È un film di una scorrettezza incorreggibile, The Wolf of Wall Street: l’ultimo capolavoro di un Martin Scorsese che si specchia nello sguardo sul mondo a dir poco criminale del suo protagonista senza indulgere in moralismi, con generosità pornografica, facendo a pezzi ogni remora e qualsivoglia pudore a suon di terrificanti assurdità. Un’opera drogatissima ed esagitata come le mirabolanti imprese dei suoi anti-eroi, delle cui gesta estreme zio Marty intende riprodurre ritmi e devianze, poggiando su una visione schizofrenica, martellante, oltraggiosa oltre ogni lecito limite.
In questa consapevole gestione della dismisura sta tutto il genio di un regista che affronta la modernità e il contemporaneo di petto, usando il nostro passato recente come lente d’ingrandimento per risalire alle contraddizioni altrettanto mostruose dell’oggi, parto inevitabile di quegli scempi. Ed è per questo che The Wolf of Wall Street è un film in cui, all’onanismo di un vero e proprio “tsunami di follia”, come l’ha definito lo sceneggiatore Terence Winter, segue la vergogna, umiliante e distruttiva, di una testa che sanguina, di una famiglia vaporizzata, di un’esistenza in frantumi senza nemmeno essersene accorta. Non c’è e non ci potrebbe essere metafora più esemplificativa di questo titano della truffa ridicolo e immorale che sfascia un’automobile cubista e iper-accessoriata senza neanche rendersene conto, strafatto com’era di Quaalude scaduto (fuori moda oggi, ma non allora), ridottosi a mostro rantolante e bavoso. “Non voglio morire sobrio!”, gli urla contro Donnie durante un naufragio, altra sequenza d’antologia. Perché la sobrietà è noiosa, anonima, tragicamente incolore. Molto meglio il sonno della ragione, il circo subumano nel quale s’alternano, o meglio coesistono, yacht, donne da mozzare il fiato, scimmie, leoni, nani da mandare a bersaglio. Mancherebbero solo dei cavalli bardati da capo a piedi, per rendere Jordan un Caligola perfetto. Ma c’è comunque dell’altro. Tanto altro.
Dopotutto, The Wolf of Wall Street è prodigo di qualsiasi tipologia di esubero si possa immaginare: trattasi di un iper-testo di dimensioni colossali che il regista ha praticamente rigurgitato tutto d’un colpo e che noi guardiamo con la stessa fluidità, espirando solo alla fine. Dopo 180 minuti di apnea appagante, divertente come poche altre cose, zeppa di momenti che sono già cult e da mandare a memoria, ma anche mortificante. D’altronde, questa montagna russa di lussuria non è, banalmente, solo una storia di ascesa e di caduta. È un film sul baccanale sensistico generato e messo in moto dall’amore ancestrale e quasi neonatale per l’eccesso, per il lusso celebrato con infantilismo decerebrato, giustificandolo quasi come una predisposizione genetica. È il carme in morte di un’abilità sconfinata che, per generare profitto, godere della propria smisuratezza e continuare a esistere, cede con nonchalance al barocco più sfrenato e demenziale.
Non c’è però redenzione, nel sacrilego The Wolf of Wall Street. Stavolta non siamo davanti a una sceneggiatura del calvinista Paul Schrader, d’altronde, e il meccanismo viene sparigliato: tutto è diventato vitalismo senza rimorso e senza ritorno, con l’acceleratore premuto a mille senza paura di schiantarsi, di impattare contro la grande muraglia della realtà. Siamo a cavallo tra gli anni ’80 del reaganismo immemore e i ’90 permeati dalla convinzione di essere giunti alla fine del tempo e della storia, in prossimità di un imminente Millennium Bug non (più) scongiurabile. Tanto vale accumulare, stipare, vivere. In questa cavalcata la perversione non ha “fervore religioso”, espressione che pure ha usato Roger Moore sull’Arizona Daily Star, ma vive di insipienza, di fuga interlocutoria e non definita dalle responsabilità.
Scorsese, nel suo apologo amorale, ci crede pienamente, e vi si abbandona, anima e corpo, con tutti fucili e i cannoni spianati. Ci sarebbero lacrime da versare sul sogno americano e sulla land of opportunity, ma per quelle ci sarà tempo alla fine. Per il momento (un attimo prolungato all’inverosimile) c’è da consumare un’immersione totale in immagini bulimiche e tentacolari in cui l’invenzione diventa bassezza putrida, aggressione allo spettatore, giostra ansimante e boccheggiante.
Spinto dall’ossessione rinnovata di raccontare il proprio paese attraverso il gigantismo proteiforme, Scorsese aggiorna Casinò mostrandoci gli effetti delle colpe nascoste sotto il tappeto. Affermando, con smagliante crudeltà travestita da dark comedy da godere a crepapelle, che è già troppo tardi. È già tutto diventato un cartoon. Tutto parossismo, fumettistico e irreale. Ecco che allora Jordan (un Leonardo Di Caprio luciferino e sornione da applausi a scena aperta), nell’incredibile scena del “fucking phone” con Donnie (un sorprendente e sempre più bravo Jonah Hill), si gasa e riprende conoscenza davanti a un episodio di Braccio di Ferro; solo che lui a stimolarlo ha di norma ben altro rispetto agli spinaci, come recita in apertura in uno dei suoi tanti monologhi scandalosi. Una scena, quella del telefono, che è simbolo esemplare di personaggi che percepiscono il senso delle loro azioni da una prospettiva così bidimensionale da non porsi mai il problema della loro depravazione e delle puntuali conseguenze che dovranno prima o poi sopraggiungere. Come se l’idillio non potesse mai essere intaccato.
The Wolf of Wall Street, sotto la parvenza della baracconata colossale, si rivela di scena in scena una danza triviale e pagana in cui l’opulenza ha già profanato tutto ciò che poteva essere profanato e non resta che sniffarne, tra le tante altre cose, anche le ceneri. Si ritorna alla giungla, pronti ancora una volta a essere infinocchiati candidamente da un genio subdolo e fascinoso (l’inquadratura finale è da brividi). Sui titoli di coda, può ripartire allora il folgorante Mark Hanna di Matthew McConaughey col suo “Hum Hum Hum”. Battersi il pugno sul petto, in fondo, non equivale più a contrarsi in segno di pentimento producendo un atto di dolore, come nelle domeniche in chiesa. Adesso certifica solo un avvenuto patto col diavolo. Sono i lunedì (neri) della borsa, da trascorrere rigorosamente all’inferno.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Terence Winter, basata sul libro Il lupo di Wall Street di Jordan Belfort
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musica: Howard Shore
Durata: 180 min
Anno: 2013
Uscita in Italia: 23 gennaio 2014
Attori: Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin