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RUSH - I cavalieri della morte

25/9/2013

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Di nuovo la gloriosa e solida penna di Peter Morgan, ancora la dicotomia tra due personaggi dalla rivalità magnetica: Ron Howard ci riprende per mano da dove ci aveva (davvero) lasciati, a quel Frost/Nixon – Il duello che del cinema del regista americano era il miglior biglietto da visita immaginabile, compendio perfetto di scrittura cristallina e concretezza psicologica. Rush è allora un grande ritorno proprio nella dimensione in cui recupera quasi integralmente tali pregi applicandoli al racconto romanzato del rapporto controverso e spigoloso tra due dei più indimenticabili piloti di Formula 1 di tutti i tempi: Niki Lauda e James Hunt, uguali e diversi come tutti i nemici più acerrimi, metodico e sgradevole il primo, sregolato, guascone, playboy e piacente l’altro.
L’austriaco impersonato da un sorprendente Daniel Brühl e l’inglese sono due cavalieri della morte abituati a convivere col rischio capitale e inorgogliti da questa condizione transitoria, che si fa rabbia interiorizzata nel caso di Lauda e istinto a vomitare platealmente prima delle gare per Hunt. Pur nelle differenze abissali che li contraddistinguono, Rush sta addosso alla fisicità dei suoi protagonisti con una messa in scena frenetica e adrenalinica che riduce al minimo sindacale la ricostruzione dei Gran Premi e degli abitacoli delle monoposto per aprirsi all’indagine dei caratteri, delle dinamiche emotive, delle vite che sfrecciano via su circuiti diametralmente opposti e che pure hanno per carburante la stessa divorante ubris. Non solo un motore agonistico, ma soprattutto una ragione di vita, un motivazione ideologica tignosa che si fa visione del mondo estrema e contrastata, priva di concessioni ed equilibri.
La fame dei due campioni è la stessa della regia ben ritmata e vigorosa di Howard, che ricerca lo slancio scopico dell’occhio che si dilata sotto il casco, la forza solitaria e respingente di un Lauda abituatosi a convivere con l’ustione di una mostruosità che si fa specchio di un'intera galassia interiore invasa da ragnatele, astio, ambizione cieca e quasi anaffettiva (il rapporto con la moglie Marlene è tratteggiato con grande tatto, in compenso).
Certo, non manca neanche quel briciolo di retorica un po’ preconfezionata in fondo congenita e magari perdonabile al genere, con le frasi a effetto e le scorciatoie di sicuro impatto che sopraggiungono puntuali. Un margine di prevedibilità perfino inevitabile per un film sportivo trattato con questa passione da Howard, cineasta magari non raffinatissimo ma che ben conosce le potenzialità degli attrezzi migliori della sua cassetta. Il regista di A beautiful mind lavora sulla concretezza della metafora, allontanandosi in modo di sicuro salutare da una tematizzazione troppo problematica (il divario tra una Formula Uno in cui il pilota si autofinanzia a quella subito successiva in cui egli ha disperatamente bisogno di sponsor è solo accennato, per esempio).
Ne deriva un film d’ottima fattura che è il degno parto della mente pragmatica e integralmente visual dell’ultimo grande cineasta classico americano. Classico nella misura in cui riesce in modo organico e naturale ad ammantare l’intera materia dei suoi racconti di una dimensione mitica che emana un respiro arioso, di una sovrabbondanza enfatica che sa di consapevole e coerente manipolazione dell’immaginario. Molto più che un bottegaio di fiducia degli studios capace di esaudire i desideri dei produttori senza frapporvi nessun vezzo autoriale stantio, così bravo a lavorare sugli archetipi (termine da intendere qui in senso classico, fordiano per l’appunto) da prendere in mano un argomento del quale fino a prima di girare non poteva considerarsi un esperto e cavarne fuori un film efficace e appassionato ancor prima che appassionante. Perfino coreografato con colori un po’ svuotati per simulare un effetto retrò e nostalgico anni ’70, un impianto estetico da far poi esplodere premendo sull’acceleratore di un montaggio modernista e da visibilio. Antico e moderno, tra la luce pastosa e ambrata della fotografia e una velocità quasi videoludica, con i due aspetti che spesso e volentieri si ritrovano a coabitare nella stessa inquadratura.
Ron Howard, quando è in forma (e in questo caso pare proprio di sì) riesce insomma ad amalgamare come nessun altro i contrasti diluendoli in un’affascinante polifonia, la stessa di una versione originale che fa leva su più lingue e risulta pertanto imprescindibile per godere appieno dell’interpretazione ispirata di tutti gli attori (lo stesso Favino, che è un ottimo Clay Regazzoni, ridoppiato in italiano da se stesso è a dir poco inascoltabile). 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema  


Scheda tecnica

Anno: 2013
Durata: 123 min
Regia: Ron Howard
Sceneggiatura: Peter Morgan
Fotografia: Anthony Dod Mantle 
Montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley
Musiche: Hans Zimmer
Scenografia: Mark Digby 
Attori: Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino
Uscita italiana: 19 settembre 2013

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