Da lì in poi nel suo cinema qualcosa pare essere mutato definitivamente; gli irresistibili tic del passato sembrano aver abbracciato un’idea del mondo, della vita e del dolore più ampia e sfaccettata, meno orientata verso l’intemperanza giovanile degli esordi e più proiettata verso le tante, tantissime contraddizioni del presente. Il Moretti regista dei suoi ultimi tre lavori è un Moretti attore che si defila, che lascia spazio ad altri davanti la macchina da presa, che letteralmente “sta accanto”, analogamente alla frase che egli stesso è solito ripetere ai suoi attori, forse senza capirla più nemmeno lui, e che in Mia madre mette in bocca alla regista Margherita, interpretata da Margherita Buy, suo alter-ego a tutto campo: “Voglio vedere anche l’attore, accanto al personaggio”.
Così come Moretti consiglia ai suoi attori di non dimenticare il personaggio che devono portare sullo schermo ma di metterlo un attimo in disparte, allo stesso modo il suo farsi da parte è strumento per addentrarsi più docilmente nelle storie che decide di raccontare, per instaurare un clima di prossimità e di vicinanza in cui regni la colloquialità del sentimento, la familiarità di un sorriso che incontra una lacrima, il senso di inadeguatezza, lancinante, irrevocabile, dei suoi protagonisti, che poi è lo stesso che Moretti rivendica per se stesso. Quella porzione d’imperfezione tutta sua, sottratta a tutti gli altri pubblicamente e poi, paradossalmente, rovesciata sui suoi film con una letteralità autobiografica che in Mia madre è addirittura devastante, tanto è nuda e priva di difese (in questo caso, infatti, lo “stare accanto” è anche e soprattutto accudire la madre malata).
La fragilità, la non appartenenza, l’essere qui ma anche (sempre) altrove: un leitmotiv del Moretti maturo, dal Silvio Orlando regista di b-movies chiamato a fare un film sul potere alla regista di Mia madre, che quando è con qualcuno pensa costantemente a qualcun altro (alla madre morente, alla figlia, al lavoro sul set) passando per il non essere all’altezza del Papa di Michel Piccoli, che viene eletto dal conclave ma preferirebbe essere da qualsiasi altra parte. A recitare Cechov, in quel teatro che ama così tanto, a passeggiare per strada. Ma non lì dov’è.
Gli ultimi personaggi di Moretti, proprio come lui, paiono desiderare solo la fuga da loro stessi. Dagli obblighi, dalle liturgie pubbliche, dalle litanie preimpostate del quotidiano (“Ripeto le stesse cose da anni perché tutti pensano che io, in quanto regista, sappia interpretare la realtà, ma io non capisco più niente”, pensa Margherita dinanzi alle imbarazzanti domande standard di una conferenza stampa). Alla ricerca di una purezza originaria, di un’assenza di sovrastrutture che lo stesso Moretti in Mia madre ha fatto propria, raccontando un pezzo consistente del suo recente passato (la morte della madre avvenuta durante il montaggio di Habemus Papam) con una spudoratezza che non conosce eguali e che si scherma, parzialmente, soltanto dietro il gioco dell’identificazione, col personaggio della Buy a sintetizzare ossessioni e abitudini del regista e quest’ultimo a interpretarne il fratello premuroso, scrupoloso e buono, che di Moretti lascia intravedere solo la pignoleria e la passione per i dolci, agendo per il resto con un candore e una remissività che egli, sullo schermo, non aveva fino a questo punto mai incarnato direttamente.
Si tratta di un segnale attoriale importante, perfino decisivo. Perché in Mia madre gli eccessi sono circoscritti e isolati, affidati quasi tutti all’istrionico e cialtrone John Turturro, il cui attore americano incapace e narciso però nasconde una sindrome, senza svelare quale (si può solo dire che non è la prima volta che Moretti la tira in ballo nella sua carriera). È un film controllato e limpido, Mia madre, commovente oltre ogni limite, misurato fino ad avvolgere chi guarda in un gelo leggero e impalpabile eppure pesante come il piombo, permeato di una tacita tristezza che pian piano invade lo spettatore e che altrettanto lentamente si scioglie. Senza offrire facili catarsi, costringendoci alla larga da ogni compiacimento a guardare in faccia il lutto e a confrontarci con i nostri fantasmi individuali. A pensare alle nostre, di stanze vuote, e a coloro che non le riempiono più; ai nostri, di scatoloni pieni di oggetti e abbandonati in attesa di miglior destinazione, quelli che sono sempre lì e non ci decidiamo a mettere via, reali o figurati che siano. Li abbiamo tutti, e lo sappiamo benissimo.
Moretti, come è già stato detto e scritto più o meno da tutti, ha girato il suo film più intimo e personale, quello in cui la trasfigurazione del vissuto è indubbiamente più spinta, dolorosa e sofferta; tuttavia la cosa stupefacente è che non lo si guarda mai come si guarderebbero la vita, i sogni, le paure e le sofferenze di qualcun altro ma lo si riconosce subito come proprio, sebbene il materiale che Moretti ha riversato nel film sia davvero intricato e meravigliosamente indistinguibile (la sequenza davanti al Capranichetta, ma anche le ultime scene di Margherita Buy con Turturro sul set, sono un tripudio di lirismo, emotività condensata e caricata a salve, reinvenzione onirica e poetica).
Si guarda Mia madre rivolgendo la lente di ingrandimento dentro se stessi, ed è un miracolo che il regista romano sia riuscito a ottenere tale risultato col suo film più ego-riferito, il più in pericolo sul terreno dell’autocommiserazione narcisistica o della sessione psicanalitica privata, finalizzata a elaborare il proprio stesso lutto. Rischi puntualmente scongiurati da quello che sembra essere l’interesse primario del Moretti di Mia madre: sorvegliare e custodire le emozioni, accentarle anche musicalmente (da Arvo Pärt a Ólafur Arnalds passando per Philip Glass e Leonard Cohen), non lasciarle deflagrare, imbalsamarle in una “teca”, vale a dire in una scrivania o in un libro di latino in cui sono depositati studi, appunti e pezzi di vita di una madre insegnante di lettere classiche. Non per mortificarle ma per averle più vicine a sé e percepirle meglio, anche attraverso il linguaggio cifrato del sogno (l’incubo che vede il pavimento inzupparsi d’acqua, simbolo uterino, materno e primitivo per eccellenza). Tutto, nel suo film, si sovrappone e si interseca fino sfumare nella dimensione condivisa del ricordo e del dolore, due contingenze gemelle, inevitabilmente legate da uno strettissimo rapporto di parentela.
Questo Moretti di oggi, così asciutto e confidenziale nel parlare e nel colpire al cuore, sorprende e spiazza più che mai, è toccante con fermezza non ricattatoria, invoca un ritorno a un principio di realtà (“Bring me back to reality!”, sbraita il Barry di Turturro dopo una furibonda litigata con Margherita) che lo porti via dal set di un brutto film con addosso l’etichetta dell’impegno sociale e lo traghetti da un’altra parte. Ovunque, perfino verso un domani cui pensare con rinnovata necessità e urgenza nonostante tutto, con le lacrime agli occhi e il batticuore per ciò che se ne sta andando per sempre e si vorrebbe tenere disperatamente aggrappato a sé.
Mia madre, se lo si guarda con la stessa amara, dolcissima schiettezza con cui il film stesso ci guarda, è la palese dichiarazione di una resa, la messa a nudo di un’incolpevole impreparazione di fronte alle cose della vita che in fondo ci accomuna tutti. In ciò risiede, contemporaneamente, la sua umana debolezza e la sua straordinaria forza cinematografica. In una parola la sua bellezza, non urlata e indiretta, pudica e orgogliosamente antiretorica.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
Attori: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Clelio Benevento
Scenografia: Paola Bizzarri
Anno: 2015
Durata: 106'
Uscita italiana: 16 Aprile 2015
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