
La Cineteca di Bologna, che su Chaplin è alle prese con un lavoro di recupero di portata decennale, ha restaurato il capolavoro del 1936 che torna in sala a partire dall’8 Dicembre, impreziosito da una nuova partitura musicale realizzata da Chaplin stesso. Un vero evento, visto che fino a questo momento la famiglia non aveva dato il via libera per la sovrapposizione di tale incisione sul vecchio tema. Al di là di tale nuova veste sonora, però, i motivi per andare a vedere in sala Tempi moderni sono innumerevoli, e non solo per i cinefili di bocca buona che torneranno a deliziarsi con una pietra miliare della settima arte di tutti i tempi.
Quello di Chaplin è infatti un film che parla proprio di tempo e di modernità come meglio non si potrebbe: due concetti universali e validi per tutte le epoche in quanto inarrestabili nel loro flusso continuo, che sono plasticamente presenti nel titolo e che l’opera affronta direttamente e da svariate prospettive. Perché sono due idee assolutamente limitrofe, lo scorrere del tempo – e la sua diversa percezione nel presente rispetto al passato – e l’approssimarsi della modernità così come siamo abituati a conoscerla e a pensarla. Un mondo che scopre una nuova idea di tempo è un mondo che corre più avanti rispetto alla sua attuale condizione, che svela un volto inedito di se stesso. E quale mezzo meglio del cinema, col suo dinamismo sempre allerta, per immortalare tale passaggio?
È il tempo, in particolare, a reclamare un suo statuto e una sua centralità, ed è il nodo cui tutto viene ricondotto. La celebre gag della fabbrica non esisterebbe senza un lavoro consapevole sull’accelerazione delle immagini, che costringe tanto l’operaio alla subalternità totale rispetto alla macchina e agli obblighi d’efficienza che essa impone quanto il cinema ad adeguarsi agli sviluppi della realtà. Ma anche il nuovo, avveniristico aggeggio con cui il padrone nutre freneticamente Charlot, congegnato per non interrompere il flusso di lavoro neanche durante la pausa pranzo, va in questa direzione. La velocità è adesso uno strumento di controllo, un terreno su cui esercitare una dittatura del capitale fino a questo momento inattuabile, per lo meno non in questi termini, che permea la volontà dei sottoposti oltre ogni limite: Charlot, finito dentro gli ingranaggi della macchina, continua ad avvitare, e anche se pare risucchiato dentro un fiabesco carillon la realtà dei fatti è un’altra, ben più fosca. Mentre il cibo, dal canto suo, è sempre stato per Chaplin un territorio comico oltre che un elemento semplice ed efficace per parlare di umanità e condizione sociale (si pensi a La febbre dell’oro).
Tempi moderni, come si diceva, è nondimeno un film che parla pure di modernità (sarà una tautologia, ma è bene ribadirlo), e lo fa (anche) perché sa di cogliere alcuni passaggi fondamentali per la storia del cinema, ai quali non può dunque sottrarsi in alcun modo. Il sonoro era già stato sdoganato (Il cantante del jazz, 1927), ma Chaplin appartiene a un’altra epoca, per cui si limita a sonorizzare il suo film e a parlare in una singola occasione e con un goffo grammelot linguistico. Il futuro passa anche da qui, da questi snodi all’apparenza irrilevanti ma che invece sono indispensabili, perché catturano transazioni storiche nel loro divenire, ce le fanno scorgere non mostrandocene il punto d’arrivo ma rivelandocele direttamente mentre avvengono, in uno stato di sospesa problematicità.
Dopo Tempi moderni, a proposti di passaggi di consegne, Chaplin dirà addio al suo Charlot, aprendosi al futuro, guardando a un domani che va al di là della propaganda filocomunista che all’epoca il regista veniva accusato di veicolare col suo film, soprattutto nella Germania nazista, e che si rivolge piuttosto all’avvenire dell’umanità tutta (analogamente alla conclusione de Il grande dittatore, di quattro anni successivo, e al suo filantropismo senza frontiere). Il finale di Tempi moderni, parlando di addii, è emblematico, lucido, perfetto: il Vagabondo deve salutare per sempre gli spettatori, perché con la fine del muto per lui non c’è più posto. S’incammina allora verso l’orizzonte mano nella mano con la Monella sua amata, illuminando il mondo di un ottimismo che si irradia come un sole abbagliante, nonostante tutto. Nel suo incantevole splendore poetico, un pezzo di storia del cinema che non può non apparirci il testamento ante litteram di un genio.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Anno: 1936
Regia: Charlie Chaplin
Sceneggiatura: Charlie Chaplin
Attori: Emma Stone, Colin Firth, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater, Jacki Weaver, Eileen Atkins
Fotografia: Roland Totheroh, Ira Morgan
Montaggio: Charlie Chaplin
Durata: 87’
Uscita italiana: 08 dicembre 2014
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