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CAMILLE CLAUDEL, 1915 - Elogio della follia

18/5/2013

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Un istante. Un secondo racchiuso nel dolore dell'eternità. Un attimo di attesa e speranza, entro il quale convogliare il sogno di una libertà ormai negata. Lo sguardo oltre le mura, oltre la siepe, verso un orizzonte di felicità rannuvolato tra le traiettorie oscure di un presente senza più luce. Una risata profumata di pianto, tra le coltri avvizzite di una vita che tale non è più.
Nata nel 1864, sorella maggiore del grande scrittore Paul, Camille Claudel fu una scultrice di grande successo. La sua giovinezza venne ferita dalla lunga e burrascosa relazione con Auguste Rodin: i due lavorarono insieme e si amarono molto, ma l'uomo non volle mai sposarla, non trovando il coraggio di abbandonare la sua compagna ufficiale. A un certo punto la lasciò. Da quel momento Camille, straziata dalla sofferenza, iniziò a mostrare segni di squilibrio mentale. Anni dopo, il fratello e la madre la fecero rinchiudere in una casa di cura dove rimase per il resto dei suoi giorni, per volere della stessa famiglia, nonostante il parere contrario dei medici.
Bruno Dumont, uno degli autori più talentuosi e controversi del cinema francese contemporaneo, il regista di L'età inquieta e Hors Satan, ha scelto di riportare sul grande schermo la storia di Camille, già analizzata nell'omonimo film del 1988 con Isabelle Adjani. Basandosi sui diari della donna e di Paul, Dumont ha deciso di fotografare un piccolo segmento dei lunghi anni di forzato ricovero della protagonista, scandagliando il particolare come crocevia dell'universale, tra le pieghe di una messinscena sacrale, sofferta, imbevuta di lirismo e vana speranza.
Nel film Camille vive con fatica la sua prigionia, oscillando tra manie di persecuzione, estrema noia, acute crisi di pianto, improvvisi squarci di serenità. Intorno a lei gli altri pazienti del ricovero stendono le proprie esistenze, tra assenza di consapevolezza e (rari) sospiri di lucidità. Camille si siede su una panchina, passeggia, si dispera, assiste a una piccola recita teatrale, scrive a un'amica perduta, trascorre nell'oblio le lunghe ore di ogni giornata, aiuta i degenti non in grado di intendere e di volere. E soprattutto aspetta, con malcelata ansia, l'imminente visita del fratello Paul, covando il miraggio di poter finalmente ottenere il permesso per riacquistare l'agognata e perduta libertà. Un desiderio insopprimibile, che mai troverà il suo compimento.
Dopo l'elegiaco e potentissimo Hors Satan, Dumont persegue la strada spirituale ormai definitivamente intrapresa, racchiudendo la narrazione in un trionfo di tempi sospesi, sguardi silenziosi, lunghi e taglienti primi piani. Girato in una vera casa d'accoglienza nei pressi di Avignone, con autentiche persone malate, presentato in concorso a Berlino e ignorato dalla giuria, Camille Claudel 1915 attua uno stile ostico, a suo modo estremo, sin troppo rarefatto soprattutto nella seconda parte, in cui l'autore porta in scena il personaggio di Paul regalandogli lunghe e talvolta ridondanti battute dedicate al significato della religione e al vero volto di Dio. Dissertazioni forse superflue, che peraltro nulla tolgono all'efficacia di un racconto simile a un anelito d'incerto sole racchiuso in un mare di tempesta; un requiem cantato davanti alla croce di una condanna cieca ed egoista, entro cui il percorso della protagonista si sventra e si martirizza.
Per compiere la sua triste litania, Dumont si affida al miglior cuore esistente per un'operazione così complessa: Juliette Binoche, che dopo le esagerazioni orgasmiche del precedente Elles innalza alla notte dei tempi un'interpretazione sublime, meravigliosa, straordinaria. Senza trucco, con il volto sfatto, la Binoche si denuda per il suo regista e per noi, si divora la macchina da presa e ne diviene padrona e amante, schiava e maestra, intavolando in ogni scena un impressionante spettro di sensazioni e sfumature. Da un istante all'altro la vediamo ridere, piangere, cullarsi con occhi da bambina, implodere di rabbia; poi di nuovo ridere, piangere, sperare e infine crollare. La guarderemmo per ore, per giorni, per sempre. 
A costo di sembrare blasfemi, la sua prova ci ricorda per profondità emotiva la leggendaria Renée Falconetti de La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer: un trionfo di pura abilità recitativa, per quella che crediamo sia in assoluto la migliore attrice non solo del cinema europeo, bensì dell'intero panorama mondiale. E non certo da oggi.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Bruno Dumont
Sceneggiatura: Bruno Dumont
Attori: Juliette Binoche, Jean-Luc Vincent, Robert Leroy, Marion Keller
Musica: brani di Johann Sebastian Bach
Fotografia: Guillaume Deffontaines
Montaggio: Bruno Dumont, Basile Belkhiri
Anno: 2013
Durata: 97'

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