Lo script di Selma era in origine destinato a Lee Daniels (Precious), che voleva farne un film incentrato sul rapporto tra l’allora Presidente Lyndon Johnson e Martin Luther King, in quanto più interessato a definire il coinvolgimento del primo fino all’approvazione della legge sui diritti civili. Quando la produzione nelle mani di Daniels fu annullata, la sfida fu raccolta da Ava DuVernay (Middle of Nowhere), che ha poi fatto di Selma la storia di Martin Luther King nei mesi antecedenti la storica marcia segnata dal discorso I have a dream.
La sceneggiatura, dunque, segue i momenti salienti di quelle complesse settimane con taglio cronachistico. A favore di Selma si impongono il senso della collettività e la capacità della DuVernay di catturare ragioni e sentimenti raccolti attorno alla figura di Martin Luther King (David Oyelowo), leader di un movimento composito con tante facce che avrebbero meritato di essere più valorizzate. Manca ancora un affresco corale e definitivo del movimento per i diritti civili e questa poteva essere l’occasione giusta, perché ciò che funziona meglio nel film sono proprio le scene di massa, il dietro le quinte del movimento, la determinazione che unì tante anime in un unico corteo per la libertà.
Tuttavia è King il nodo della vicenda. Sono il suo spirito e le sue azioni a trascinare il film da una scena all’altra, facendone anche l’anello narrativo, la congiunzione tra le diverse fasi del racconto.
In questa stesura di Selma, l’aspetto più controverso diventa l’interpretazione del ruolo svolto da Lyndon Johnson (Tom Wilkinson) proprio nella cornice storica di cui il film si ammanta fin dall’inizio. Si può sorvolare sulla macchiettistica rappresentazione di George Wallace (Tim Roth) o su quella inconsistente di J. Edgar Hoover (Dylan Baker, bravissimo attore, ma somiglia così poco a Hoover che occorre la didascalia esplicativa). Lyndon Johnson è stato sicuramente una figura non lineare e ombrosa, incapace di gestire il proprio mandato dopo l’assassinio di John Kennedy, con una quantomeno discutibile amministrazione della guerra in Vietnam (il suo più grande fallimento come Presidente). Non si può tuttavia negare che fu lui a siglare il Voting Rights Act, ed è un po’ scorretto insinuare che addirittura abbia minacciato King per impedirgli di proseguire con la sua campagna.
Questa è solo una delle tante imprecisioni (volute) di Selma. Non si può lanciare lo slogan che “this is not just a movie” e poi, di fronte alle polemiche, alzare le mani dicendo che “questo è solo un film”. Perché se è vero che si tratta di un film e non di un manuale di storia, è anche vero che una pellicola così ambiziosa ha anche la responsabilità di rispettare i fatti. L’ambiguità di fondo risiede nel proporre Selma come un pezzo di storia, con tanto di date e fatti illustrati allo spettatore, quando di base si tratta di un lavoro di fiction che, con una certa tendenziosità, taglia e adatta situazioni e personaggi per dimostrare la propria tesi.
Nel mondo politicamente corretto di Hollywood, proteso nella sua massima espressione – gli Oscar – ad autoincensarsi, non si può affermare che Selma sia un film solo parzialmente riuscito, quindi non meritevole della candidatura, pena l’essere tacciati di razzismo e diventare vittime di hashtag come #oscarssowhite.
Negare la mancata rappresentazione delle minoranze nel cinema sarebbe sciocco, ed è sotto gli occhi di tutti, ma questo è un problema antico. Pur in tutte le sue contraddizioni, l’Academy ha sempre inteso riflettere la società americana: ha fatto di Sidney Poitier l’icona culturale della politica kennediana, premiato un’attrice asiatica (Miyoshi Umeki, Sayonara) negli anni della guerra in Corea, attribuito un Oscar a un reduce di guerra (Harold Russell, I migliori anni della nostra vita) e uno a un sopravvissuto della Cambogia degli Khmer rossi (Haing S. Ngor, Urla del silenzio). E così via. E se è pur vero che c’è stato un buco lungo decenni nell’affermazione di tanti bravissimi attori afroamericani, è altrettanto vero che l’Academy ha da tempo dimostrato un cambio di rotta. Allora, più che la questione razziale, a monte c’è un altro problema che riguarda l’industria: pochi ruoli per le attrici, pochi spazi per le registe, minoranze a volte isolate in stereotipi. È vero, ma questo, appunto, vale per tutte le categorie.
Nella società americana di cui Obama è il Presidente e Oprah Winfrey è la voce post-moderna del messia nazional-popolare, forse il vero problema di Selma non è la mancata candidatura per la regia o per l’attore, quanto – più banalmente - il fatto che il film non sia tale da meritare la nomination. In termini strettamente cinematografici, è tutto qui. Ava Duvernay non ha fatto meglio di Fincher, Nolan o Eastwood, tutti esclusi dalla cinquina, e di strada forse deve farne più di autrici come Jane Campion, Claire Denis, Julie Taymor, ma anche della pioniera Ida Lupino.
Anche la pregevole interpretazione di David Oyelowo, che pure offre una rilettura interessante e umana di Martin Luther King (resta inarrivabile la performance di Paul Weinfield, che lo interpretò nel 1978), è un po’ accademica e non esce dalla cornice di grandiosità costruita dalla regista attorno a se stessa e alla propria opera. L’impressione che si ha, nell’insieme, è che questa presunta maestosità non sia altro che apparenza, e che il narcisismo del cast, rapito da una sorta di sacro furore, abbia preso il sopravvento.
Alla fine Selma è un film che cade sotto la sua stessa ambizione, sotto la prosopopea della sua regista. Ha la pesantezza di un elefante e si regge sulle zampe di una formica. La sceneggiatura risente indubbiamente della impossibilità di utilizzare i discorsi originali di King, i cui diritti sono degli eredi e che li hanno ceduti alla Dreamworks. Ma è proprio la costruzione in sé a essere fragile. Selma non ha la forza espressiva di Malcom X, non ha la vis polemica di JFK, e non ha l’estetica di Lincoln. Non gioca nemmeno sul senso di colpa, come ha abilmente fatto Steve McQueen in 12 anni schiavo.
È tutto ridotto a noi vs. loro, neri vs. bianchi, buoni vs. cattivi. Ava Duvarney non voleva realizzare un altro “white-savior movie”, dice a «Rolling Stone», ma quello che proprio non riesce a fare è astrarre la propria rabbia personale dal racconto, mutare se stessa da attivista a regista della storia. Questo, almeno per chi scrive, è un difetto grave, ed è ciò che fa di Selma un film non brutto ma inconcluso, in cui l’ideologia da film militante pregiudica anche i (molti) pregi. Glory, la canzone di Common e John Legend, è il vero manifesto e riflesso dell’opera: un po’ retorica di strada a ritmo di rap, un po’ inno alla resistenza, di un tono tutt’altro che pacificatore. L’esatto contrario di quello che suggerirebbe qualsiasi movimento per la pace.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Ava DuVernay
Attori: David Oyelowo, Tom Wilkinson, Oprah Winfrey, Carmen Ejogo, Alessandro Nivola, Tim Roth, Giovanni Ribisi
Sceneggiatura: Paul Webb, Ava DuVernay
Musiche: Jason Moran
Fotografia: Bradford Young
Durata: 122'
Anno: 2014
Uscita italiana: 12 febbraio 2015