Negli anni Gondry ci ha regalato un debutto coinvolgente come Human Nature, un capolavoro sublime come Eternal Sunshine of the Spotless Mind (rifiuto categorico a utilizzare il delinquenziale titolo italico), un vivo successo come L'arte del sogno, e un fallimento hollywoodiano come The Green Hornet. Nel mezzo videoclip, cortometraggi, brevi incursioni televisive e un buon esempio di docufiction come The We and the I, rimasto inedito ai più.
Per il suo ritorno in terra di Francia l'autore di Versailles ha raccolto l'ennesima sfida di un percorso artistico mai scontato, lanciandosi nella temibile impresa di dare vita e immagini alle pagine di L'ècume des jours, straordinario romanzo pubblicato nel 1947 da Boris Vian, non molto conosciuto in Italia ma considerato Oltralpe come uno dei massimi esempi di letteratura del Novecento, tanto da essere analizzato e insegnato sui banchi di scuola. Già oggetto di due precedenti trasposizioni cinematografiche, una nel 1968 per la regia di Charles Belmont e l'altra nel 2001 per mano di Go Riju, il libro di Vian si avvale di una complessità stilistica, formale e lessicale che ne trascina ogni significazione sino ai limiti del filmabile, talvolta oltre; va dunque dato atto a Gondry di aver tentato un'impresa non lontana dalle paludi dell'impossibile, ostacolo superato (in parte) con l'inesausta ricerca espressiva da sempre in prima linea nel cinema del transalpino.
La schiuma dei giorni racconta la storia d'amore tra il ricco viveur parigino Colin e la dolce Chloé, un viaggio nelle ragioni profonde del cuore accompagnato dal respiro dell'imminente tragedia, pronta a bussare alle porte della felicità nel momento in cui una ninfea si insinua nel polmone di lei, crescendo al suo interno sino a consumarne la forza vitale. Per tentare di regalare al cinema almeno la parziale sostanza dell'impressionante ricchezza linguistica contenuta nel romanzo, Gondry dà fondo a tutte le invenzioni tecniche di cui può disporre, tuffandosi in un guazzabuglio estetico in cui commedia romantica, dramma, ironia, speranza, lacrime e sangue corrono a braccetto con una messinscena dominata da movimenti accelerati, scene d'animazione in stop motion, montaggio schizofrenico, inquadrature oblunghe, idee imprevedibili e assurdità assortite.
È come se Gondry volesse succhiare la linfa offerta dalle infinite possibilità teoriche e pratiche del cinema, costringendo lo spettatore a salire sulle funi di una giostra al contempo soffocante e accecante, ubriaca e squadrata, anarchica e crudele; una sarabanda affamata di tempi e colori, che si nutre del cinema stesso sino a divorarne le basi per renderlo strumento malleabile e ribaltabile sino allo stordimento.
Per questi motivi, è scontato asserire come Mood Indigo possa incontrare con eguale facilità attrazione e repulsione, entusiasmo e rifiuto, cosa che infatti sta puntualmente accadendo; siamo infatti di fronte a un'opera limite, nella quale il muro che separa genialità, manierismo, poesia e paraculaggine crolla fino a trasformarsi in cenere da calpestare senza ritegno.
A conti fatti, se si esce indenni dall'orgia visiva dei primi venti minuti, Gondry dimostra ancora una volta come dia il meglio di sé proprio quando butta via il manuale delle follie e si dedica anima e corpo alla leggenda eterna dell'amore; lì, nella profondità delle vie del sentimento, anche la sua schiuma dei giorni diventa candida e morbida, e ritroviamo tracce profumate di quel solenne umanesimo espresso nel sopracitato e meraviglioso Eternal Sunshine. In quel territorio ovattato la culla degli affetti esplode, portando i suoi attori a volare sopra i tetti di Parigi, in una delle scene più belle del film, per poi appassire in un istante come i fiori che Chloé deve portare sul petto per combattere la malvagia ninfea, negli anfratti avvizziti di una casa sempre più piccola, brutta e tetra, simbolo in perenne mutamento di ciò che gli occhi non sanno più celare.
Mood Indigo pare scriversi da solo, con una mano e mille mani, in quella caotica catena di montaggio che fa da corollario alla messinscena, prigione da cui non si può fuggire. Il film di Gondry è una cascata di sollecitazioni, un fiume in piena debordante, in cui nuotano con tutte le loro forze per restare a galla i protagonisti della vicenda: un bravo ma sempre troppo gigione Romain Duris, di nuovo nei cinema italiani a poca distanza da Populaire (Tutti pazzi per Rose), e una sempre più bella e matura Audrey Tautou, ancora una volta convincente dopo le emozioni trattenute offerte in Thérèse Desqueyorux di Miller. Tra di loro, nella quadruplice veste di cuoco, autista, amico e avvocato, un irrefrenabile Omar Sy, bravo a rimettersi in gioco in un ruolo non di primissimo piano dopo il trionfo di Intouchables (Quasi Amici).
Giusto citare, infine, anche le brevi apparizioni di Vincent Rottiers, recensito sulle nostre pagine per Je suis heurex que ma mère soit vivante e ormai onnipresente nella contemporaneità del cinema francese, e di Natacha Régnier, ancora affascinante anche senza più essere la ragazzina scapestrata di Les Amants Criminels; entrambi, ovviamente, alle prese con ruoli in cui il gusto (macabro?) per il surreale si impone su tutto. Una legge intoccabile, che domina ogni anfratto di Mood Indigo sino all'ultimo petalo di rosa.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: L'Écume des jours
Anno: 2013
Durata: 125 min
Regia: Michel Gondry
Sceneggiatura: Luc Bossi (dal romanzo di Boris Vian)
Fotografia: Christophe Beaucarne
Montaggio: Marie-Charlotte Moreau
Musiche: Étienne Charry
Scenografia: Stéphane Rosenbaum
Attori: Romain Duris, Audrey Tautou, Gad Elmaleh, Omar Sy, Aïssa Maïga
Uscita italiana: 12 settembre 2013