“Fatti una vita, o fatti una morte”: è una battuta di Havana Segrand (Julianne Moore), attrice dall’animo orrido desiderosa di interpretare un ruolo che fu della madre, a prima vista casuale ma che in realtà dice molto dell’ultimo film di David Cronenberg. In assenza della vita reale, sottomessa alle ragioni della finzione, dell’apparenza, dell’industria moralmente deteriore dell’intrattenimento e del cinema, non resta infatti che abbandonarsi alla raffigurazione di carcasse arenate, quali sono per l’appunto i personaggi di Maps to the Stars. Spettri di una costellazione indicibile, lontana anni luce dalla verità e dalla spontaneità, confinati nella gabbia di un’artificialità che il film del regista canadese trasuda in ogni scelta di regia e in ogni dialogo della calibratissima sceneggiatura di Bruce Wagner (che però, saggiamente, non chiude il cerchio ma rilancia la posta). Niente più che spettri, evocazioni di una seduta spiritica travestita da film d’interni raggelato e melodrammatico.
Non c’è, forse, altro modo di avvicinarsi a questi esseri così poco umani, androidi che anelano al grande schermo e ai suoi fasti perché quella è l’unica dimensione nella quale possono ritrovarsi, emotivamente e ontologicamente, a loro agio. E non è un caso se le presenze realmente soprannaturali del film, che fanno capolino spesso a testimoniare la devianza psichica dei personaggi e a torturarli psicologicamente, più che spettri sembrano demoni paradossalmente più autentici e potenzialmente più malvagi e pericolosi, nonostante l’innocenza di molti di loro, delle creature rimaste in vita. Perché le figure fantasmatiche, a ben vederle, ci sono già. E accanto a loro non ne ammettono altre, provando a ricacciare il più lontano possibile tutto ciò che è alieno dalla loro posticcia forma di sopravvivenza.
Maps to the Stars è un film straordinariamente neutro, che colpisce nel segno laddove A Dangerous Method falliva, ovvero nella messa in scena capillare di un universo completamente dominato dalle leggi della psicanalisi, dalla freudiana coazione a ripetere all’Imago Dei di Jung (non a caso), che viene citata in modo esplicito da Cusack. I suoi abitanti ambiscono infatti alla pienezza cosmica, al soddisfacimento di se stessi, ma impattano tragicamente nell’impossibilità di procurarsi una felicità nuova e rigenerata: nell’epoca del crollo dell’utopia e della fine degli ideali, viene meno anche l’immagine idealizzata e la fiducia colma di speranza nel futuro.
Il postmoderno moltiplica se stesso all’infinito per definizione, in una serie di brutte serigrafie. E il film di Cronenberg non a caso somiglia a una fastidiosa e abbrutita sitcom dalle tonalità tragiche, nella quale i paradossi vengono amplificati fino a farsi insostenibili, i rapporti tra i padri e le figlie regrediscono al crudele rifiuto e l’amore non è più forte ma solo più freddo della morte (checché ne dica Stafford Weiss), al di là di ogni illusione in vitro e di qualsiasi gioco di prestigio mirato a gonfiare identità e personalità.
Già, la personalità, questa sconosciuta. La vera grande assente di Maps to the Stars, in cui non si trova neanche a cercarlo con il lumicino un esempio di sana coerenza e cristallina fedeltà a se stessi: tutti tradiscono tutti e tutto ma soprattutto si tradiscono, contraddicendo e contraddicendosi, mostrando questo o quel volto in un’insalubre e indifferenziata moltiplicazione di prospettive, pronta a farsi pura orgia dell’individualismo e dell’utile. È questo l’elemento del film più disturbante e algido, il più vicino a una costante doccia fredda in cui l’avvilimento dei sentimenti e dell’integrità di uomini miseri e fallimentari è resa sullo schermo da momenti in cui gli effetti sonori si fanno assordanti come non mai.
L’unica (non) mappatura possibile, insomma, è il caos, l’unico conforto rimasto è ascoltare il guazzabuglio della propria testa e di un cuore che esplode di collera, saturo di contraddizioni e mascheramenti, di risate che si sovrappongono a colpi di coda macabri, a coiti senza senso, ad antidepressivi e premi insanguinati. È proprio quest’ultimo aspetto a rendere l’ultimo Cronenberg un grande affresco disperato e quel che più conta, in barba a ciò che se ne dice in giro, ben più originale delle apparenze.
Riflettere sulle derive post tutto dell’immaginario, in un momento in cui lo fanno tutti, dai discorsi sul digitale ai canyons schraderiani, passando per la messa in gioco e in dubbio dell’atto stesso del filmare, non rende automaticamente un film bollito, specie se si adopera il bisturi con cui Cronenberg da sempre legge qualsiasi cosa, rovesciando il reale, la carne, i corpi e plasmandoli alle sue esigenze espressive. Hollywood è in questo caso solo un pretesto per raccontare la crisi di riconoscimento del nostro tempo, in cui, fuori da ogni mappa o tracciato, non c’è identificazione e si può solo viaggiare stando fermi, come corpuscoli stellari spersi nello spazio, senza meta e senza una galassia, anche lontanissima, cui approdare.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Maps to the Stars
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Bruce Wagner
Montaggio: Ronald Sanders
Fotografia: Peter Suschitzky
Anno: 2014
Durata: 110’
Uscita italiana: 21 maggio 2014
Attori: Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Sarah Gadon, Robert Pattinson, Olivia Williams, Evan Bird, Carrie Fisher.