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JOURNAL D'UNE FEMME DE CHAMBRE - Cattivi servi, cattivi padroni

25/2/2016

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​“Esistono solo cattivi posti e cattivi padroni”, dice all'inizio la cameriera Célestine, nel momento in cui le viene offerto un impiego in un paesino di campagna presso i coniugi Lanraire. Per lei lasciare la mondanità di Parigi è un piccolo trauma, ma in fondo vivere in città o in un misero sobborgo non è poi così differente: i borghesi sono uguali dappertutto, con la loro crudeltà, i loro dispetti, la loro falsità e le perenni attenzioni e violazioni sessuali che Célestine, a causa della sua avvenenza, subisce regolarmente da anni.
La nuova quotidianità della ragazza non è diversa da altre; tanto lavoro, tanta fatica, una padrona infingarda che la umilia ogni volta che può e un padrone che cerca in tutti i modi di infilarsi nel suo letto, non contento di portare già avanti una relazione adultera con la procace cuoca di casa. La differenza, rispetto a simili contesti, è la presenza di Joseph, domestico, giardiniere e tuttofare; un uomo di fatica, silenzioso, sgarbato e ombroso, che la affascina sino al punto di farla innamorare.
Siamo agli inizi del Novecento, in un periodo in cui in Francia cova il germe dell'odio antisemita, di cui Joseph si fa agguerrito rappresentante. Célestine trascorre le sue giornate tra le vessazioni dei Lanraire e l'attrazione crescente per l'uomo che distribuisce volantini contro gli ebrei. Nel frattempo, nei rari attimi di quiete, la cameriera rivive nella mente frammenti di ricordi relativi a occupazioni e avventure vissute nel recente passato. Quando Joseph propone a Célestine di essere sua complice in un losco piano grazie al quale potranno fare soldi e trasferirsi insieme altrove, la ragazza accetta. Per lei, forse, ci sarà una nuova vita, impreziosita finalmente dall'agiatezza ma sporcata dal crimine.

Presentato in concorso al festival di Berlino 2015, uscito in Francia ad aprile dello stesso anno e non distribuito in Italia, Journal d'une femme de chambre è il quarto adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Octave Mirbeau, pubblicato nel 1900. Vi si erano già cimentati due maestri del calibro di Jean Renoir e Luis Buñuel, con versioni peraltro estremamente diverse, molto più cauta e speranzosa la prima, profondamente eversiva la seconda. Benoît Jacquot, reduce dalle stroncature ricevute per il precedente 3 coeurs, sceglie un approccio se vogliamo più vicino all'opera buñueliana del 1964, pur restando a debita distanza dalla ferina carica antiborghese dell'autore spagnolo. Giovandosi di una buona ricostruzione storica e ambientale, Jacquot percorre la strada dell'ambiguità, mettendo in scena personaggi che non offrono né approdi felici né configurazioni divise in maniera netta tra il bene e il male. 
La bella Célestine, perenne oggetto di sfruttamento psicologico e fisico, è una figura ribelle e umorale; non una semplice vittima, bensì una tigre in gabbia, combattuta in ogni istante tra il sogno di sfuggire alla sua condizione di sottomessa e il desiderio di essere in qualche modo dominata. Lo stesso Joseph, dipinto da Mirbeau e Buñuel come uomo spregevole dedito a violenta propaganda antisemita e a stupri e omicidi di ragazzine, qui è disegnato su toni intermedi; su di lui gravano all'occhio dello spettatore evidenti sospetti, ma nessuna certezza. In questa oscillazione cromatica si situa uno dei punti di forza del film di Jacquot, autore (con Hélène Zimmer) di una sceneggiatura ombrosa e dolente, nella quale si sottolinea a piè sospinto l'inconciliabile divisione delle classi sociali (“nemmeno i cani dei ricchi sono mai poveri”), ma dove nessuno resta piantato in prestabiliti ruoli di martire o carnefice.
​
Candidato a tre premi César (miglior adattamento, scenografie e costumi), il lavoro di Jacquot è stato accolto da giudizi critici contrastanti: fredde reazioni a Berlino, giudizi negativi di gran parte della stampa italiana e internazionale, recensioni invece per la quasi totalità positive sulle riviste francesi (entusiasta, ad esempio, il parere di Positif). Semplice sciovinismo? No, non crediamo; sarebbe una spiegazione troppo banale.
La verità è che l'opera presenta numerosi aspetti interessanti, a partire proprio dal buon lavoro di scrittura, a cui però fanno da contraltare inciampi di regia piuttosto gravi, dall'uso smodato e superfluo degli zoom, alle tecniche sin troppo elementari di introduzione ai flashback, sino a un paio di scene assai maldestre (il vibratore al controllo della dogana, la morte di un giovane rampollo durante un atto sessuale). Peccato, perché questa nuova rilettura offre una rappresentazione d'epoca non priva di qualità, mostrandoci le diverse sfumature di due condizioni agli antipodi, i padroni e i servi, tra le quali però proliferano più somiglianze di quanto si potrebbe mai pensare.
Il germe della violenza e della vendetta reclama la sua fame, dai primi passi della messinscena sino all'epilogo (molto più fedele al romanzo rispetto alla versione di Buñuel), in un film che cita Jacques Demy (i marinai di Cherbourg), si ammanta di sussurri chabroliani e sfrutta le luci naturali, riportandoci vagamente alle atmosfere di Barry Lindon, salvo poi scemare in un buio intriso di speranze ma privo di reali conferme.
A dare volto alla vicenda un'algida Léa Seydoux, ammaliante ma non sempre a suo agio in una parte tutt'altro che scontata, e lo straordinario Vincent Lindon, nell'anno della sua definitiva e meritatissima consacrazione (il trionfo a Cannes come miglior attore per La loi du marché), qui in un ruolo rude e taciturno, ma come sempre grandioso per la sua capacità di trafiggere lo schermo anche soltanto con un gesto, un movimento, uno sguardo. Con loro un quasi irriconoscibile Patrick D'Assumçao (lo ricordiamo pingue e sbarbato sulla spiaggia de L'inconnu du lac), bizzarro militare che si diverte a ingurgitare ratti e bruchi, esponente di una brutalità illogica che può esplodere da un istante all'altro, oggi come allora, sorvolando i confini del tempo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Journal d'une femme de chambre
Anno: 2015
Durata: 95'
Regia: Benoît Jacquot
Soggetto: Octave Mirbeau (romanzo)
Sceneggiatura: Benoît Jacquot, Hélène Zimmer
Fotografia: Romain Winding
Scenografia: Katia Wyszkop
Costumi: Anaïs Romand
Attori: Léa Seydoux, Vincent Lindon, Hervé Pierre, Clotilde Mollet, Patrick D'Assumçao

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LA LOI DU MARCHÉ - Il confine della moralità

7/10/2015

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Il mercato del lavoro. Le sue crudeli regole. La disperata ricerca di un impiego. La disillusione, le difficoltà, il fastidio, l'estenuante strada verso il nulla. Salvo poi ritrovarsi dall'altra parte della barricata, a muoversi giocoforza sul confine tra ciò che si è e ciò che si era fino a poche settimane prima. Lottando strenuamente con le proprie leggi morali, per decidere se essere avviluppati dal sistema o al contrario uscirne fuori, pur consapevoli delle dure conseguenze.
Thierry, anni 51, una moglie affezionata e un figlio disabile. Svariati mesi senza impiego, conditi da curriculum inviati, corsi di formazione e colloqui sostenuti a vuoto, faccia o faccia o via Skype. Poi, finalmente, l'occasione: un lavoro come guardiano in un ipermercato. Sorvegliare le persone, osservarle, fermarle al volo in caso di furti, per condannarle, nei casi più gravi, agli stessi problemi di cui lui si è appena liberato. Un mostruoso cerchio che si chiude, generando sanguinosi conflitti interiori. Il mercato, ora e sempre: un monolite che non guarda in faccia a nessuno, una bestia feroce che scava, impietosa, con le sue lunghe zanne, nelle ribollenti viscere della crisi economica.

Stéphane Brizé, al suo settimo lungometraggio, torna per la terza volta a lavorare con Vincent Lindon, dopo Mademoiselle Chambon e soprattutto Quelques heures de printemps, notevole dramma nel quale un ex galeotto si trovava a dover affrontare il difficoltoso rapporto con l'anziana madre e la grave malattia di cui quest'ultima scopriva di essere afflitta. Un'opera, la precedente, silenziosa e sfumata, toccante e autunnale, caratteristiche piuttosto simili a quelle che identificano La loi du marché, pellicola dolente e pregiata grazie alla quale Lindon ha vinto a Cannes un meritatissimo premio come miglior attore. 
Il tocco ormai riconoscibile di Brizé assomma una sceneggiatura solida e puntuale e una regia pressoché invisibile, impostata su inquadrature fisse e lievi movimenti di camera che portano per mano lo spettatore all'interno di scene ansiogene e ipnotiche, durante le quali la battaglia intima di un uomo di mezza età alle prese con dilemmi di complessa risoluzione sviluppa il proprio senso di sconfitta e ingiustizia. La cavalcata a capo chino del protagonista Thierry attraversa una desolata landa contemporanea in cui dominano povertà ed egoismi assortiti, racchiusi in una scatola filmica che ingloba uno smaccato desiderio autoriale rivolto a un realismo il più possibile deciso e concreto. Risiede esattamente qui, nella verità fattuale degli eventi, la forza invidiabile di un'opera che riesce a riassumere con estrema naturalezza una delle caratteristiche peculiari (e insuperabili) del cinema francese: la capacità di realizzare racconti di disarmante semplicità e al contempo di devastante efficacia.
In un film immediato dal punto di vista della struttura d'insieme, sono inoltre anche i dettagli a fare la differenza: lo sguardo basso di Thierry durante i soffocanti interrogatori a danno dei taccheggiatori; le inutili ore trascorse a pulire i mobili di casa; il coro dei dipendenti che saluta il pensionamento di una collega; i pochi momenti di aria fresca e i rari sorrisi, racchiusi in un indovinello del figlio a tavola o in un corso di ballo con la moglie. In questi particolari si perfeziona un disegno magistrale, nel quale si affronta una tematica prettamente attuale con risultati perfino superiori rispetto ad altri recenti corrispettivi francofoni (il pur lodevole Deux jours, une nuit dei Dardenne), utilizzando per la quasi totalità attori non professionisti chiamati a recitare se stessi (impiegati di banca, responsabili delle risorse umane, commessi di un supermercato).
Accanto a tutti questi esempi di vita vera domina e incanta, ancora una volta, Vincent Lindon, ormai da qualche anno approdato a vette di assoluta eccellenza, grazie a una vasta serie di interpretazioni memorabili (Chaos, La moustache, Welcome, Pour elle, Les salauds, solo per citarne alcune); un uomo che con impressionante disinvoltura muove il suo corpo e le sue tonalità espressive occupando gli spazi dell'inquadratura per trasformarsi, in qualsiasi istante, nella personificazione fisica ed emotiva di ogni variazione d'istinto e sentimento. Il tutto sempre sottovoce, sottotraccia, senza arroganza né presunzione, all'opposto rispetto alla scatenata verve dei comunque meravigliosi compatrioti Luchini, Rochefort, Wilson e Amalric.
​Lindon recita nell'ombra, ed è proprio da quell'ombra che esplode la potenza di un attore superbo, per il quale il premio a Cannes è una tardiva ma sacrosanta consacrazione. Per certi versi un altro cerchio che si chiude, in positivo, in direzione contraria rispetto al destino del suo personaggio, costretto a subire l'impostura di una società opprimente che si ciba delle nostre speranze. 

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Cannes 68


​Scheda tecnica

Regia: Stéphane Brizé
Sceneggiatura: Stéphane Brizé, Olivier Gorce
Attori: Vincent Lindon, attori non professionisti
Fotografia: Éric Dumont
Montaggio: Anne Klotz
Anno: 2015
Durata: 93'
Uscita in Italia: 29 ottobre 2015

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QUELQUES HEURES DE PRINTEMPS - Il lungo addio

6/8/2014

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Alain Evrard ha quasi cinquant'anni. Dopo un periodo di reclusione dovuto a contrabbando esce di prigione, e non avendo un altro posto dove andare torna a vivere a casa dell'anziana madre Yvette. Il rapporto tra i due trascina silenzi e incomprensioni nate molto tempo prima e mai risolte, generando grevi momenti di litigio alternati a un reciproco e risentito distacco. Alain e Yvette simboleggiano due solitudini che invece d'incontrarsi si scontrano, rifiutando quell'affetto latente che pare non voler riemergere in alcun modo. 
Un giorno Alain scopre che la madre è gravemente malata (un tumore al cervello ormai incurabile), ma nemmeno questa rivelazione pare appianare il rapporto tra i due. Yvette sceglie di rivolgersi a un'istituzione che concede alle persone giunte al termine della vita la possibilità di effettuare un suicidio assistito, per spegnersi dolcemente prima che la malattia produca effetti devastanti; Alain non comprende fino in fondo il perché di questa decisione, ma capisce di doverle comunque stare accanto, fino all'ultimo istante, per dare a entrambi un'ultima occasione di amore e riscatto. 
Presentato in Piazza Grande a Locarno nel 2012, accolto dagli applausi di quasi tutta la stampa francese, nominato ai César e tanto per cambiare mai uscito in Italia, Quelques heures de printemps affronta con coraggio e parsimonia il delicatissimo tema dell'eutanasia, con esiti parzialmente paragonabili all'ottimo Miele di Valeria Golino. Il film di Stéphane Brizé accoglie su di sé i pregi di una sceneggiatura equilibrata, sensibile e non schierata, raccontando con semplicità e cognizione di causa la storia di un intenso dramma familiare la cui risoluzione naviga lontana da qualsiasi forma di retorica. 
I due personaggi al centro della vicenda camminano sulle onde del dolore, oscillando tra dubbi, fallimenti, abbandono e dignità. Alain è un uomo di mezza età irascibile, gravato dai fantasmi della colpa, incapace di gestire qualsiasi legame sentimentale e di accontentarsi di un lavoro di basso livello pur di rincominciare; Yvette è una donna determinata, ferma sulle proprie convinzioni e pronta a tutto pur di uscire dal mondo a testa alta. Madre e figlio scontano le macchie indelebili di parole non dette e baci non dati, si spiano a vicenda coltivando una rabbia infinita, si scambiano dispetti da quattro soldi riducendosi al rango di adolescenti testoni, si cercano nell'odio, e rischiano di dirsi addio divisi dal disprezzo, sprecando l'ultima opportunità per trovare la pace.
Esistono però creature straordinarie, capaci di unire gli esseri umani con molta più efficacia di quanto la stupidità delle persone sia in grado di fare: gli animali. Nel momento in cui l'amato cane di famiglia accusa all'improvviso un preoccupante malore, la corsa in clinica veterinaria si tramuta nel momento di svolta dell'intera vicenda, frantumando finalmente il muro del risentimento. Da quella notte in poi, anche una cena consumata insieme in silenzio davanti alla Tv assume i connotati di una dimostrazione d'affetto, un piccolo gesto con cui avvicinarsi in modo più dolce al viaggio d'addio verso la struttura in Svizzera dove si svolgerà il suicidio assistito, per essere pronti, negli ultimi istanti, a confessare forse quell'affetto rimasto per troppo tempo nascosto in fondo all'anima.
Il film di Brizé (reperibile online in lingua originale con i sottotitoli italiani) vibra d'intensità e ricchezza emotiva, nonostante insegua una messinscena in apparenza “povera” e fredda; gioca con le traiettorie di sguardo, parla di amore e dignità senza alcun ricatto ricoperto di pietismo, e rincorre lo scorcio di primavera del titolo cullando lo spettatore con intimità e rispetto, sino a portarlo per mano verso il commovente finale. 
Vincent Lindon, grande attore che ormai conosciamo alla perfezione, rinuncia in alcuni punti alla morigerata inquietudine che da sempre lo caratterizza, e pur mantenendo la qualità di recitazione di altri recenti lavori come Pour Elle e Les Salauds, si lascia andare a sorprendenti esplosioni di rabbia, senza peraltro mai perdere d'efficacia. Accanto a lui Hélène Vincent, ammirabile per come riesce a donare decoro e fermezza d'animo al suo personaggio, ed Emmanuelle Seigner, eterea fiamma che divampa dal nulla in una serata di svago al bowling, per poi oscillare e infine svanire tra i flutti dell'incomprensione, lasciando Alain e il suo volto sfatto a rimirare un paesaggio lontano, ricoperto da un sole che soltanto in parte potrà lenire l'eterno spettro del rimpianto.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Stéphane Brizé
Sceneggiatura: Florence Vignon e Stéphane Brizé
Fotografia: Antoine Héberlé
Musiche: Nick Cave e Warren Ellis
Anno: 2012
Durata: 108'
Attori: Vincent Lindon, Hélène Vincent, Olivier Perrier, Emmanuelle Seigner

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POUR ELLE - Libertà criminale

19/3/2014

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Julien e Lisa Auclert conducono una vita normale e serena. Sono sposati, si amano e regalano tutto l'affetto possibile al loro figlio Oscar. La tranquillità della coppia è però totalmente sconvolta una mattina in cui, all'improvviso, la polizia fa irruzione nel loro appartamento, arrestando Lisa con l'accusa di aver ucciso la sua capoufficio. La donna si proclama innocente, Julien non si capacita di quanto stia accadendo, ma a nulla servono le proteste: Lisa è incarcerata e condannata a 20 anni di reclusione per l'evidenza delle prove a suo carico. 
Tre anni dopo anche l'ultima speranza di rilascio affonda, nel momento in cui la Corte di Cassazione conferma la sentenza: non ci sono infatti sufficienti elementi che possano provare l'innocenza di Lisa. Da lì Julien intraprende una personalissima guerra contro l'ingiustizia subita, e inizia a progettare un folle piano per far evadere la moglie e fuggire con lei e il bimbo all'estero, così da iniziare una nuova vita insieme. Il suo intento lo condurrà ad atti criminali che mai avrebbe immaginato di poter compiere.
Debutto alla regia di un lungometraggio per Fred Cavayé, Pour Elle, uscito nel 2008, propone una struttura narrativa ambivalente, divisa tra il dramma famigliare e l'action. Il film disegna l'approdo di Julien oltre i lidi della legalità, e la sua discesa agli inferi del buio; ogni gesto diventa lecito, ogni rischio può e deve essere corso, pur di salvare la moglie e correre con lei e il figlio verso un futuro che li possa ancora vedere uniti.
Cavayé non è in alcun modo interessato all'andamento processuale della vicenda, né impone allo spettatore il dubbio riguardo alla presunta innocenza della donna: la verità riguardo all'omicidio è svelata quasi subito, in flashback, ponendosi come elemento secondario e perfino trascurabile della storia. Il centro focale del film è invece il senso di disperazione di un uomo che non si rassegna di fronte agli eventi, e si improvvisa gangster pur di raggiungere l'obiettivo prefissato. Il non-crimine (della donna) si trasforma così nel crimine reale (dell'uomo), in un gioco a rimpiattino che si nutre dell'enormità di una perdita inaccettabile agli occhi di una persona qualunque che tale più non vuole essere.
Spinto dal febbrile desiderio di privata giustizia, Julien si getta a capofitto in una spirale di segreti e atti inconsulti, studiando a tavolino ogni mossa utile per procurarsi i soldi di cui ha bisogno, i documenti falsi per l'espatrio, le chiavi di lettura necessarie per dare sostanza al progetto di evasione. Ma chi non è fuorilegge nell'anima e nel cuore non può pensare di diventarlo così, da un giorno all'altro; la criminalità si impara, forse, a patto che si abbia la forza morale per muoversi nel pantano senza guardare più in faccia a niente e nessuno. Bisogna procedere con furbizia, cautela e autocontrollo, in silenzio, ponderando ogni azione, altrimenti ci si trova per terra, in un vicolo fetido, pestati a sangue e con 1500 euro in meno in tasca. Eppure, dopo i primi sbagli, la consapevolezza cresce, e nonostante il piano iniziale vada a farsi benedire, restano pochi giorni, poche ore, per tentare l'improbabile: tutto o niente, senza margine di caduta; la ruota gira una volta soltanto, non ci sarà una seconda chance.
Condotto con ammirabile solidità, grazie a una sceneggiatura imponente che rasenta (e qualche volta supera) i confini della credibilità senza peraltro mai affondare, Pour Elle si sviluppa con indiscutibile compattezza, giostrando con ottima precisione tra l'aspetto emozionale e la pura adrenalina. Negli occhi del protagonista Vincent Lindon, spesso chiamato in causa in pellicole tendenti al noir ma capace di essere efficace in qualsiasi territorio, troviamo speranze, rabbia, fiducia, ferite, dolore, estrema convinzione. Con lui ci addentriamo nella folle impresa del suo personaggio, a ritmo più che sostenuto, sino a un finale mozzafiato che correttamente ci lascia qualche incertezza perfino oltre l'ultimissima inquadratura, perché in fondo, come dice chi conosce bene la materia, “evadere è facile, il problema è restare liberi”.
Rifatto dagli americani nel 2010 (The Next Three Days, di Paul Haggis, con Russell Crowe), Pour Elle è stato candidato ai César come miglior opera prima, salvo poi essere battuto dal bellissimo Il y a longtemps que je t'aime di Philippe Claudel. Premi o non premi, resta comunque intatto il valore di un film capace di fondere intimismo e intrattenimento con esemplare acume.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Pour elle
Anno: 2008
Durata: 96'
Regia: Fred Cavayé
Sceneggiatura: Fred Cavayé, Guillaume Lemans
Fotografia: Alain Duplantier
Montaggio: Benjamin Weill
Musiche: Klaus Badelt
Attori: Vincent Lindon, Diane Kruger: Lisa Auclert, Lancelot Roch, Olivier Marchal, Ivan Franek

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LES SALAUDS - Macerie di una civiltà decomposta

10/1/2014

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Marco Silvestri, capitano a bordo di una nave, abbandona il suo incarico del momento e torna a Parigi, chiamato dalla sorella il cui marito si è appena tolto la vita. La donna, Sandra, gli chiede di indagare, addossando la colpa della tragedia a Edward Laporte, ricco uomo d'affari. Al contempo l'azienda di scarpe creata da Sandra e dal defunto coniuge è sull'orlo del fallimento, e la loro figlia è ricoverata in ospedale con gravi lesioni all'apparato genitale. Silvestri affitta un alloggio nello stesso palazzo in cui vive Laporte. Poco dopo avvia una segreta relazione con Raphaelle, compagna dello stesso Laporte. Tra un incontro amoroso e l'altro, Silvestri si immerge in una realtà inquietante condita da perversioni sessuali, sfruttamento e ignominie molto meno occulte di quanto si potrebbe pensare.
Non è semplice raccontare seppur a grandi linee la trama di Les Salauds, nuovo lavoro di Claire Denis uscito nei cinema francesi ad agosto 2013, così come non è facile approcciarsi alla visione del film, noir atipico che frulla le regole basilari della materia cercando (e trovando) una propria originalità. Negli anni abbiamo imparato a conoscere la radicalità di fondo del cinema della Denis, autrice scomoda per la sua inesausta voglia di scavare all'interno dei conflitti dell'animo umano estraendone le derivazioni più crude ed estreme. Anche in questo caso la regista di Cannibal Love e White Material conferma la sua poetica, utilizzando il genere di riferimento come base per poi sviluppare un racconto aspro, buio, in cui l'amore malato travalica qualsiasi flusso di coscienza per farsi unico testimone di un mondo governato da salauds (bastardi) privi di rimorsi.
L'indagine condotta da Marco Silvestri diventa ben presto un'immersione tra le rovine della società, coacervo di storture in cui la depravazione istintuale si accompagna alla connivenza, glorificando l'egoismo come cartina di tornasole di una civiltà decomposta. Aperto da una lunga inquadratura fissa sulla pioggia battente, il film della Denis fin da subito non offre alcuno spiraglio di luce, catapultandoci in una nuova dimensione antropofaga in cui l'uomo divora il suo prossimo defenestrando ogni limite e ogni forma di decenza, con l'unico fine di soddisfare i propri bisogni economici, sentimentali e sessuali. Così, mentre una giovane ragazza segnata dal dolore cammina nuda in strada con la vagina sanguinante, il mondo sa e tace, affoga i sensi di colpa e avanza a testa alta, consapevole di come il marcio individualismo sia l'unico strumento utile per sopravvivere.
Uscito come detto la scorsa estate in patria, Les Salauds è stato accolto molto male dal pubblico e anche da una parte della stampa transalpina, pronta ad affermare come la Denis abbia realizzato un film troppo cerebrale e confuso, soffocato da eccessive sovrastrutture e niente affatto coinvolgente a livello emotivo. Se il rifiuto degli spettatori può essere facilmente giustificato dalla radicalità stilistica del film stesso, troppo severe appaiono le critiche degli addetti ai lavori; il respiro glaciale di Les Salauds, la sua atipicità, la sua insistita componente ellittica in cui si procede per brevi sequenze sovrapposte una sull'altra come piccole tessere di un mosaico tutto da costruire, sono in realtà i veri punti di forza di un'opera tanto detestabile (all'apparenza) quanto invece interessante e ricca di spunti.
Certo, non tutto fila liscio, e qualche scelta di contorno appare poco azzeccata (le pannocchie, le sigarette avvolte nella camicia), tanto per dimostrare come la Denis si sia qui e là fatta prendere troppo la mano. Rimane però senza dubbio il valore di un film coraggioso e ipnotico, che abbraccia il silenzio della notte giostrando tra molteplici inquadrature di piedi che camminano incerti, donne ridotte a semplici oggetti di piacere e madri disposte a tutto pur di conservare i pochi affetti residui. Un quadro sulfureo e impietoso, abile a sfociare in un finale affranto e cupissimo.
Nel ruolo principale troviamo Vincent Lindon (anche produttore associato), come sempre bravissimo nel giocare di sottrazione e nel decantare le sue emozioni più con l'intensità degli sguardi che con le semplici parole. Accanto a lui la solita, magnifica Chiara Mastroianni, raro esempio di figlia d'Arte all'altezza del cognome che porta; un'attrice di assoluta qualità che da sempre vive e lavora in Francia, restando (per fortuna) lontana dal cinema italiano, dove con ogni probabilità non sarebbe valorizzata quanto merita. L'alchimia tra lei e Lindon funziona (torbida scena di sesso compresa), ma viste le capacità degli interpreti non c'è proprio di che stupirsi. Con loro una dimessa e disfatta Julie Bataille, un viscido e luciferino Michel Subor e, pur con minutaggio limitato, la giovane e promettente Lola Creton, classe 1993, già ammirata nel discreto Un amour de jeunesse di Mia Hansen-Love e nell'ottimo Après Mai di Assayas.
Il film tanto per cambiare non è per ora uscito nelle nostre sale, quasi certamente mai uscirà, ma è comunque reperibile in lingua originale con i sottotitoli in italiano.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Les Salauds
Regia: Claire Denis
Sceneggiatura: Claire Denis e Jean-Pol Fargeau
Fotografia: Agnès Godard
Montaggio: Annette Dutertre
Musiche: Stuart Staples e Tindersticks
Anno: 2013
Durata: 100'
Attori: Vincent Lindon, Chiara Mastroianni, Julie Bataille, Michel Subor, Lola Creton

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