutta la Francia. Un luogo un tempo florido, dove oggi invece restano soltanto povertà, degrado, squallore e delinquenza. Una terra desolata e desolante, teatro di nefandezze quotidiane: furti nei panifici per pochi euro, uomini di mezza età che danno fuoco alla loro macchina e poi fingono di essere stati assaliti per provare a intascare i soldi dell’assicurazione, adolescenti in fuga dai genitori, stupri nei sottopassaggi, ragazzi di strada che sopravvivono con mezzi poco leciti.
​
Questa è la normalità di Roubaix. Anche a Natale. Non è facile essere commissario di polizia in un posto così: ogni sforzo pare inutile, ogni crimine risolto è immediatamente sostituito da un altro, ogni delinquente consegnato alla giustizia è rimpiazzato in un istante. Eppure continui a fare il tuo lavoro, spinto da una missione quasi mistica. La tua famiglia è partita, se n’è andata altrove. Tu invece sei rimasto, perché questa terra la ami. Ci sei cresciuto, giocavi al parco da bambino, la senti parte della tua anima. Dunque vai avanti, pur nella solitudine e nell’eterna frustrazione.
​ 
E ormai conosci. Sai. Hai visto praticamente tutto, al punto che per smascherare colpevolezza o innocenza ti è sufficiente guardare una persona negli occhi o immedesimarti nel suo modus operandi. Riesci perfino a ricostruire alla perfezione il percorso esistenziale di un sospettato, seguendo unicamente istinto ed esperienza. Così prosegui, senza orari, tra interrogatori e deposizioni, tracce e confessioni, ricerche e collegamenti, per poi vagare insonne, di notte, ragionando sul nuovo caso da risolvere, tra i resti ossuti della città una volta bella e ricca. Cammini nel buio, alla ricerca della prossima luce nell’ombra. La luce della verità e della giustizia. Quella fiamma che dà un senso alla tua vita.
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Roubaix. Terra natia di Arnaud Desplechin, in cui l’autore già era tornato più volte, ad esempio nello splendido Trois Souvenirs de ma Jeunesse. Casa, di nuovo riemersa dalle tenebre per il suo nuovo film, ispirato a un documentario del 2008 che prendeva spunto da un fatto reale accaduto nel 2002. Opera spiraliforme, la cui prima parte, frenetica e febbrile, si pone come cornice narrativa per contestualizzare la vicenda principale, ovvero l’omicidio di un’anziana signora, derubata e strangolata. Il segmento iniziale di Roubaix, une lumière (presentato in anteprima italiana al Sacher di Nanni Moretti e in uscita nelle sale in autunno, si spera) pare giungere direttamente dalle tasche di Les Misérables: un pressoché identico micromondo spietato e dolente, oscuro e corrosivo. Ma se il lavoro di Ladj Ly, pur nella sua efficacia, si pone a un livello di immediata fruibilità, non a caso capace di garantire un clamoroso successo di pubblico e critica, Desplechin come sempre va oltre, non si ferma, scava sotto la radice e costringe lo spettatore a un impegno maggiore, invitandolo a pazientare e scavare con lui per esplorare le terre di mezzo e gli anfratti sepolti.
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Dall’analisi introduttiva, focalizzata sulle abitudini del commissario Daoud e sulle segnalazioni che ogni giorno arrivano alla centrale, si passa dunque al caso specifico. Dal generale si va al particolare, costituito dalla donna assassinata e da altre due donne, conviventi, possibili testimoni, poi possibili sospettate, infine probabili colpevoli del (mis)fatto. Due figure per certi versi antitetiche e complementari: Marie, debole, fragile, sottomessa e tanto innamorata, al punto di inventare bugie per difendere la compagna, scagionarla e assumere su di sé gran parte del danno; Claude, più forte, decisa e dominante, pronta a scaricare l’esiziale fardello dell’evento sulla schiena di Marie pur di proteggere se stessa e il figlio che in caso di condanna rischia di non vedere a lungo.
Tra loro, imperioso come un totem, Daoud, in grado di decifrare il fiume delle menzogne. Nei suoi metodi, tra interrogatori e contro interrogatori, inganni e piccoli trucchetti, tutta l’abilità del mestiere; nei suoi occhi calmi, invece, una sorta di affetto verso due ragazze perdute, imbruttite da alcool e fumo, che hanno imboccato un tunnel forse senza ritorno. A differenza degli altri agenti, perennemente urlanti allo scopo di sfiancare le ragazze e farle confessare, Daoud resta deciso ma quieto, mantiene i toni bassi, preferisce carezze ai ceffoni e tratta le insolite sospette “avec une infinie douceur” (Françoise Delbecq, Elle), come un padre premuroso di fronte a figlie responsabili di una marachella.
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In fondo, a ben vedere, abbiamo a che fare con “un grand film sur la compassion, où le portrait d’un bon flic, qui est aussi un flic bon, prend une dimension quasi spirituelle” (Jean Serroy, Le Dauphiné Libéré). Daoud ama i gatti e i cavalli, soffre per l’imbruttimento della città, si affligge per il difficile rapporto con un nipote chiuso in prigione, assiste alla costante distruzione dell’armonia. Ma non per questo sfoga sui presunti criminali la rabbia che potrebbe avvolgerlo. Al contrario: nel rapporto con i sospettati, soprattutto nel caso di Marie e Claude, il capo della polizia cerca sempre di guardare dentro al cuore di chi gli sta di fronte, sezionandolo per estrarre una misericordiosa scintilla tra i fantasmi nell’oscurità.
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La creatura filmica di Desplechin abbraccia connotazioni tipiche del polar e del genere procedural cercando al contempo di costruirsi un’identità unica. Non raggiunge i picchi dei suoi migliori lavori, titoli strepitosi come Un conte de Noël o il sopracitato Trois Souvenirs, e sconta qualche difetto di sceneggiatura, figure secondarie lievemente stereotipate (i chiassosi gendarmi alla centrale) e deviazioni abbozzate ma subito abbandonate o non abbastanza sviluppate (i problemi familiari di Daoud, la fede religiosa del tenente Louis), rifacendosi però con la forza dell’insieme e la magnifica profondità emotiva dei tre protagonisti, resi vibranti e intensissimi dalla bravura dei rispettivi attori. Roschdy Zem si gioca con pieno successo il ruolo della vita, portando a casa il César per la miglior interpretazione (e avrebbe meritato lo stesso premio anche a Cannes); Sara Forestier ipnotizza per maturità e compostezza, trasformandosi in un pulcino bagnato e tremante; Léa Seydoux rimane un gradino sotto, non facendo comunque mancare il suo carisma. 
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Attorno a queste tre figure da applausi si regge l’impalcatura di Roubaix, une lumière, saggio cinematografico sul concetto di verità e sulle mille sfumature intermedie che stanno dentro a qualsiasi verità. Un racconto che cresce piano, richiede attenzione ma sa ripagare in termini di qualità espressiva, trovando approdi da cui scaturisce un’emozione silente eppure chiarissima. Come nel momento in cui viene annunciato a Daoud l’arresto di uno stupratore seriale, finalmente catturato dopo lunghe ricerche e lui, con apparente noncuranza, si limita a sussurrare un “très bien” neutro e incolore. Nel suo sguardo, in quell’attimo, c’è però molto, molto di più. Gioia, soddisfazione, fierezza, sollievo. Luce.

Alessio Gradogna
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Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Roubaix, une lumière
Anno: 2019
Durata: 119’
Regia: Arnaud Desplechin
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Léa Mysius
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Laurence Briaud
Musiche: Grégoire Hetzel
Attori: Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz

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CÉSAR 2020 – Caos, proteste e splendide sorprese

1/3/2020

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​“Honte”. È stata questa la parola più utilizzata in Francia nelle ultime ore. “Honte”, ovvero “vergogna”, vocabolo pronunciato da Adèle Haenel nel momento in cui l’attrice ha abbandonato la sala dopo l’annuncio del premio per la miglior regia a Roman Polanski, nonché termine declamato e ripetuto da decine di utenti infuriati sui social network. L'epilogo di una cerimonia dei César complicatissima, iniziata con le veementi proteste di gruppi femministi davanti alla Salle Pleyel di Parigi, sede dell’evento, per le tante nomination assegnate al film di Polanski J’accuse (L’ufficiale e la spia); proteste condite da lacrimogeni, scontri con la polizia e cordone di protezione per far entrare i candidati.
​Una serata piena di tensione, condotta tra mille difficoltà da Florence Foresti nell’arduo tentativo di restare in precario e balbettante equilibrio tra distensione e rivendicazioni, imbarazzi e frenesia, autoironia e frecciate, gag riuscite (un bellissimo sketch con Isabelle Adjani) e interventi discutibili. Clima dunque a dir poco turbolento, in conseguenza del putiferio nato dopo le nuove accuse di stupro recentemente rivolte a Polanski, a cui si sono aggiunte le dimissioni collettive dei membri dell’Académie des César pochi giorni prima della cerimonia, in nome di una maggiore trasparenza e dell'esigenza di condizioni paritarie tra uomini e donne.
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Insomma, quella che doveva essere una festa del cinema (i César sono l'equivalente francese degli Oscar) si è invece tramutata in un gran caos, prima, durante e dopo. Con dissensi comprensibili e condivisibili, ma anche esagerazioni e cadute di stile perfino grottesche. Sì perché se da un lato è sacrosanto l’uso del termine “honte” volto al rispetto e alla richiesta di giustizia per le donne umiliate e molestate, ci è però al contempo parso “honteux” (vergognoso) il modo in cui Jean-Pierre Darroussin, attore che abbiamo sempre adorato, ha volutamente storpiato il nome di Polanski quando ha aperto la busta al cui interno si svelava il primo premio della serata a lui destinato, quello per il miglior adattamento. Un’idea davvero pessima, che mai ci saremmo aspettati da un personaggio di tale classe. Così come ci è sembrato “honteux” il tentativo, peraltro fallito, di boicottare un film (J’accuse) nel quale hanno lavorato con impegno centinaia di persone che nulla hanno a che fare con le colpe, vere o presunte, di Polanski. Il cinema è fatto da tante persone, non da una sola, e le opere dovrebbero essere valutate secondo le loro qualità artistiche, indipendentemente da ogni altra questione, per quanto grave. 
Infine, a nostro parere, è stata eccessiva e sbagliata anche la fuga dalla sala della Haenel e di Céline Sciamma dopo l’annuncio del secondo premio (la miglior regia) a Polanski, peraltro assente così come tutto il suo cast. La competizione automaticamente concedeva al discusso autore la possibilità di vincere, per cui, pur consapevoli del fatto che la Haenel si sia sentita emotivamente coinvolta a fondo in queste vicende, in quanto lei stessa ha dichiarato pochi mesi fa di essere stata vittima di abusi da parte di un regista, sarebbe stata magari più opportuna l’eventuale decisione di non presenziare all’evento, piuttosto che un gesto così plateale, traducibile in una mancanza di rispetto nei confronti dei colleghi.

Nella baraonda, ovviamente, tutto il resto è purtroppo passato in secondo piano. Negli organi di stampa si è parlato solo dell’affaire Polanski e quasi nessuno si è interessato agli altri riconoscimenti. Noi invece, innanzitutto, vogliamo celebrare con forza e con tantissima gioia l’inatteso premio come miglior attrice protagonista attribuito ad Anaïs Demoustier, per la sua brillante prova in Alice et le maire (Alice e il sindaco). Un verdetto imprevisto, in una eccezionale lista di candidate che prevedeva la stessa Haenel, Noémie Merlant, Karin Viard, Chiara Mastroianni, Eva Green e Dora Tillier. 
Eppure, contro ogni pronostico, a trionfare è stata lei, Anaïs, interprete che seguiamo con grandissimo affetto sin da quando era ragazzina, tanto da aver visionato negli anni anche molti film da lei recitati mai usciti in Italia, dedicando inoltre ad alcuni di essi ampio spazio su queste pagine (le recensioni di À trois on y va, Au fil d’Ariane, Thérèse Desqueyroux, La fille au bracelet, Demain et tous les autres jours, tutti purtroppo qui non distribuiti). Un premio che consacra definitivamente la Demoustier nell’élite del cinema francese, e che in fondo ci piace sentire un pochino anche “nostro”, proprio per come l’abbiamo sempre apprezzata e applaudita, accompagnandone la "crescita", di età e di maturità professionale. Il suo discorso di ringraziamento dopo la chiamata sul palco si è tramutato nella perfetta sintesi dei suoi pregi d’attrice: freschezza, spontaneità, genuinità, ironia, coraggio, intelligenza. Un luminoso raggio di sole che ha letteralmente illuminato la scena.
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Abbiamo inoltre il piacere di festeggiare i tre premi portati a casa dal delizioso La belle époque di Nicolas Bedos (scenografie, sceneggiatura originale e Fanny Ardant miglior attrice non protagonista), il premio al bravo Swann Arlaud per Grazie a Dio di Ozon e i successi del divertente Pile poil come miglior corto e del tenebroso horror ecologista La nuit des sacs plastiques come miglior corto animato: tutti lavori di notevole livello. Delusa della serata, in tutti i sensi, Céline Sciamma, per il suo splendido Ritratto della giovane in fiamme, a cui è stato attribuito solo il premio per la fotografia. Vincitore del titolo di miglior film, stavolta in accordo con i pronostici della vigilia, Les Misérables di Ladj Ly.
L’Académie des César, dopo certi comportamenti squallidi avuti nel recente passato (i reiterati sabotaggi ai danni di Abdellatif Kechiche, reo di usare metodi di lavoro “poco ortodossi”), stavolta ha scelto la strada opposta, sfidando a petto nudo le contestazioni popolari. Il pandemonio seguente a quel punto è diventato inevitabile. La cerimonia del 28 febbraio ha però proposto anche momenti emozionanti e ricompense meritatissime, il cui valore resterà immutato nel tempo.

Alessio Gradogna

​Sezione di riferimento: La vie en rose

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RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME – Fuggire non posso

23/12/2019

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“Da anni sognavo di farlo.”
“Morire?”
“No. Correre.”

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L’incanto. Il cinema che diventa arte pittorica. Immagini sublimi incastonate in inquadrature che si tramutano in perfetti tableaux vivants. Corpi nitidi o sfocati, campi e controcampi, occhi penetranti e cuori pulsanti. Il verde della speranza, il rosso della passione, il blu del mare irrequieto, il rosa della pelle. L’opera filmica in cui l’eleganza della messinscena è base fondante della costruzione narrativa. Il farsi della creazione, tocco dopo tocco, respiro dopo respiro, mentre l’anima si allontana dalla razionalità per abbracciare i fremiti dell’amore. 
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Tutto questo, e molto di più, è Portrait de la jeune fille en feu (Ritratto della giovane in fiamme), premiato a Cannes e arrivato anche in Italia per celebrare la definitiva assunzione di Céline Sciamma a talento di primissimo piano del cinema francese ed europeo. Classe 1978, l’autrice nata a Pontoise si era già messa in luce agli esordi con gli stimabili Naissance des pieuvres e Tomboy, per poi far esplodere le sue capacità nello strepitoso Bande de filles e confermarle con le brillanti partecipazioni in veste di sceneggiatrice per il delizioso Ma vie de courgette e il gradevole Quand on a 17 ans. 
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Con questo nuovo lavoro la Sciamma fa un ulteriore passo avanti, trovando una saggezza espressiva impressionante, tradotta nella storia di Marianne, giovane pittrice che nel 1770 è chiamata su un’isola in Bretagna per realizzare il ritratto di nozze di Héloïse, appena uscita dal convento e promessa sposa a un uomo mai conosciuto. Esempio di tantissime donne di quell’epoca, per le quali il destino era deciso senza nessun interesse riservato alla loro volontà, Héloïse rifiuta l’idea del matrimonio e per tale ragione nega di posare. Marianne deve dunque dipingerla in segreto, fingendosi sua dama di compagnia per poter trascorrere del tempo insieme a lei, coglierne i tratti, memorizzarli e imprimerli su tela.
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La sopraffina qualità estetica del film della Sciamma deflagra sin dai primi minuti, quando Marianne giunge bagnata fradicia a casa di Héloïse, si spoglia e si dispone in terra, senza veli, ad asciugarsi davanti al camino acceso; la vediamo al centro di un’inquadratura simmetrica e magnifica, immediato simbolo di ciò che caratterizzerà le successive due ore di visione, nella totale immersione in un magma di bellezza rappresentativa che viaggia di pari passo con l’intensità del racconto.
Il rapporto tra le protagoniste, in principio educato e nulla più, oltre che viziato da una bugia di fondo, muta rapidamente i suoi contorni, attraverso le occhiate fugaci che Marianne rivolge a Héloïse per studiarne i contorni. Dai baci rubati di truffautiana memoria passiamo qui agli sguardi rubati, sguardi che presto scavallano i confini del compito professionale per lasciare strada alle emozioni suonate dalla dolce musica dell’innamoramento. Da lì in poi la via tracciata segue il suo naturale percorso, perché se è vero che spesso purtroppo non si può sfuggire al proprio destino, è altresì vero che non si può scappare dal richiamo del desiderio. Un concetto, questo, ben espresso in un’altra delle scene madri del film, anch’essa di rara forza visiva, durante la quale, nello svolgersi di un notturno rito pagano, un gruppo di donne intona un canto polifonico che colpisce a fondo per il suo mélange di disperazione e compassione, soavità e commozione.

​“Non posso fuggire”, recita quel canto; Marianne ed Héloïse ne colgono idealmente il significato, superando la paura per unirsi e darsi a vicenda, almeno per quel poco tempo a loro concesso, in una fusione fisica lasciata quasi totalmente fuori campo dalla Sciamma, con una sorta di (giusto) pudore. Lo stesso pudore ben esemplificato nell’ennesima scena di impressionante leggiadria, in cui Marianne disegna un ritratto di sé stessa attraverso uno specchio collocato in mezzo alle gambe nude di Héloïse e posizionato in modo tale da coprirne la parte più intima, affinché l’amata e amante possa conservare per sempre un’immagine di lei.
In quel momento il rapporto tra le due assume i contorni dell’eternità, di un qualcosa destinato a durare anche dopo che la durezza della vita le avrà portate altrove. Un amore dunque fugace (gran parte della storia si svolge in pochi giorni) ma al contempo sufficiente per riempire una vita, così come è il film stesso a riempirsi in ogni istante di intuizioni cromatiche e scenografiche, sospiranti campi larghi e primi piani incollati ai volti delle due meravigliose protagoniste, Adèle Haenel, ormai già da alcuni anni punto di riferimento del cinema transalpino (da L’apollonide a Les Ogres, da Les Combattants a 120 battements par minute) e Noémie Merlant, rivelazione assoluta in termini di bravura, fascino e capacità di seduzione.

Opera della maturità, si diceva: la Sciamma si gioca tutto praticamente con 4 soli personaggi (Marianne, Héloïse, la madre interpretata da Valeria Golino e la cameriera Sophie), utilizza Vivaldi, cita il mito di Orfeo ed Euridice, sfrutta gli ambienti e i paesaggi e lascia quasi completamente fuori scena ogni presenza maschile, relegando gli uomini a comparse o entità fantasmatiche, pur se dominanti nelle convenzioni sociali. Con questi limitati elementi riesce a narrare al meglio una lotta per l’emancipazione e una storia d’amore splendida e universale, anche con sottolineate pause e volute lentezze, riuscendo peraltro a mantenere sempre viva e pulsante la sua creatura filmica.

Applaudito dalla stampa e dal pubblico francese e assai apprezzato persino in America (dove sono abituati a ben altri ritmi), Portrait de la jeune fille en feu potrebbe risultare, agli occhi dei pochi detrattori, troppo schematico, programmatico, algido. In effetti, a voler essere pignoli, la pellicola sembra mancare della dirompente spavalderia del precedente Bande de filles. Eppure ci risulta davvero impossibile non essere piacevolmente investiti dall’ardore delle mani e dei corpi, dal fruscio delle vesti, dal suono costante della legna che scoppietta, da quei due volti che si studiano e si scoprono, si sfiorano e si baciano, si inseguono e si legano. E se ancora restasse qualche dubbio sulla possibile freddezza dell’opera, l’eventuale perplessità viene letteralmente spazzata via dall’ultima inquadratura, durante la quale la Haenel, oltre a proporci un saggio di maestria recitativa, riassume in pochi secondi il senso di tutto il film e delle infinite sfumature della passione.
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Così, alla fine, poco importa se abbiamo assistito a un amore impossibile. In fondo gli amori impossibili sono gli unici che nessuno ci può togliere. Nonché gli unici certamente destinati a non finire mai.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica
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Titolo originale: Portrait de la jeune fille en feu
Anno: 2019
Durata: 119’
Regia e sceneggiatura: Céline Sciamma
Fotografia: Claire Mathon
Montaggio: Julien Lacheray
Musiche: Jean-Baptiste de Laubier, Arthur Simonini
Attori: Noémie Merlant, Adèle Haenel, Valeria Golino, Luàna Bajrami
Uscita italiana: 19 dicembre 2019
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GRÂCE À DIEU (Grazie a Dio) – Liberare la paura

20/10/2019

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​Le luci del presente, le ombre del passato. Fantasmi oscuri che si aggirano nella mente, spettri irrequieti che ancora danzano confusi senza aver trovato pace. La vita, gli impegni, il lavoro, la famiglia. Ma poi la notte, il silenzio, i ricordi, il dolore. Tormenti che incalzano Alexandre Guérin, quarantenne capace di costruire nel tempo un’esistenza ricca di gioie e certezze: una moglie affezionata, cinque figli in crescita secondo dettami di fede e rispetto, un’occupazione solida in banca. Dietro alla cortina lieta del quotidiano, ci sono però i residui tossici di un’infanzia complicata, durante la quale Alexandre ha subito abusi sessuali da parte del parroco Bernard Preynat. Attenzioni che hanno lasciato un marchio indelebile nello spirito di quel bambino ora diventato uomo. 
Sono passati una trentina d’anni da allora, ma in fondo nulla è mai cambiato. Con vivo sconcerto, Alexandre scopre che Preynat ancora opera a stretto contatto con i bimbi. Disgustato e sconvolto, contatta il Cardinale Barbarin, responsabile della diocesi di Lione. Espone il suo caso, rievoca i fatti accaduti, chiede che il prete sia allontanato. Da quel momento inizia un lungo viaggio tra ricerca di giustizia e insabbiamenti, tentativi di salvare altre reali e potenziali vittime e sporche omissioni da parte dello stesso Barbarin e di tutta la Chiesa. 
Alexandre è la scintilla, la miccia che accende la bomba; dopo di lui altri vengono allo scoperto, trovando finalmente il coraggio di parlare: tra loro, tra i tanti, François Debord ed Emmanuel Thomassin, anch’essi destinatari delle “affettuose carezze” di Preynat al tempo dei campi scout. Nasce un’associazione, La parole libérée, destinata a fornire sostegno alle prede a cui il parroco ha violato l’innocenza; le denunce abbandonano il campo prettamente religioso e si inseriscono nel contesto giudiziario; i protagonisti rivelano i maltrattamenti subiti, coinvolgono i mass media, si battono affinché giustizia sia finalmente fatta. Affinché Preynat, Barbarin e tutti i responsabili degli scempi paghino per le colpe di cui si sono macchiati. Un percorso arduo, ma portato avanti con determinazione e coraggio.
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Dopo numerose opere di alto livello, legate comunque alla finzione narrativa, François Ozon torna nelle sale con un film questa volta basato su eventi reali. Premiato con l’Orso d’Argento a Berlino e accolto con grandi applausi e pressoché unanimi lodi da parte del pubblico e della stampa francese, Grâce à Dieu (Grazie a Dio) arriva finalmente anche da noi, trainando con sé il suo carico di aspra e necessaria denuncia. 
Se si studia un momento la genesi della lavorazione, si scoprono cose per le quali non c’è purtroppo di che sorprendersi. Il film è stato realizzato in segreto, con un titolo fittizio e una trama fasulla, così da evitare interferenze da parte della Chiesa. Sebbene la vicenda sia ambientata a Lione, gran parte delle scene sono state girate in Belgio e in Lussemburgo, o nella regione parigina, sempre per scartare le ingerenze del potere cattolico lionese. Inoltre, una volta rivelati trailer e vera sinossi del film, nel quale sono persino utilizzati i veri nomi dei soggetti coinvolti (il parroco peraltro è ancora oggi un “presunto innocente” in attesa di processo), gli avvocati di Preynat hanno tentato di bloccarne l’uscita, chiedendo un provvedimento d’urgenza a tale scopo; un attacco per fortuna fallito, in quanto i giudici hanno deliberato a favore della libertà di espressione artistica (e chissà se in Italia il verdetto sarebbe stato lo stesso; ci si permetta qualche dubbio in merito).
Nonostante gli ostacoli, possiamo dunque ammirare senza impedimenti un’opera da molti accomunata al recente Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, anche se i contatti tra le due pellicole sono in verità soltanto superficiali. Mentre infatti il film americano puntava su coordinate piuttosto definite, legate al giornalismo d’inchiesta, il lavoro di Ozon, di ben altro spessore, si concentra sull’emotività delle vittime, sulla loro interiorità, sui rapporti familiari, cercando di scavare all’interno di anime e cuori le cui ferite mai si potranno del tutto rimarginare. 
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Da sempre cantore di una sessualità disinibita, fremente, trasgressiva, multiforme, dipinta in varie tonalità di affermazione di sé, il regista di Swimming Pool, Potiche, Jeune et Jolie, Une nouvelle amie e L’amant double si pone ora al lato opposto, andando a indagare le pieghe non totalmente cicatrizzabili di contatti fisici squallidi, patologici, coercitivi, privi di volontà di scelta. Una strada d’analisi tortuosa, che facilmente sarebbe potuta scadere nel sensazionalismo e/o nella caccia alla tiepida lacrima. Ozon, invece, con estrema abilità, respinge questi rischi, mettendo in scena un film sorprendentemente costruito quasi come un thriller, teso e dal gran ritmo, a tratti perfino concitato, in cui lo spettatore è scaraventato nel torbido mare della vicenda subito, senza preamboli, senza avere la possibilità di immergere prima i piedi in acqua per acclimatarsi. Grâce à Dieu parte spedito e non si ferma più; rari i momenti di stasi, poche le sequenze topiche. L’impasto è compatto, fluido, efficace, sempre lucido. 
In costante e brillantissimo stato di forma ormai da oltre un decennio, Ozon rifugge pure i tranelli della rappresentazione a tesi: la condanna alle ignominie pedofile di Preynat e all’omertà di Barbarin è forte e conclamata, ma la sceneggiatura non ricatta il pubblico costringendolo solo a una crociata ideologica. L’autore riesce invece a mantenersi in equilibrio tra precisa descrizione dei fatti e analisi psicologica di uomini che combattono per una causa giusta, giustissima, cercando al contempo di trovare così o lo scopo di un’intera vita o una maturazione della vita stessa, oltreché l’approdo tanto agognato a una minima serenità interiore. 
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Accompagnato dalla bravura dei suoi principali attori, Melvil Poupaud (indimenticato protagonista, tra gli altri, di Laurence Anyways di Dolan), Denis Ménochet (visto in Jusqu’à la garde – L’affido) e l’ottimo Swann Arlaud, e da uno stuolo di “comprimari” di gran livello (Frédéric Pierrot, Hélène Vincent, Josiane Balasko), Grâce à Dieu sfrutta i dettami della denuncia sociale per farsi strumento di emancipazione e liberazione. Il senso dell’opera sta infatti (anche) proprio qui: liberare la paura, liberarsi dalla paura, affrancarsi dalla schiavitù del silenzio, svincolarsi dalla sedimentazione di una sofferenza per la quale non esiste alcuna prescrizione.
Il compimento dell’atto cinematografico in quanto tale, e della missione di tutte le vittime che oggi combattono per impedire che simili orrori restino impuniti e si ripetano in Francia come altrove, risiede nelle profondità di questo concetto: alzare lo sguardo, comunicare, aprirsi, ascoltare, comprendere, agire. Per non avere più paura.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Film al cinema, La vie en rose

Recensioni film di François Ozon: Dans la maison (Nella casa) – Jeune et Jolie (Giovane e bella) – Une nouvelle amie (Una nuova amica) – Frantz – L’amant double (Doppio amore)

Scheda tecnica

Titolo originale: Grâce à Dieu
Anno: 2019
Durata: 127’
Regia e sceneggiatura: François Ozon
Fotografia: Manuel Dacosse
Montaggio: Laure Gardette
Attori: Melvil Poupaud, Denis Ménochet, Swann Arlaud, François Marthouret, Bernard Verley, Josiane Balasko, Frédéric Pierrot, Hélène Vincent

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LOCARNO 72 - Adoration, di Fabrice du Welz

17/8/2019

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​Il dodicenne Paul vive insieme alla madre, che lavora come infermiera in un istituto privato. Le sue giornate trascorrono perlopiù all’aria aperta, nei boschi intorno alla clinica, dove il ragazzo raccoglie uccellini feriti per poi cercare di curarli. Il consueto ménage si modifica il giorno in cui conosce Gloria, fanciulla problematica ricoverata in istituto a causa di disturbi mentali. Tra i due nasce subito un rapporto di grande affetto, tenerezza e complicità, anche se i loro incontri avvengono di nascosto, dato il divieto imposto a Paul di interagire con i pazienti.
​Una notte i ragazzi decidono di fuggire, insieme. Si avventurano nella foresta e cercano di far perdere le tracce, lasciando al contempo che il loro amore sbocci senza più catene né impedimenti. Inizia così un vagabondaggio tra sonni all’addiaccio, furti di barche a motore, bagni nel fiume, incontri imprevisti, rifugi temporanei, scoperta della sessualità, difficoltà e contrattempi: una fuga verso la libertà, folle e forse irrealizzabile, alla ricerca di un Eden dai contorni sfocati.
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Il belga Fabrice du Welz si è imposto con forza all’attenzione di tutti gli appassionati di horror e affini grazie al magnifico Calvaire, uscito nel 2004; un film disperato e ammaliante, struggente e indimenticabile. La sua carriera è poi proseguita su livelli discreti, pur senza toccare nuovamente quei vertici, attraverso l’ipnotico Vinyan, il morboso Alléluia e i trascurabili Colt 45 e Message from the King, esordio americano. Dopo quest’ultima prova non esaltante du Welz è tornato a casa, nelle Ardenne, per mettere in scena la storia di un amore totalizzante tra due protagonisti di tenera età in completa contrapposizione caratteriale e simbolica.
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Paul e Gloria sono il giorno e la notte, la pace e il conflitto, la luce bianca e la luna nera. Lui è innocenza pura, ingenuità, semplicità. Un ragazzino ispirato all’Idiota di Dostoevskij e al Candido di Voltaire, la cui vita consiste soltanto nel prendersi cura degli uccellini, nel trovare una panica beatitudine tra i profumi della natura e nel mantenere un forte legame con la madre. Una creatura angelica, con movenze paragonabili a quelle di un Santo. Lei è invece mistero, confusione, paura, tensione. Una fanciulla etichettata come “pericolosa”, affetta da paranoie e manie persecutorie, capace di vividi slanci di dolcezza ma anche di improvvise e impetuose esplosioni di collera o terrore, che ovviamente sconvolgono la mente pulita di Paul. 
Eppure, nella loro veemente contrapposizione, Gloria e Paul (interpretati dall’intensissima Fantine Harduin, scoperta in Happy End di Michael Haneke, e da Thomas Gioria, visto in Jusqu’à la garde - L’affido di Xavier Legrand) trovano un punto di raccordo, un legame invisibile agli occhi corrotti degli adulti, un sentimento profondo che devia dai confini della giovane età per farsi abbraccio universale. La loro unione esemplifica i devastanti turbamenti del primo amore, mentre la loro fuga verso una meta di improbabile raggiungimento (la casa del nonno di Gloria, a centinaia di chilometri di distanza) si pone come tentativo di abbandonare precocemente le barriere (im)poste sulla terra di mezzo tra infanzia e adolescenza, per dare anima a un qualcosa che possa donare il Senso primordiale e definitivo a una pur così giovane vita.
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Presentato in anteprima a Locarno nella maestosa cornice di Piazza Grande, Adoration conferma l’indiscutibile talento di du Welz, autore che sa come insinuare a piene mani il lirismo all’interno della narrazione, senza che quest’ultima venga peraltro fagocitata dalla bellezza estetica. Il suo stile alterna con scorrevolezza macchina a mano e inquadrature fisse, piani ravvicinatissimi e campi larghi, sottolineature cromatiche e suggestioni icastiche, musiche armoniche e inserti inquietanti, lasciando confluire il cuore dello spettatore nel rituale di una passione assoluta, per la quale si è disposti a tutto. D’altronde, a ben vedere, anche lo splendido Calvaire raccontava un amore malato eppure a suo modo straordinario; lo stesso faceva Vinyan, con la cieca discesa di Emmanuelle Béart nelle viscere della giungla alla ricerca del figlio perduto; in qualche perversa maniera perfino Alléluia era un quadro dipinto con i colori di un desiderio monopolizzante.
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Pur con qualche lacuna (il personaggio della madre di Paul, abbozzato e poi dimenticato) e alcuni sviluppi un po’ forzati, Adoration si mantiene ricco e pregevole nella sostanza. E come sempre in du Welz, l’equilibrio tra il bene e il male vacilla e sfuma, cercando di superare la pelle morta dell’umana miseria, senza riuscirci davvero. Non a caso, in uno dei dialoghi più belli del film, Paul, dall’alto della sua celestiale fragilità, dice a Gloria: “io non voglio fare mai del male del nessuno”, e lei risponde: “lo farai, vedrai. Prima o poi succede. Succede sempre”. 
​
Adoration è il ritratto di un legame vorace e di un sogno di emancipazione; è riconquista della libertà ma anche impossibilità di accettare una perdita (come ben ci spiega il guardiano interpretato da Benoît Poelvoorde); è sfida a testa alta contro l’altrui incomprensione ma anche inesorabile discesa nella palude della rovina; è, infine, la tragedia di un’unione paradisiaca destinata a schiantarsi sui muri del reale. A meno che, per una volta, la Favola possa decretare il suo trionfo. Contro ogni legge e contro ogni logica.
 
“Tu ne me quitteras jamais? Alors je t'aimerai pour toujours”

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Locarno 72, La vie en rose

Scheda tecnica

Regia: Fabrice du Welz
Anno: 2019
Durata: 98’
Sceneggiatura: Fabrice du Welz, Vincent Tavier, Romain Protat
Attori: Thomas Gioria, Fantine Harduin, Benoît Poelvoorde, Laurent Lucas
Fotografia: Manu Dacosse
Musiche: Vincent Cahay
Montaggio: Anne-Laure Guégan

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