Un corpo desiderante che si mostra in tutto il suo essere, attraverso una lirica alta e una narrazione libera. Un fluire anarchico e liquido di materia in cui l’estetica delle immagini impreziosisce lo scorrere di una nebulosa filmica.
“Non abbiamo neppure idea di quel che può un corpo nel suo sonno, nella sua ebbrezza, nei suoi sforzi e nelle sue resistenze. Pensare è apprendere quel che può un corpo non-pensante, le sue facoltà, i suoi atteggiamenti o posture” (Gilles Deleuze, L’immagine-tempo). Ma quello bellocchiano è un corpo pensante, in cui il pensiero politico e l’estetica convivono, in cui le immagini offrono allo sguardo incanti animati da fantasmi di cui si percepisce la presenza lungo tutto l’evolversi dell’iter filmico. Le presenze fantasmiche aleggiano sin dalla prima scena: un portone si apre in un antro oscuro, il buio avvolge gli ambienti feriti da lampi e da squarci di luce, come lame esse si insinuano sottili sui volti e lacerano le tenebre del carcere/prigione/convento di Bobbio.
Federico Mai (Pier Giorgio Bellocchio), una presenza osservante, mai attiva o quasi, un fantasma alla ricerca di un altro fantasma, giunto a Bobbio per indagare sulla morte di Fabrizio, il suo gemello sacerdote, assiste, quasi con indolenza, alle prove a cui viene sottoposta Benedetta (Lidiya Liberman), la monaca accusata di aver indotto al suicidio il prelato sotto l’influsso di una possessione demoniaca.
La distaccata indifferenza del giovane e l’ostinazione con cui la Chiesa perpetra i suoi misfatti, accecata dalla bramosia di potere e dall’oscurantismo delle menti bigotte, esprimono la critica politica mossa dal regista alla costante egemonia ecclesiastica, giunta fino a noi, appoggiata anche dal beneplacito dello Stato e di alcuni partiti politici. Federico, nel voler riscattare la memoria del fratello, si muta in statua granitica, una fortezza inespugnabile; nonostante avverta una forte attrazione nei confronti di Benedetta, rimane inscalfibile davanti al processo subito dalla ragazza; non trapelano sentimenti dalla sua corazza di uomo d’armi. Un osservatore, privo di tenerezza e di pietà, apatico, indifferente e distante dal compiersi dello scempio, così come freddo, cinico, incurante e approfittatore è l’homo italicus, figura fantasmica a sua volta, davanti allo strapotere di certa politica e della Chiesa.
La scelta di narrazione anarcoide di Sangue del mio sangue conferisce a quest’opera una libertà visionaria e surreale. I salti temporali che dividono il film in periodi storici differenti conducono lo sguardo prima nel seicento italiano, oscuro, come è oscuro l’antro del convento/carcere, manipolato dalle mani forti del potere clericale, inquisitorio e ipocrita, che preferisce l’immuratio alla verità, l’occultare e il nascondere. Quel portone tornerà ad aprirsi, nel successivo capitolo, nell’epoca moderna, sempre in un antro buio, ma più fatiscente, in cui nulla è cambiato; quel luogo di reclusione nasconde nuovi fantasmi, nuovi segreti, forse poi non così nuovi; in quell’oscurità si nasconde ancora il potere elitario di Bobbio, piccolo/grande mondo.
Nell’oscurità i fantasmi si mutano in creature vampiresche, come il conte Basta (Roberto Herlitzka): una figura deragliata, un corpo deformato dalla bramosia del potere che si aggira di notte, tra le tenebre. Un Innocenzo X, trasfigurato nella sua materializzazione baconiana; un urlo muto nella sua gabbia dorata, assiso prima nel conclave del processo, poi a capo della piccola oligarchia del paese.
Corpi che scivolano da un’epoca all’altra, simili e distanti; memorie di un passato immutabile; lo specchio convesso del presente. Torna anche Federico Mai, nelle vesti di un cialtronesco individuo pronto a frodare il paese e il prossimo, curando soltanto i propri interessi, così come l’uomo d’armi del passato. Nulla cambia, tutto scorre, ma tutto si mantiene immutato nella ferocia umana.
La dialettica cinematografica di Bellocchio è in continua evoluzione, alla ricerca di un linguaggio diverso, libero e anarchico. La matrice del suo ultimo lavoro è un’estetica curatissima, al punto da sfiorare in alcune sequenze una messa in scena da tableau vivant, in continuo dialogo con la denuncia del potere corrotto. Una sontuosa fotografia, curata da Daniele Ciprì, sublima lo sguardo con neri squarciati da ferite di luce che lacerano le immagini, a tratti caravaggesche negli allestimenti scenici, a tratti impreziosite da caldi volti vermeeriani, come quelli delle due sorelle Perletti, illuminate nella notte dal barlume di una candela che arde, come è ardente il loro desiderio sessuale.
Il contrasto visivo tra le due epoche è evidenziato esteticamente dal rigore di una scelta cromatica più cupa, quasi gotica, dell’Inquisizione del seicento; i colori si fanno più caldi e vivi nella contemporaneità, dove i toni si alleggeriscono lasciando spazio a una leggerezza ironica e surreale. Il regista sceglie di coinvolgere un cast “familiare”, rendendo l’opera più personale e intima, si circonda degli amici più cari, il figlio Pier Giorgio Bellocchio, ma anche Filippo Timi, nei panni del folle, e Roberto Herlitzka. Bellocchio porta in scena un momento tragico della sua esistenza, forse per esorcizzare il dolore, o semplicemente per confrontarsi con se stesso e con quei fantasmi così materici e presenti lungo lo scorrere del film. In Sangue del mio sangue, la narrazione si intreccia con la vita, quella del suo autore: il suicidio, la morte di un fratello, la perdita di una parte di sé, un dolore denso, stratificato, inspiegabile, perché nulla sarà come prima; la rinuncia alla vita, raccontata con delicatezza e con poesia.
Una mise en scène visionaria saldamente legata a un logos che parla direttamente all’anima, una contorsione dei sensi che graffia il cuore, con dolore. È un’opera femminea, ardente e magmatica, come era stata La visione del sabba. Corpi fantastici e corpi materici, che si sfiorano, si accarezzano e poi svaniscono, perché “tutti i corpi sono cause gli uni per gli altri, gli uni rispetto agli altri, ma di che cosa? Essi sono cause di certe cose, cose di ben altra natura. Questi effetti non sono corpi ma, propriamente, degli “incorporei” (Gilles Deleuze, Logica del senso).
Mariangela Sansone
Sezioni di riferimento: Film al cinema, Venezia 72
Scheda tecnica
Titolo originale: Sangue del mio sangue
Anno: 2015
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio
Musiche: Carlo Crivelli
Durata: 106'
Attori: Roberto Herlitzka, Lidiya Liberman, Pier Giorgio Bellocchio, Filippo Timi
Fotografia: Daniele Ciprì
Uscita al cinema: 9 settembre 2015