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LOCKE - I'm driving

3/5/2014

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Ivan Locke è un uomo ordinario in tutto e per tutto, la quintessenza della stabilità e della sicurezza: ha un fisico robusto, dalla stazza non indifferente, che probabilmente gli procura tutta l’autorevolezza di cui ha bisogno nel rapportarsi con gli altri, nella vita e sul lavoro (è un costruttore). Il suo è un corpo in perfetta linea con i parametri di un’Inghilterra operaia, lavoratrice e con i piedi ben piantati su un terreno già solido ed edificato. Un pater familias che rincasa con le mani che odorano di calcestruzzo e trova la moglie e i due figli ad accoglierlo, un uomo tutto ufficio, casa, famiglia e partite di calcio in Tv. Uno che magari fa pure il tifo per una squadra che bazzica non di rado la zona retrocessione, costretta a soffrire come lui per sudarsi gli obiettivi anche minimi da raggiungere.
Tom Hardy incarna questo personaggio con incredibile aderenza fisica e un accento gallese che, data la sua nettezza compassata, ben si sposa con un tipo dai modi così spicci e concreti, la cui esistenza scolpita nel cemento verrà presto sgretolata. Travolta da una colata di situazioni-limite, che egli stesso non farà nulla per evitare. Quello di Steven Knight è un one man show di fattura pregevole, un film da abitacolo tutto girato nell’auto del protagonista e scandito dalle innumerevoli telefonate che egli riceve in una nottata decisiva per gli equilibri della sua vita. Un’oasi di tranquillità perfetta e inviolata che collasserà di colpo nel momento in cui Locke deciderà di prendersi sulle spalle il peso di una colpa con cui altrimenti non riuscirebbe a convivere: proprio lui, l’irreprensibile Ivan Locke, ha tradito la moglie in una notte di solitudine, e ora quella ragazza con cui si intrattenne aspetta un bambino.
Ivan, il cui padre all’epoca lo abbandonò senza neanche fargli vedere la propria faccia quand’era in fasce, non vuole eternare la maledizione paterna e non intende in alcun modo replicare l’orrore di quell’errore, anche a costo di sacrificare quel sereno ecosistema che è la sua esistenza. Per lui non c’è in questo caso poi tanto amore per la donna le cui acque si sono rotte con due mesi d’anticipo, costringendolo a mettersi in viaggio di corsa, e anche il coinvolgimento è al minimo storico. Ciò che più gli preme è l’obbedienza a quell’integrità dalle fondamenta stabili come gli edifici che costruisce e sulla quale egli basa tutto se stesso.
Locke è un film sul senso di responsabilità che irrompe nell’ordinarietà forse soddisfacente ma sbiadita di un common man come tanti altri, rendendo improvvisamente vividi e rischiosi i colori e le traiettorie del suo percorso di vita: linee rette (casa, lavoro, famiglia) che s’intersecheranno in un disegno geometrico tragico ma incontrovertibile e si comprometteranno clamorosamente in un’unica notte di mutazioni profonde; il tutto mentre Ivan guida verso Londra, verso quel figlio che sta venendo alla luce e che avrà il suo cognome. Il futuro, man mano che l’alba si appropinqua, si assottiglia per lui sempre di più, avvicinandosi pericolosamente all’idea di una corsia a senso unico, senza possibilità di ritorno nella direzione opposta.
Locke è per 85’ al volante col suo magnetico protagonista, ma non si tratta di una costrizione che pesa sullo spettatore, del contrassegno spossante di un film da camera con pretese d’estremismo. Locke è esattamente il contrario di tutto ciò. È un film che parte da un’idea di messa in scena di sicuro d’impatto, con l’intento di impostarla su un tracciato narrativo il più possibile efficace e tradizionale, che si espande sulla base di una sceneggiatura ad alto tasso di funzionalità, con delle forze archetipiche che si dibattono al suo interno: la zavorra del padre mai avuto, l’analogia d’effetto di Locke col più scarso dei calciatori che realizza un gol capolavoro per lui impensabile (anche l’uomo qualunque può fare la migliore cosa possibile, in una notte fuori dall’ordinario), il rapporto tra il nevrotico e il faceto con un collega di lavoro beone e non troppo affidabile (il riuscitissimo Donal). A tutto ciò si associa una costruzione visiva di grande fascino, mentre le voci al telefono delineano personaggi, stati emotivi ed interi mondi affettivi e professionali: poche inquadrature, con tre telecamere per ogni scena, tessute insieme attraverso giochi cromatici e di luce e dissolvenze incrociate che restituiscono tutto il caotico pathos di un tormento interiore portato avanti con soffertissima lucidità.
Lo script di Knight è un vero e proprio manuale di sceneggiatura, fondato su elementi basici ma dal riscontro sicuro, che lavora sulla tensione e sulla sospensione, che gioca sull’immedesimazione di pancia dello spettatore e lo trascina in questa mini-odissea autostradale, in cui la vita del protagonista è smantellata in modo direttamente proporzionale al coinvolgimento di chi guarda.
È proprio questa la più grande forza di un film incentrato su un uomo che, a prescindere dal colore del semaforo, trova dentro di sé l’intima ragione per andare avanti, per sobbarcarsi la gravosità delle proprie coraggiose scelte. È proprio il caso di dirlo, specie di questi tempi di sotterfugi legalizzati, proprio come si farebbe quando il più scarso della tua squadra del cuore infila in rete un gol da tre punti al 90°: What a miracle.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Locke
Anno: 2013
Durata: 85’
Regia: Steven Knight
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Haris Zambarloukos Musiche: Dickon Hinchliffe
Uscita in Italia: 30 aprile 2014
Attori: Tom Hardy, Ruth Wilson, Olivia Colman, Andrew Scott, Ben Daniels, Tom Holland, Bill Milner

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