ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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CÉSAR 2020 – Caos, proteste e splendide sorprese

1/3/2020

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​“Honte”. È stata questa la parola più utilizzata in Francia nelle ultime ore. “Honte”, ovvero “vergogna”, vocabolo pronunciato da Adèle Haenel nel momento in cui l’attrice ha abbandonato la sala dopo l’annuncio del premio per la miglior regia a Roman Polanski, nonché termine declamato e ripetuto da decine di utenti infuriati sui social network. L'epilogo di una cerimonia dei César complicatissima, iniziata con le veementi proteste di gruppi femministi davanti alla Salle Pleyel di Parigi, sede dell’evento, per le tante nomination assegnate al film di Polanski J’accuse (L’ufficiale e la spia); proteste condite da lacrimogeni, scontri con la polizia e cordone di protezione per far entrare i candidati.
​Una serata piena di tensione, condotta tra mille difficoltà da Florence Foresti nell’arduo tentativo di restare in precario e balbettante equilibrio tra distensione e rivendicazioni, imbarazzi e frenesia, autoironia e frecciate, gag riuscite (un bellissimo sketch con Isabelle Adjani) e interventi discutibili. Clima dunque a dir poco turbolento, in conseguenza del putiferio nato dopo le nuove accuse di stupro recentemente rivolte a Polanski, a cui si sono aggiunte le dimissioni collettive dei membri dell’Académie des César pochi giorni prima della cerimonia, in nome di una maggiore trasparenza e dell'esigenza di condizioni paritarie tra uomini e donne.
​
Insomma, quella che doveva essere una festa del cinema (i César sono l'equivalente francese degli Oscar) si è invece tramutata in un gran caos, prima, durante e dopo. Con dissensi comprensibili e condivisibili, ma anche esagerazioni e cadute di stile perfino grottesche. Sì perché se da un lato è sacrosanto l’uso del termine “honte” volto al rispetto e alla richiesta di giustizia per le donne umiliate e molestate, ci è però al contempo parso “honteux” (vergognoso) il modo in cui Jean-Pierre Darroussin, attore che abbiamo sempre adorato, ha volutamente storpiato il nome di Polanski quando ha aperto la busta al cui interno si svelava il primo premio della serata a lui destinato, quello per il miglior adattamento. Un’idea davvero pessima, che mai ci saremmo aspettati da un personaggio di tale classe. Così come ci è sembrato “honteux” il tentativo, peraltro fallito, di boicottare un film (J’accuse) nel quale hanno lavorato con impegno centinaia di persone che nulla hanno a che fare con le colpe, vere o presunte, di Polanski. Il cinema è fatto da tante persone, non da una sola, e le opere dovrebbero essere valutate secondo le loro qualità artistiche, indipendentemente da ogni altra questione, per quanto grave. 
Infine, a nostro parere, è stata eccessiva e sbagliata anche la fuga dalla sala della Haenel e di Céline Sciamma dopo l’annuncio del secondo premio (la miglior regia) a Polanski, peraltro assente così come tutto il suo cast. La competizione automaticamente concedeva al discusso autore la possibilità di vincere, per cui, pur consapevoli del fatto che la Haenel si sia sentita emotivamente coinvolta a fondo in queste vicende, in quanto lei stessa ha dichiarato pochi mesi fa di essere stata vittima di abusi da parte di un regista, sarebbe stata magari più opportuna l’eventuale decisione di non presenziare all’evento, piuttosto che un gesto così plateale, traducibile in una mancanza di rispetto nei confronti dei colleghi.

Nella baraonda, ovviamente, tutto il resto è purtroppo passato in secondo piano. Negli organi di stampa si è parlato solo dell’affaire Polanski e quasi nessuno si è interessato agli altri riconoscimenti. Noi invece, innanzitutto, vogliamo celebrare con forza e con tantissima gioia l’inatteso premio come miglior attrice protagonista attribuito ad Anaïs Demoustier, per la sua brillante prova in Alice et le maire (Alice e il sindaco). Un verdetto imprevisto, in una eccezionale lista di candidate che prevedeva la stessa Haenel, Noémie Merlant, Karin Viard, Chiara Mastroianni, Eva Green e Dora Tillier. 
Eppure, contro ogni pronostico, a trionfare è stata lei, Anaïs, interprete che seguiamo con grandissimo affetto sin da quando era ragazzina, tanto da aver visionato negli anni anche molti film da lei recitati mai usciti in Italia, dedicando inoltre ad alcuni di essi ampio spazio su queste pagine (le recensioni di À trois on y va, Au fil d’Ariane, Thérèse Desqueyroux, La fille au bracelet, Demain et tous les autres jours, tutti purtroppo qui non distribuiti). Un premio che consacra definitivamente la Demoustier nell’élite del cinema francese, e che in fondo ci piace sentire un pochino anche “nostro”, proprio per come l’abbiamo sempre apprezzata e applaudita, accompagnandone la "crescita", di età e di maturità professionale. Il suo discorso di ringraziamento dopo la chiamata sul palco si è tramutato nella perfetta sintesi dei suoi pregi d’attrice: freschezza, spontaneità, genuinità, ironia, coraggio, intelligenza. Un luminoso raggio di sole che ha letteralmente illuminato la scena.
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Abbiamo inoltre il piacere di festeggiare i tre premi portati a casa dal delizioso La belle époque di Nicolas Bedos (scenografie, sceneggiatura originale e Fanny Ardant miglior attrice non protagonista), il premio al bravo Swann Arlaud per Grazie a Dio di Ozon e i successi del divertente Pile poil come miglior corto e del tenebroso horror ecologista La nuit des sacs plastiques come miglior corto animato: tutti lavori di notevole livello. Delusa della serata, in tutti i sensi, Céline Sciamma, per il suo splendido Ritratto della giovane in fiamme, a cui è stato attribuito solo il premio per la fotografia. Vincitore del titolo di miglior film, stavolta in accordo con i pronostici della vigilia, Les Misérables di Ladj Ly.
L’Académie des César, dopo certi comportamenti squallidi avuti nel recente passato (i reiterati sabotaggi ai danni di Abdellatif Kechiche, reo di usare metodi di lavoro “poco ortodossi”), stavolta ha scelto la strada opposta, sfidando a petto nudo le contestazioni popolari. Il pandemonio seguente a quel punto è diventato inevitabile. La cerimonia del 28 febbraio ha però proposto anche momenti emozionanti e ricompense meritatissime, il cui valore resterà immutato nel tempo.

Alessio Gradogna

​Sezione di riferimento: La vie en rose

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RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME – Fuggire non posso

23/12/2019

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“Da anni sognavo di farlo.”
“Morire?”
“No. Correre.”

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L’incanto. Il cinema che diventa arte pittorica. Immagini sublimi incastonate in inquadrature che si tramutano in perfetti tableaux vivants. Corpi nitidi o sfocati, campi e controcampi, occhi penetranti e cuori pulsanti. Il verde della speranza, il rosso della passione, il blu del mare irrequieto, il rosa della pelle. L’opera filmica in cui l’eleganza della messinscena è base fondante della costruzione narrativa. Il farsi della creazione, tocco dopo tocco, respiro dopo respiro, mentre l’anima si allontana dalla razionalità per abbracciare i fremiti dell’amore. 
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Tutto questo, e molto di più, è Portrait de la jeune fille en feu (Ritratto della giovane in fiamme), premiato a Cannes e arrivato anche in Italia per celebrare la definitiva assunzione di Céline Sciamma a talento di primissimo piano del cinema francese ed europeo. Classe 1978, l’autrice nata a Pontoise si era già messa in luce agli esordi con gli stimabili Naissance des pieuvres e Tomboy, per poi far esplodere le sue capacità nello strepitoso Bande de filles e confermarle con le brillanti partecipazioni in veste di sceneggiatrice per il delizioso Ma vie de courgette e il gradevole Quand on a 17 ans. 
​
Con questo nuovo lavoro la Sciamma fa un ulteriore passo avanti, trovando una saggezza espressiva impressionante, tradotta nella storia di Marianne, giovane pittrice che nel 1770 è chiamata su un’isola in Bretagna per realizzare il ritratto di nozze di Héloïse, appena uscita dal convento e promessa sposa a un uomo mai conosciuto. Esempio di tantissime donne di quell’epoca, per le quali il destino era deciso senza nessun interesse riservato alla loro volontà, Héloïse rifiuta l’idea del matrimonio e per tale ragione nega di posare. Marianne deve dunque dipingerla in segreto, fingendosi sua dama di compagnia per poter trascorrere del tempo insieme a lei, coglierne i tratti, memorizzarli e imprimerli su tela.
​ 
La sopraffina qualità estetica del film della Sciamma deflagra sin dai primi minuti, quando Marianne giunge bagnata fradicia a casa di Héloïse, si spoglia e si dispone in terra, senza veli, ad asciugarsi davanti al camino acceso; la vediamo al centro di un’inquadratura simmetrica e magnifica, immediato simbolo di ciò che caratterizzerà le successive due ore di visione, nella totale immersione in un magma di bellezza rappresentativa che viaggia di pari passo con l’intensità del racconto.
Il rapporto tra le protagoniste, in principio educato e nulla più, oltre che viziato da una bugia di fondo, muta rapidamente i suoi contorni, attraverso le occhiate fugaci che Marianne rivolge a Héloïse per studiarne i contorni. Dai baci rubati di truffautiana memoria passiamo qui agli sguardi rubati, sguardi che presto scavallano i confini del compito professionale per lasciare strada alle emozioni suonate dalla dolce musica dell’innamoramento. Da lì in poi la via tracciata segue il suo naturale percorso, perché se è vero che spesso purtroppo non si può sfuggire al proprio destino, è altresì vero che non si può scappare dal richiamo del desiderio. Un concetto, questo, ben espresso in un’altra delle scene madri del film, anch’essa di rara forza visiva, durante la quale, nello svolgersi di un notturno rito pagano, un gruppo di donne intona un canto polifonico che colpisce a fondo per il suo mélange di disperazione e compassione, soavità e commozione.

​“Non posso fuggire”, recita quel canto; Marianne ed Héloïse ne colgono idealmente il significato, superando la paura per unirsi e darsi a vicenda, almeno per quel poco tempo a loro concesso, in una fusione fisica lasciata quasi totalmente fuori campo dalla Sciamma, con una sorta di (giusto) pudore. Lo stesso pudore ben esemplificato nell’ennesima scena di impressionante leggiadria, in cui Marianne disegna un ritratto di sé stessa attraverso uno specchio collocato in mezzo alle gambe nude di Héloïse e posizionato in modo tale da coprirne la parte più intima, affinché l’amata e amante possa conservare per sempre un’immagine di lei.
In quel momento il rapporto tra le due assume i contorni dell’eternità, di un qualcosa destinato a durare anche dopo che la durezza della vita le avrà portate altrove. Un amore dunque fugace (gran parte della storia si svolge in pochi giorni) ma al contempo sufficiente per riempire una vita, così come è il film stesso a riempirsi in ogni istante di intuizioni cromatiche e scenografiche, sospiranti campi larghi e primi piani incollati ai volti delle due meravigliose protagoniste, Adèle Haenel, ormai già da alcuni anni punto di riferimento del cinema transalpino (da L’apollonide a Les Ogres, da Les Combattants a 120 battements par minute) e Noémie Merlant, rivelazione assoluta in termini di bravura, fascino e capacità di seduzione.

Opera della maturità, si diceva: la Sciamma si gioca tutto praticamente con 4 soli personaggi (Marianne, Héloïse, la madre interpretata da Valeria Golino e la cameriera Sophie), utilizza Vivaldi, cita il mito di Orfeo ed Euridice, sfrutta gli ambienti e i paesaggi e lascia quasi completamente fuori scena ogni presenza maschile, relegando gli uomini a comparse o entità fantasmatiche, pur se dominanti nelle convenzioni sociali. Con questi limitati elementi riesce a narrare al meglio una lotta per l’emancipazione e una storia d’amore splendida e universale, anche con sottolineate pause e volute lentezze, riuscendo peraltro a mantenere sempre viva e pulsante la sua creatura filmica.

Applaudito dalla stampa e dal pubblico francese e assai apprezzato persino in America (dove sono abituati a ben altri ritmi), Portrait de la jeune fille en feu potrebbe risultare, agli occhi dei pochi detrattori, troppo schematico, programmatico, algido. In effetti, a voler essere pignoli, la pellicola sembra mancare della dirompente spavalderia del precedente Bande de filles. Eppure ci risulta davvero impossibile non essere piacevolmente investiti dall’ardore delle mani e dei corpi, dal fruscio delle vesti, dal suono costante della legna che scoppietta, da quei due volti che si studiano e si scoprono, si sfiorano e si baciano, si inseguono e si legano. E se ancora restasse qualche dubbio sulla possibile freddezza dell’opera, l’eventuale perplessità viene letteralmente spazzata via dall’ultima inquadratura, durante la quale la Haenel, oltre a proporci un saggio di maestria recitativa, riassume in pochi secondi il senso di tutto il film e delle infinite sfumature della passione.
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Così, alla fine, poco importa se abbiamo assistito a un amore impossibile. In fondo gli amori impossibili sono gli unici che nessuno ci può togliere. Nonché gli unici certamente destinati a non finire mai.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica
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Titolo originale: Portrait de la jeune fille en feu
Anno: 2019
Durata: 119’
Regia e sceneggiatura: Céline Sciamma
Fotografia: Claire Mathon
Montaggio: Julien Lacheray
Musiche: Jean-Baptiste de Laubier, Arthur Simonini
Attori: Noémie Merlant, Adèle Haenel, Valeria Golino, Luàna Bajrami
Uscita italiana: 19 dicembre 2019
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LES OGRES - Un peu plus fort, un peu plus vite

9/5/2017

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​Vivere al massimo. Su e giù per le strade di Francia, regalando svago e gioia alle persone che si incontrano di volta in volta sul proprio cammino. Accampati in roulotte mai ferme a lungo nello stesso posto. Mescolando finzione e realtà, teatro e verità, recitazione e concreti sentimenti. Membri di una piccola grande famiglia all'interno della quale senza soluzione di continuità si accavallano amori e tragedie, amicizie e rancori, speranze e disillusioni, passioni e stanchezza, abbracci e tradimenti. Andando però avanti, sempre e comunque, perché il coinvolgimento per il proprio mestiere travalica ogni forma di corrosione fisica e mentale.
​Cantando e ballando, accompagnando in scena l'arte, divorando se stessi e il pubblico come orchi famelici e insaziabili. Bevendo via le ristrette abitudini sociali, in una festosa orgia che supera i confini della razionalità per farsi strumento di illimitata energia. Al ritmo di un tango, stretti e lontani, tra una vodka e una fuga, un ritorno e un addio, un tendone da smontare e rimontare all'infinito e uno spettacolo che suona le urla del desiderio febbrile. Fino al limite e oltre, e poi di nuovo, in un'altra città, davanti ad altri occhi. Ancora e ancora.
​Non per la fama, non per i soldi, non per chissà quale fantomatica scalata al successo. Semplicemente spinti dalla voglia di esprimersi, errando vagabondi e gitani. Per giorni, mesi e anni. Esclamando l'ennesimo “maladiez!” (buon viaggio in russo) e brindando alla dolce e dura follia di una vita fuori dagli schemi e per questo forse bella come nessun'altra. 

Secondo lungometraggio di Léa Fehner, premiato a Cabourg e Pesaro nel 2016 e uscito in poche sale italiane a inizio 2017, Les Ogres racconta l'esistenza eccessiva e dirompente di una compagnia di teatro itinerante che da lustri attraversa la Francia portando in scena, tra le altre, le opere di Čechov. Una ristretta comunità dentro alla quale si snodano leggi autoctone, gerarchie stabilite da lungo tempo e ormai non più tanto solide, tragedie personali e drammi individuali che giocoforza si ripercuotono sugli stati d'animo di tutto il gruppo. Una tribù festante che dona il buonumore, sprizzando carica emotiva da tutti i pori davanti al pubblico per poi, a spettacolo quotidiano terminato, ritirarsi nel proprio mondo in miniatura, dietro alle quinte e fuori dalla scena, lottando con le insicurezze e le storie di ognuno ma ponendosi sempre l'obiettivo di mantenere in piedi lo scopo comune: vivere per l'arte, nell'arte e con l'arte, correndo a perdifiato lungo un sentiero vorace che non può e non deve avere fine. 
Girato rispettando la continuità temporale della sceneggiatura e con il cast “costretto” a stare insieme a tempo pieno per settimane, al fine di creare una sorta di effettiva unione collettiva, Les Ogres sa catturare sin dal primo istante, nonostante sia talvolta disordinato, disequilibrato e disarmonico. Un'empatia derivata da una messinscena impetuosa che sfrutta appieno opzioni rappresentative temerarie, a partire dalla scelta, da parte della regista, di far recitare, in pratica nella parte di se stessi, reali membri della sua famiglia (padre, madre e sorella), veri artisti itineranti che da 20 anni conducono questa vita, sperimentata a lungo dalla stessa Léa Fehner prima di lasciare la compagnia per puntare alla carriera cinematografica.
​L'elemento autobiografico diventa così un ideale punto di partenza da cui sviluppare un film che riesce nella difficoltosa impresa di amalgamare con foga ed entusiasmo vissuto e artificio narrativo, attori di teatro e attori di cinema (in particolare la sempre magnifica Adèle Haenel, luminosa e ipnotica in ogni espressione e l'almodovariana Lola Dueňas), celebrando i valori di queste anime senza però limitarsi all'omaggio fine a se stesso, ma anzi mostrando con forza anche il lato oscuro della medaglia: la fatica, gli egoismi, le cattiverie, la cronica mancanza di privacy, l'esposizione perenne a freddo, intemperie, incomprensioni e scontri con la morale comune. 

C'è tanto amore nell'opera della Fehner. E forse pure un po' di astio nei confronti di un mondo che può essere straordinario ma anche insopportabile. In qualsiasi caso, per fortuna, i sentimenti non annebbiano la capacità di creare cinema. Così, pur nella confusione generale, si aprono scene esaltanti che restano stampate nella mente, ad esempio la grottesca e divertente rissa al ristorante sulle note di 24000 baci di Celentano, il tenero atto di coraggio di una donna di mezza età che si presenta nuda davanti al suo improvvisato amante, il tragicomico momento in cui uno dei protagonisti scopre la sua gravida compagna sul loro camper mentre si fa fare un cunnilingus da uno sconosciuto ragazzino, o ancora la sequenza in cui, all'ospedale, dopo un parto appena concluso, un'infermiera raggiunge la sala d'aspetto, chiede alla troupe lì riunita “chi è il padre?”, e a quel punto nessuno risponde ma l'intera brigata, in silenzio, sorridendo sorniona, entra nella stanza della ragazza per vedere il neonato, lasciando trionfare il simbolismo della famiglia allargata. Il tutto per giungere infine a un epilogo prevedibile ma non per questo meno toccante.
Caotico, slabbrato, suggestivo, Les Ogres è un lavoro che, al netto dei suoi difetti, lascia in eredità emozioni concrete e messaggi positivi. Uno di quei film che instilla qualche dubbio durante la visione ma resta poi impresso a fondo nella testa, convogliando ricordi belli, freschi e genuini. Un cocktail inebriante e dal sapore deciso, dedicato, per usare le parole della stessa regista, a “les hommes et les femmes qui abolissent la frontière entre le théâtre et la vie pour vivre un peu plus fort, pour vivre un peu plus vite".

​Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

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Scheda tecnica 

Titolo originale: Les Ogres
Regia: Léa Fehner
Sceneggiatura: Léa Fehner, Catherine Paillé e Brigitte Sy
Fotografia: Julien Poupard
Musiche: Philippe Cataix
Montaggio: Julien Chigot
Durata: 138'
Anno: 2016
Uscita italiana: 26 gennaio 2017
Attori: Adèle Haenel, Marc Barbé, Lola Dueñas, Inès Fehner, François Fehner, Marion Bouvarel

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SUZANNE - Il vuoto dell'assenza

29/5/2015

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Suzanne e Maria sono due sorelle inseparabili. La loro madre è scomparsa prematuramente, motivo per il quale crescono solo con l'apporto del padre, camionista di professione, spesso lontano da casa ma sempre pronto a fornire alle figlie tutto l'affetto possibile nonostante un carattere piuttosto irascibile. Prima ancora di completare il suo percorso adolescenziale Suzanne si fa mettere incinta; decide di tenere il bambino, pur non essendo affatto pronta a gestire la maternità. Le cose peggiorano ulteriormente quando la ragazza incontra Julien, delinquente per il quale sviluppa un amore malsano che la conduce a intraprendere una strada pericolosa tra le trappole dell'illegalità. Suzanne fugge con Julien, abbandonando il figlio e gli altri legami familiari. Tempo dopo viene arrestata; è solo l'inizio di una deriva che andrà inevitabilmente a straziare anche il cuore del padre e dell'affezionata sorella.

Selezionato a Cannes come film d'apertura della Semaine de la Critique nel 2013, passato fuori concorso nello stesso anno al Torino Film Festival, accolto benissimo dalla stampa francese ma rimasto purtroppo inedito nelle nostre sale, a causa della consueta dabbenaggine della distribuzione italiana, Suzanne è il secondo lungometraggio di Katell Quillévéré, classe 1980, nata in Costa d'Avorio e già autrice nel 2010 dell'ottimo Un Poison Violent, vincitore del My French Film Festival.
La base del film nasce dalla lettura, da parte della regista, di biografie scritte da criminali più o meno famosi, e dall'idea di analizzare il ruolo troppo spesso sottovalutato delle compagne di questi uomini, disposte a mettere in gioco la propria vita per l'amore nei confronti di soggetti così poco raccomandabili. Nello sviluppo della narrazione la Quillévéré si tiene però distante da teoriche prospettive noir, concentrandosi invece sulle sfumature di un intenso dramma familiare costruito secondo una schema abbastanza rischioso. Suzanne (1) si snoda infatti attraverso un'ampia serie di salti temporali: all'inizio ci vengono mostrati alcuni segmenti dell'infanzia delle due sorelle, che subito dopo ritroviamo adolescenti e poi al principio dell'età adulta, in un progressivo invecchiamento dei personaggi che prosegue per tutti i novanta minuti di durata, assommando ellissi che tagliano dalla nostra visuale interi mesi (o anni) di vissuto. L'autrice procede dunque a piccoli e grandi balzi, lavorando molto sul fuoricampo, mostrandoci soltanto gli avvenimenti a suo avviso decisivi, lasciando tante pagine bianche che peraltro si possono idealmente riempire con estrema facilità, in virtù di una messinscena che non appare mai confusa o in affanno.
Tra un salto e l'altro, la triade compositiva di Suzanne (il padre e le due sorelle), accostata dagli elementi in un modo o nell'altro perturbanti (il figlio di lei, il tenebroso Julien), attua la propria progressiva disintegrazione, per colpa delle scelte sbagliate di una ragazza ribelle e fragile che ogni volta inciampa nei tranelli che la vita le propone. L'amour fou di Suzanne nei confronti di Julien, capace di sopravvivere nonostante le lunghe separazioni più o meno forzate, si ripercuote anche su Maria, esatto opposto della sorella in quanto a maturità, raziocinio e compostezza, e sul padre, uomo soltanto in apparenza rude e virile la cui anima (già duramente provata dalla morte della moglie) si sfalda passo dopo passo in parallelo con le disgrazie della figlia.

1) Il titolo della pellicola, riferito ovviamente al nome della protagonista, deriva da À nos amours, film amatissimo dalla regista (che lo vide in Tv quando era ragazza e se ne innamorò), realizzato da Maurice Pialat nel 1983. Il titolo originario del lavoro di Pialat, poi modificato prima dell'uscita, era proprio Suzanne.

La pregevolissima opera seconda della Quillévéré si pone all'occhio critico come un'opera giocata soprattutto sui vuoti, sulle assenze, sul dolore che queste ultime infliggono a chi resta. Le assenze temporanee di Maria, operaia fuori sede, sottolineate dallo sguardo affranto di Suzanne sui binari di un treno in partenza; le assenze frequenti e inevitabili del padre, in viaggio su e giù per le autostrade di Francia; la distanza di una ragazza-madre che da un giorno all'altro abbandona il proprio pargolo; la mancanza di una figlia che scompare nel nulla per poi tornare finalmente a dare tracce di sé, anni dopo, da dietro le sbarre di una prigione; il fallimento di una redenzione che pare a un certo punto palesarsi ma svanisce come una bolla di sapone al ritorno della passione malata; la plumbea consistenza degli anni che passano, accavallando sofferenze talvolta mute talvolta urlate, tra rimpianti e sogni vacui, senza mai trovare il segreto per tramutare il desiderio d'amore in pace e benessere.
Accompagnato da una colonna sonora insistente e fremente, che partendo da uno splendido tema portante alterna con acume rock, jazz, grunge, rap e pezzi storici (l'omonimo brano cantato da Leonard Cohen nel 1967), Suzanne si giova di una messinscena attenta e appassionata, che abbraccia senza freni le qualità di tre attori in stato di grazia: Sara Forestier, aspetto da eterna ragazzina ma recitazione ipnotica e vibrante; Adèle Haenel, luminosissima nuova stella del cinema francese, impressionante per forza espressiva e carisma in un ruolo che le ha fatto vincere il premio César (bissato appena un anno dopo con il trionfo per l'interpretazione in Les Combattants); François Damiens, nato e cresciuto nel nido della commedia ma qui intensissimo e concreto anche in veste drammatica, a delineare una completezza artistica poi ribadita, ad esempio, con l'irresistibile performance in La Famille Bélier. Accanto a loro si notano in piccoli ruoli anche Corinne Masiero (Louise Wimmer, Lulu femme nue) e, in un brevissimo cameo, Lola Dueñas, musa almodovariana ormai non nuova a partecipazioni in produzioni francofone (Les femmes du 6e étage di Le Guay, Alleluia di Du Welz).
Senza cadute né incertezze, il film della Quillévéré chiede molto ai suoi personaggi e molto ottiene, riuscendo a barcamenarsi con piena efficacia nel mare in tempesta dei loro destini avversi, sino a deflagrare in un colpo di scena finale che lascia cadere al suolo anche gli ultimi scrosci di pioggia e di pianto. Soltanto da quel momento, nella definitiva siccità del sentimento, tra le ceneri delle illusioni, potrà forse rinascere un piccolo germoglio di speranza.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Katell Quillévéré
Sceneggiatura: Mariette Désert, Katell Quillévéré
Attori: Sara Forestier, François Damiens, Adèle Haenel, Paul Hamy
Musiche: Verity Susman
Fotografia: Tom Harari
Anno: 2013
Durata: 90'

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LES COMBATTANTS - L'arte della sopravvivenza

10/2/2015

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Arnaud ha 17 anni. Dopo la morte del padre, aiuta il fratello maggiore nella gestione della piccola azienda a conduzione familiare che si occupa della costruzione di tettoie da giardino. La sua estate sembra andare in questa determinata direzione, tra il lavoro e le serate di svago con gli amici di sempre. 
Le cose cambiano quando Arnaud conosce Madeleine, coetanea tanto affascinante quanto misteriosa, con il fisico scolpito e strambe idee orientate verso apocalittiche idee di morte e distruzione. La ragazza sta per iscriversi a un corso di preparazione militare: il suo obiettivo è diventare sempre più forte e preparata, per affrontare al meglio le imminenti disgrazie che porteranno al probabile collasso della razza umana. 
Arnaud comprende di essere attratto da questa bizzarra creatura perennemente in guerra con il mondo, anche se non ne comprende fino in fondo i gesti e i pensieri; per restarle vicino, o forse inconsciamente per proteggerla, si iscrive anche lui allo stage di 15 giorni con i paracadutisti, un'esperienza formativa durante la quale all'improvviso i due si troveranno a dover realmente lottare per la sopravvivenza, da soli nella foresta, senza cibo né medicine.

Les Combattants nel 2014 è stato in assoluto il film rivelazione dell'anno in Francia. Presentato alla Quinzane des Réalisateurs a Cannes ha portato a casa svariati premi; è poi uscito nelle sale transalpine a fine agosto ottenendo l'applauso del pubblico e un quasi totale plebiscito da parte della critica d'Oltralpe, ed è arrivato a conquistare ben nove nomination ai César, inclusa quella come miglior film. 
Il lavoro in questione è l'opera d'esordio di Thomas Cailley, classe 1980; una pellicola che si iscrive solo parzialmente nell'ampio filone contemporaneo francese dedicato all'età adolescenziale, in quanto cerca di percorrere strade per quanto possibile originali e autonome. Il tema di fondo verte sul bisogno di crescita di due diciassettenni che cercano una strada nella vita, senza aver ancora pienamente compreso la direzione da intraprendere. Arnaud pare destinato a una placida esistenza condotta secondo classici stilemi di provincia impostati su casa, lavoro e amici, in una scontata quotidianità in cui anche non fare nulla ha un senso, come egli stesso spiega nel dialogo più bello del film: “Essere capaci di far passare il tempo, senza fare niente di particolare, senza pensare a grandi cose: questo è sopravvivere. Altrimenti si diventa pazzi”. Madeleine, al contrario, morde i freni della realtà a testa bassa, buttandosi in piscina con pesi attaccati alla schiena, aprendo bottiglie di birra con i denti, trangugiando orrende misture a base di pesce frullato, per urlare al mondo la propria ribellione, il rifiuto delle abitudini sociali della sua età e il desiderio impellente di essere più forte di ogni incombenza che la circonda.
Dietro al catastrofismo spirituale e all'estremismo comportamentale, risulta facile rendersi conto di come in realtà Madeleine soffra di un acuminato senso di solitudine, di un bisogno di amore e normalità che non è capace di esprimere. A tal fine ella corre disperata controvento, sfidando quel mondo che non ne sa tradurre le più intime necessità, per mascherare la fragilità di cui peraltro non può che essere vittima.
L'incontro tra due personalità così differenti genera meccanismi narrativi in parte prevedibili, con gli attriti iniziali e un successivo avvicinamento che sfocia nel sentimento, senza che ciò vada peraltro a inficiare la buonissima riuscita di un film che impressiona per freschezza e lucidità, nonostante qualche eccessivo simbolismo dovuto a ingenuità comunque perdonabili. La prima parte dell'opera disegna con assoluta efficacia lo spaesamento esistenziale dei due protagonisti e le piccole scoperte e delusioni di un'estate assolata in cui ribollono i germi del cambiamento; la seconda parte, di estrazione militaresca, aggiunge forse meno elementi di riflessione, riuscendo però a risalire la china nel momento in cui i due si trovano da soli, perduti ai margini del nulla, come anime allo sbando in un Eden che tale più non è. Il prefinale, di stampo quasi fantascientifico, risulta sin troppo ambizioso, ma è utile per preparare il saluto a personaggi che abbiamo nel frattempo imparato ad apprezzare anche e soprattutto per le loro imperfezioni. 
Les combattants (Love at First Fight per il mercato internazionale) sfrutta una brillante colonna sonora che mescola dance, rock, elettronica e new wave, accompagnando con ardore la messinscena senza risultare troppo invasiva, e si avvale delle interpretazioni del discreto Kevin Azaïs e soprattutto di Adèle Haenel, ormai diventata una delle giovani attrici francesi più richieste in patria. Già premiata con il César lo scorso anno per l'ottimo Suzanne, la Haenel si getta senza remore in un'interpretazione dura, molto fisica e mascolina, ai limiti dell'androginia, ricordando in qualche spunto la Sigourney Weaver dei tempi d'oro e dando piena sostanza a un personaggio a tutto tondo che in poche avrebbero potuto impersonare meglio di così. 
Dai suoi occhi grintosi si sviluppa una coinvolgente battaglia che coinvolge il presente e il futuro, una lotta da affrontare guardando più in là rispetto alla realtà fattuale, per uscire dalla trincea e trovare la via del proprio destino.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Les Combattants
Regia: Thomas Cailley
Sceneggiatura: Thomas Cailley e Claude Le Pape
Musiche originali: Hit'N'Run
Fotografia: David Cailley
Montaggio: Lilian Corbeille
Durata: 98'
Anno: 2014
Attori: Kévin Azaïs, Adèle Haenel, Antoine Laurent, Brigitte Roüan

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