Può capitare andando al cinema di cogliere al volo le chiacchiere mimate di spettatori all’uscita di una sala poco gremita su quanto curata e sublimemente pittorica fosse la fotografia del film. È un trucco molto usuale, ripiego sussiegoso di spettatori con poche carte da giocare al tavolo cruciale del dibattito cinefilo, refugium peccatorum che non costa fatica né toni troppo accesi. Perché magari non provare a imporsi, emergendo in assenza di grazia dal buio della sala, la necessità pratica di un silenzio (appena appena) riflessivo?
Questa breve tirata polemica ha la sua ragion d’essere quando tiriamo in ballo un’opera complessa e straniante come Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, gigantesca (ed effimera) metafora sull’“essere un essere umano” del regista svedese Roy Andersson. Di vocazione sperimentale è qui l’assenza di una costruzione programmatica: non esistono trama o vicende pregnanti, solo azioni e gesti sempre in totale o in campo medio.
La camera fissa e invisibile raccoglie in scene di durate frastagliate e in spazi non consequenziali la deriva silenziosa di un mondo abitato da spettri in attesa di vivere più che di morire. Un uomo tenta con fatica di stappare una bottiglia e un infarto lo accascia lentamente a terra. Un’anziana sul letto di morte afferra la borsetta dei suoi gioielli per portarla con sé nell’aldilà mentre i figli tentano grottescamente di dissuaderla. Su un traghetto un uomo muore: il guaio è che non ha ancora consumato la sua ordinazione al ristorante.
La morte, ghigna garbatamente Andersson, è solo il prologo, l’annuncio: le si passa attraverso per arrivare alla vita. Due commessi viaggiatori, venditori di umili scherzi di carnevale si aggirano tra un bar e il retro-bottega di un cliente, ripetendo azioni, lamenti, slogan scanditi senza entusiasmo (“Vogliamo solo aiutare la gente a divertirsi”), per finire sempre tra i grigi corridoi di una casa di riposo dove si abitano celle strette e spoglie e il guardiano invita perennemente al silenzio. In mezzo, nel tragitto non percorribile dei due vinti, il mondo prende forme scomposte: ha gli scatti languidi di una sala di flamenco, i silenzi ebeti tra i dialoghi, il suono del sacchetto ridente venduto dai due ambulanti, i lamenti di una madre in punto di morte o di una scimmia sacrificale sottoposta a elettroshock.
Quando il passato si presenta alla soglia ha il trottare dei cavalli dell’esercito di Carlo XII che irrompe in un bar, ordina un bicchiere d’acqua e arruola al fronte russo un giovanotto pieno di virtù; ha il canto nostalgico di una taverna dove durante la guerra Lotte la zoppa concedeva un bicchierino in cambio di un bacio appassionato. Ma quando si ritorna al presente gli abitanti del mondo, stanchi nei loro interni candidi, tramortiti forse dal sospetto di un eterno ritorno dell’uguale, non fanno altro che ripetersi al telefono: “Sono contento/a di sapere che state tutti bene”.
Come in Beckett, essi abitano il loro cono liminare tra luce e ombra, consumano una vita pericolosamente in bilico tra l’apparizione fugace e la scomparsa nel niente. Sono vivi, eppure sempre sul punto di dissolversi, sempre in procinto di morire e lasciare il mondo intatto come un involucro candido, lungo il quale qualcuno una volta è passato senza essere notato, come la madre che culla il bimbo nel parco deserto o l’uomo che crepa sul pavimento cerato mentre la moglie di spalle fissa il lavello del cucinino.
“Il presente era scomparso, non ci sarebbe più stato per me altro che un passato e un domani, un domani sentito già come un passato”, scriveva Eugène Ionesco nel Diario in frantumi. Come il drammaturgo romeno, Roy Andersson si sofferma sull’essenzialità umana, sui comportamenti meccanici e ripetitivi in cui gli uomini e il tempo sono avviluppati fino all’ineluttabile fine del presente. Persi i ruoli, le funzioni, il senso resta soltanto il profilo slavato di un essere umano, come gli ospiti invisibili de Les Chaises di Ionesco o i morti viventi di Andersson con i loro volti cosparsi di biacca.
Dalla teca museale nella quale sono esposti all’inizio del film, gli uccelli vigilano impotenti sul mondo senza la forza o la voglia di violentarlo e scombinarlo, come forse avrebbero fatto gli stormi neri di hitchcockiana memoria. Qui un piccione appollaiato sul ramo (cui una bambina accenna in una poesia durante una recita scolastica) riflette senza aspettative sull’esistenza al posto degli uomini, pavidi e fuori posto da sempre e in qualsiasi luogo. Come il segno nero sul ramo dipinto da Pieter Bruegel il vecchio in Cacciatori nella neve, cui il regista dice di essersi ispirato (!), l’uccello metaforico (Dio?) di Un piccione seduto… guarda nella valle sottostante e vede uomini indistinguibili in mezzo a un manto diffuso d’inverno.
Ejzenstejn commentò con queste parole la sua esperienza alle lezioni di Mejerchol’d: “L’io romantico ascolta incantato, l’io razionale borbotta sordamente”. La storia, l’arte si replicano all’infinito. Andersson è un affabulatore lucido e in superficie scorretto e guarda con piacere e compiacimento la sferzata grottesca inferta al mondo dei vivi e dei vinti. Così come di grande suggestione simbolica può sembrare la scena in cui un gruppo di schiavi neri viene spinto in un pentolone rotante che tramuta le loro urla di dolore in musica, per il diletto di una dozzina di borghesi in frac (ma è ben poca cosa, se si conosce Buñuel e i suoi grandi affronti alla borghesia ingorda e vuota).
Per gran parte del film poi si può restare sedotti da un modo di raccontare che fa strage dei coefficienti di coerenza, solidità, pathos, coinvolgimento convenzionali. Ma a una disamina più lucida, dopo essere emersi senza grazia dal buio della sala, dopo il silenzio riflessivo di rito, la gigantesca metafora non riesce a sedimentarsi e si dissolve pian piano nella mente, come tra gli interni candidi e il nulla si dissolvono le miserie di questi vivi “che non sono”.
Matteo Mele
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: En duva satt på en gren och funderade på tillvaron
Anno: 2014
Durata: 101’
Regia: Roy Andersson
Interpreti: Holger Andersson, Nils Westblom, Ola Stensson, Lotti Tornros
Sceneggiatura: Roy Andersson
Fotografia: Istvàn Borbàs, Gergely Pàlos
Montaggio: Alexandra Strauss