Kung-fu, quindi, per ritornare in patria affrontando il genere cinese tradizionale per antonomasia: il film di arti marziali, il wuxiapian. E Wong lo fa raccontando la vita di uno dei personaggi più celebri del suo tempo, il maestro Yip Man, vera e propria istituzione nell’insegnamento del Wing Chun, nonché primo insegnante a tramandare liberamente questa disciplina (tra i suoi allievi, come noto, ci fu anche il giovanissimo Bruce Lee). Lontano da quella rivisitazione puramente estetica del genere messa in atto da Zhang Yimou con Hero e La foresta dei pugnali volanti, e proseguendo invece nel personalissimo percorso di mappatura dell’Uomo e dell’impossibilità dei sentimenti, qui smarriti e dilatati nel gigantismo della Storia in maniera non meno struggente che nel melò In the Mood for Love.
L’orizzontale e il verticale. È attraverso queste coordinate che Wong dipana lo svolgimento del suo film, trasfigurando il concetto stesso di kung-fu in motore narrativo in grado di attraversare le epoche e i decenni, gli uomini e le gesta, la vita e la morte. Spostamenti geografici e fisici (dalle province del Nord a quelle del Sud), combattimenti in verticale, movimenti in orizzontale, attraversati da oggetti (il treno) e gocce di pioggia, come a costituire un grande e invisibile reticolo per tentare di raccontare, imbrigliare, cristallizzare quello che invece non si può arrestare: il Tempo, la Vita, la Storia.
The Grandmaster è un film che corre, instancabilmente: dopo un preludio di quiete e tranquillità (ciò che Yip definisce appunto la primavera della vita), le vicende raccontate crescono a dismisura, e con loro i protagonisti, nel tentativo di venire a patti con l’incedere frenetico degli eventi. Un cinema in costante fibrillazione, nel quale si fa sempre più difficile orientarsi all’interno di uno svolgimento che è costantemente un passo avanti a noi, perché la vita fugge, e le immagini sembrano quasi non riuscire a stargli dietro. È facile perdersi, e ancor più facile è rifiutare questo smarrimento: bisogna invece accettarlo fino in fondo, abbracciarlo e utilizzarlo per cercare di comprendere quanto grande sia il disegno generale che porta con sé.
Ecco, The Grandmaster è un cinema che pensa in grande, orgogliosamente. Ancora. In termini di set, di spazi, di tempi. Un film nel quale la Storia procede la sua avanzata a passi di gigante, fagocitando uomini e donne, numeri e date, cose ed eventi; come nel capolavoro Everlasting Regret di Stanley Kwan, dei corpi rimane soltanto una didascalia ad illustrarne il destino, perché tutto corre, e non si fa in tempo a memorizzare un ricordo che esso è già svanito nelle ceneri del tempo. Ashes of Time, appunto. The Grandmaster è grande perché anche la vita lo è, ma mai quanto vorremmo: è grande perché ha il coraggio delle lacrime e dei sentimenti, e perché guarda esplicitamente a quel cinema che nessuno ha più il coraggio di fare. E poco importa se alcuni storceranno il naso davanti alle citazioni esplicite di C’era una volta in America nell’ultima mezzora, con tanto di riproposizione del Deborah’s Theme di Ennio Morricone; poco importa anche se molti punteranno il dito contro l’incompiutezza dell’operazione, palesemente vittima di un montaggio giocoforza castrante nei confronti del girato originario: il film di Wong sopravvive anche a questo, riuscendo a palesare un’enormità di sguardo che non si lascia sopraffare da alcun taglio o riduzione, tanta è la sua imponenza.
In questo cinemascope infinito in cui è possibile distinguere e contare ogni singola goccia di pioggia che cade, l’unica possibilità che l’Uomo ha di sopravvivere al Tempo è accettandone la circolarità: per un maestro che rifiuta di tramandare la propria arte, ce n’è un altro che al contrario accetta di farlo. Le arti marziali possono essere alte, ma mai quanto il cielo. L’orizzontale e il verticale, le dimensioni della Storia. Il corpo e il combattimento come scrittura nel tessuto del Tempo, e l’Uomo come inchiostro destinato inesorabilmente a scomparire.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Yut doi jung si
Anno: 2013
Regia: Wong Kar-wai
Sceneggiatura: Wong Kar-wai, Zou Jingzhi, Xu Haofeng
Fotografia: Philippe Le Sourd
Musiche: Nathaniel Méchaly, Shigeru Umebayashi
Durata: 133’
Interpreti principali: Tony Leung, Zhang Ziyi, Cung Le, Chang Chen, Julian Cheung, Zhao Benshan