Ispirato alla storia vera di Marcus Luttrell (interpretato con buon vigore da Mark Wahlberg), e al romanzo da lui scritto sull’azione Red Wings, Lone Survivor, come recita il titolo stesso, non è una storia di attacchi, ma di difesa. Della vita, la propria e dei compagni. Una storia di sopravvivenza e sacrificio, ma anche di solitudine. È la guerra senza ragione, dislocata nei territori dell’altrove.
Lone survivor è perfettamente in linea con l’esplorazione della guerra afgano-irachena fatta da Peter Berg nella sua breve ma interessante filmografia. Laddove The Kingdom rifletteva l’intelligence (si fa per dire) nella Presidenza Bush, e Battleship portava avanti l’elaborazione post 11 settembre dell’altro come minaccia, Lone survivor ci parla di eroismo e fratellanza. Berg recupera anche il cast tecnico e alcune tematiche ricorrenti della sottovalutata serie tv Friday Night Lights: non abbiamo qui solo la spettacolarizzata esaltazione dell’identità di gruppo, ma anche lo stesso direttore della fotografia, Tobias Schliessler, e gli stessi compositori, il gruppo Explosions in the Sky, che insieme a Steve Jablonsky scrivono un tema sommesso e toccante, affatto trionfalistico.
Il racconto di sopravvivenza è un classico del cinema di genere americano; la facile metafora dello yankee perso nelle terre sconosciute e selvagge dello straniero non è cosa nuova. Ne abbiamo avuto un ottimo esempio in Bat 21, con Gene Hackman smarrito nelle paludi vietnamite. L’Afghanistan somiglia sempre di più al Vietnam nell’immaginario collettivo, soprattutto per il senso di spaesamento e di dubbio, nonché di destabilizzazione, insinuatosi nel popolo americano. Anche nel caso di Lone Survivor, come per The Kingdom, il contesto storico e politico è reso ben evidente. I primi minuti ci rendono immediatamente chiaro dove siamo, chi saranno i protagonisti e quale storia si andrà a raccontare. Il film è spicciolo, in questo senso. Non si perde in chiacchiere ma si preoccupa di approfondire motivazioni e psicologia dei personaggi. Sono loro, dopotutto, soggetti e agenti dell’empatia con lo spettatore, causa ed effetto dell’emozione collettiva per un racconto di guerra che vuole attrarre sull’umanità e sul coraggio dell’essere umano in circostanze estreme.
Il modello è Black Hawk Down di Ridley Scott, con la sua struttura episodica e il profondo senso di rispetto per i marines che hanno sacrificato se stessi per un ideale più alto. Eric Bana, che era stato il solitario eroe e collante nel film di Scott, è idealmente promosso a capo della missione strategica, un ponte meta-cinematografico, quasi un cross-over, in cui l’attore esce da uno schermo per entrare in un altro, nello stesso contesto, la stessa situazione, solo elevato al rango di comandante delle operazioni.
Peter Berg non ha la cultura di Ridley Scott e, consapevole dei propri limiti, fa ciò che gli riesce meglio: sviluppa l’azione come metafora narrativa. Per il tramite dei personaggi racconta la tragedia dei militari americani in una terra ostile, segnata, rischiosa. Territorio privilegiato del nemico, il bosco afgano si scatena come natura contraria e ostile e diventa un terzo protagonista, ago della bilancia nel determinare la sorte favorevole o avversa degli americani. È forse questo l’aspetto più interessante del film, ossia l’ingresso nella dimensione della natura che, invasa, sembra animarsi per mostrare la sua bellezza e insieme la sua violenza. Ora sono i rami, ora i tronchi, gli alberi, le rocce. I passi falsi sono di chi non conosce. Il talebano è lo stereotipo del nemico nell’America di oggi, una figura impersonale e anonima che funziona da pretesto per un racconto di coraggio e senso del dovere. Un racconto di fratellanza che cede solo quando l’ambizione lo porta a ragionare in termini apprezzabili ma superficiali sull’idea più religiosa di vicinanza tra i popoli.
L’estetica del videogioco, fatta di esplosioni da fuochi d’artificio, schizzi di sangue espansi a raggiera in fermo immagine, proiettili sibilanti eternamente a bersaglio, buoni e cattivi perfettamente distinti e identificati, viene qui tradotta in film. Ed è vincente. Questa è l’economia attraente e consapevole di un action movie che pesca a piene mani nella retorica gloriosa di Act of Valor ma sa tradurre gli stereotipi in simboli della cultura post-moderna americana. Le facce fresche e popolari dei protagonisti diventeranno ben presto maschere di sangue e di sofferenza, e sui primi piani Berg insiste molto a marcare l’entità del sacrificio.
Nel gruppo di ottimi protagonisti (alcuni totalmente estranei al cinema di guerra, come Ben Foster o Emile Hirsch), si erge Taylor Kitsch, simbolo e feticcio del cinema di Peter Berg. Giocatore ribelle e afflitto dal destino in Friday Night Lights, militare scavezzacollo per Battlefield, in Lone Survivor abbandona le vesti del cattivo ragazzo per farsi baluardo dell’eroismo nella nuova, super-tecnologica, impalpabile guerra americana. Quando risale le rocce verso la luce, chiamando un frammento di divinità al cospetto della fine, Kitsch non è nemmeno più se stesso, né il personaggio che interpreta; è soprattutto l’eroe del rovinoso John Carter from Mars, un fallimento che metaforicamente suggerisce il disastro della missione di guerra, o della guerra stessa.
John Carter cambia abiti ma, nella location da videogame dove il conto delle vittime reali è incalcolabile, sacrifica se stesso al simbolico altare dell’eroismo americano, lanciando un messaggio di soccorso ma anche implorando l’America che manda i suoi figli a morire di tornare a prenderli. Peter Gabriel, mentre scorrono le fotografie degli eroi caduti, interpreta Heroes, culmine della catarsi cinematografica.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Peter Berg
Anno: 2013
Attori: Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Emile Hirsch, Ben Foster, Eric Bana
Sceneggiatura: Peter Berg (dal romanzo Lone Survivor di Patrick Robinson e Marcus Luttrell)
Fotografia: Tobias Schliessler
Musiche: Explosions in the Sky, Steve Jablonsky
Durata: 121'
Uscita italiana: 20 febbraio 2014
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