Nel frattempo però, la curiosità inevitabile ma soprattutto un crescente e indomabile senso di colpa si è impossessato di Philomena, che adesso non può più aspettare e vuole tentare a tutti i costi il sospirato ricongiungimento. Sarà grazie al sostegno di Martin, un giornalista d’area laburista, che Philomena si persuaderà di poter ritrovare il figlio che la vita le ha sottratto.
Philomena è un film per molti aspetti impeccabile: un’opera di una pulizia assoluta, scritta col contagiri, calibrata e ispirata da un’encomiabile compostezza in ogni sua componente. È il film più classico e formalmente rassicurante che Frears abbia mai fatto, e la cosa sorprende fino a un certo punto chi conosce davvero il regista di Rischiose abitudini: nonostante l’anima punk di gioventù, Frears non ha mai lesinato mosse più prevedibili, in cui il suo frizzante libertinismo emergesse solo di rimando o non venisse fuori affatto. Si pensi al recente Chéri o all’acclamato The Queen, forse l’esempio massimo di questa tendenza prima di Philomena.
A dispetto di un film come Tamara Drewe, smutandato e sfrontato fin che si vuole nelle sue unghiate irriverenti a un sistema di valori borghese, quando si parla di Frears tradizionalismo non deve sempre essere una parolaccia né una categoria fuori posto, da aborrire o tantomeno per cui stranirsi. Dopotutto parliamo di un britannico e si sa, nel Regno Unito i punk sono sempre stati ad alto tasso di “conversione”, spesso pronti a edulcorarsi in forme generaliste di anarchia (senza necessariamente dover citare l’esempio anti-utopico di un cineasta a detta di chi scrive deteriore come Danny Boyle).
Il film con Judi Dench e Steve Coogan si inserisce allora nel filone più catchy e meno acido della filmografia di Frears; è un lavoro in larga parte amabile, che lì per lì può anche irritare qualcuno per la sapienza un po’ troppo smaliziata con cui assesta il classico colpo al cerchio e alla botte ma che sulla lunga distanza non manca di sedimentarsi nella memoria e di suscitare un tutt’altro che spiacevole effetto di rassicurante serenità. È vero, è un film per educande, per signore, per spettatrici occasionali della domenica pomeriggio: in nome di un cinema il più possibile confortevole silenzia ogni eccesso e si affida a un’attrice portentosa e a una brillante spalla che regge a meraviglia ogni duetto con risultati tra l’amaro e il gioviale, facendo sospirare nostalgicamente nel nome della commedia, pudica e ripulita, di una volta. Non dimentica nemmeno di smussare gli angoli controversi che da questa storia potrebbero inavvertitamente venir fuori: la brutale vena coercitiva delle istituzioni irlandesi di quegli anni per esempio non emerge mai e non avrebbe neanche ragione di farlo, in un film così.
La regia di Frears si limita a ondeggiare con grazia olimpica attraverso un flusso narrativo che si lascia puntellare senza esitazione da momenti brillanti come da autentici mini-sketch (se si pensa alla sequenza aeroportuale) e Philomena sembra così guardare al mondo con gli stessi occhi della sua protagonista, lineari, semplici e diretti quanto più possibile. Rispetto a essi compie però anche un considerevole scarto in avanti, tutt’altro che banale: fa emergere il lato negativo e controproducente della candida ignoranza e della superficialità malsana di una donna che a forza di essere leggerina si è vista passare gran parte della propria vita davanti, come se nulla fosse meritevole d’attenzione e tutto potesse limitarsi a un sovrapporsi di coincidenze che possono funzionare o meno (chi lo sa, chi può saperlo) o al bozzettismo rosa di qualche sciocco romanzo d’amore, dei quali Philomena è un’avida lettrice. Pur nella sua mielosità apparentemente senza conseguenze, Frears qualche asso dalla manica in fin dei conti lo trova comunque, ma il suo vero obiettivo resta bagnare il viso dello spettatore senza per questo indurlo alla commozione attraverso enfatiche e grossolane scorciatoie.
L’unico terreno sul quale il film rischia in parte di inciampare è quello della dicotomia cattolici-protestanti, forse l’unico mezzo passo falso di una sceneggiatura equilibrata e apprezzabile: certe battute ammiccano tanto da una parte tanto dall’altra con l’intento di strappare applausi da ambedue i lati (come quelli fragorosi che vi furono a Venezia sul “fottuti cattolici!”) e il risultato ne risente in modo non indifferente. Ancora una volta, la si può leggere come l’ennesima demistificazione a tutto campo dell’anarchico Frears, che si serve di un personaggio così naif per mettere alla berlina gli uni e gli altri senza risparmiare nessuna delle due parti. L’esito reale però in questo caso pare solo furbamente oscillatorio, giustificando quanto si diceva all’inizio sulla calcolata piaggeria di cui Philomena a tratti sembra macchiarsi.
È l’unico peccato sottolineabile, e comunque venale, di un film che del suo convenzionalismo si bea senza essere fastidiosamente stereotipico, con due personaggi scritti alla perfezione e una semplicità mai becera. Verrebbe da pensare che un film per tutti e apprezzabile da chicchessia di questa fattura non sia, specie di questi tempi, cosa da tutti. Come non lo è saper stare dalla parte dello spettatore senza intortarlo e manipolarlo ma offrendogli una storia impostata su pilastri soliti, genuina ma non per questo innocua.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Anno: 2013
Regia: Stephen Frears
Sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Valerio Bonelli
Musiche: Alexandre Desplat
Durata: 94'
Interpreti: Judi Dench, Steve Coogan, Neve Gachev, Charlie Murphy