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MAGIC IN THE MOONLIGHT - Disillusioni alleniane

8/12/2014

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«Lui ha un classico disturbo nevrotico della personalità: brillanti genitori che non andavano d’accordo, ossessionato dalla mortalità, non crede in niente, trova che la vita non abbia alcun significato. Insomma è un perfetto depresso che sublima ogni cosa nella sua arte. Un grande artista che ha scelto di fare l’illusionista: scelta interessante se quello che uno vuole è fuggire dalla realtà, ma come Freud lui non si farà mai e poi mai sedurre da pensieri infantili solo perché più confortanti. Davvero un uomo infelice. Mi piace molto».
Questa è la descrizione con cui uno dei personaggi descrive Stanley Crawford (Colin Firth), illustre illusionista che viene ingaggiato e invitato da un suo vecchio amico a scoprire e smascherare Sophie (Emma Stone), possibile medium che, per mezzo della sua bellezza, riesce a sovrastare tutto e tutti. Nascondendosi inizialmente dietro un velo di sarcasmo, Stanley dichiara sin dal primo momento e senza rancore ciò che pensa della ragazza e della sua attività, ostinato a smascherarla. 
Il Gran Tour mondiale del regista, attore e sceneggiatore statunitense continua, portandolo questa volta fra la Costa Azzurra e la Provenza, con una cornice rurale situata alla fine degli anni ’20, presentando la bella società ancora spensierata e pronta a godersi la vita al meglio con questioni di cuore o di arguto pettegolezzo. Tornando a parlare ancora una volta di sé per mezzo del personaggio interpretato da Colin Firth, Woody Allen realizza un film dedicato al bisogno umano di illusioni, includendo nel novero di queste anche l'amore. 
Il tema dell’illusionismo ha sempre affascinato Allen, tanto che lo ha riproposto in svariati modi, a partire da La rosa purpurea del Cairo, senza dimenticare però che l’unico superpotere di cui si abbia una reale certezza brandisce una falce. Verità e finzione, leggende e trucchi si amalgamano in difesa delle illusioni. Un omaggio a una commedia di altri tempi, che il suo istrionico autore colora della misantropia che da sempre lo rappresenta. Chi infatti conosce Woody Allen può ben notare che la sua genialità consiste ormai non più nel contenuto, che si basa sempre sulle tematiche a lui più care (famiglia, psicanalisi, anti-eroismo, amore e morte), le quali anche se ripetitive vengono trattate in maniera acuta e singolare non risultando mai vecchie e superate, quanto più nella loro forma, nel modo in cui vengono proposte allo spettatore visivamente e concettualmente. 
Dunque, con la sua fotografia bagnata di sole, musiche jazz, stile registico inconfondibile, in Magic in the Moonlight non trova davvero posto nulla di nuovo: la famiglia c’è, nel desiderio di poterne costruire una propria seguendo il raziocinio della situazione, ma anche nel legame con la zia saldo e ferreo più che con la madre; la psicanalisi anche, citata immancabilmente dalla bella Sophie; Stanley Crawford, poi, non è esattamente il ritratto dell’eroe classico, ma un uomo spinto dalle sue radicate convinzioni, condannato a una vita di pessimismo e misantropia, impiegata a idolatrare Nietzsche e Hobbes limitando le interazioni con il resto del mondo, e con la mancata rassegnazione della mediocrità che lo circonda; convinto che l’amore a prima vista, come la magia, non esiste, Stanley dovrà presto ricredersi arrendendosi davanti alle irrazionali ragioni dei sentimenti che muovono le nostre azioni. La morte, infine, si manifesta prima come una condizione mentale del protagonista, poi come un'essenza che fa sentire la propria presenza grazie al personaggio di Emma Stone, che professa l’esistenza di un mondo ultraterreno, salvo però essere stroncata dalla scoperta della inganno e dall’accettazione della realtà. 
Questa ennesima passeggiata in campagna - tra Scoop e Una commedia sexy in una notte di mezza estate - voleva evidentemente restare leggera, vagamente romantica, come l'ambientazione francese, rivierasca e provenzale, richiedeva. Temi belli e dipinti con gran mano, ma quel che non aiuta sempre può essere il ritmo mal cadenzato. Sceneggiatura e dialoghi ben scritti, recitati da attori con talento da vendere: oltre Colin Firth ed Emma Stone ci sono Jacki Weaver, Marcia Gay Harden, Eileen Atkins. 
Superficiale? Sicuramente. In fondo questa “leggerezza ricercata” contraddice lo stile verboso e analitico del solito furbetto dietro la macchina da presa. Tuttavia, per quanto possa deludere le altissime aspettative, un film di Woody Allen è sempre un prodotto valido, che ha qualcosa da dire e da insegnare. Non sono i “bei vecchi tempi”, ma è come ritrovare un vecchio amico. Allen lo sa e sfrutta la situazione, sapendo che ormai può essere rassicurante più che folgorante. E questo fa rabbia.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2014
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Attori: Emma Stone, Colin Firth, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater, Jacki Weaver, Eileen Atkins
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Alisa Lepselter
Durata: 98'
Uscita italiana: 04 dicembre 2014

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