Si riparte dunque da dove si era interrotta la narrazione nel capitolo precedente, con Gandalf, Bilbo e i nani impegnati nel difficile compito di raggiungere la Montagna Solitaria per sconfiggere il temibile drago Smaug e riconquistare le inestimabili ricchezze contenute al suo interno. Il viaggio reso ancora più arduo dall’improvvisa uscita di scena di Gandalf, costretto a separarsi dal gruppo per occuparsi di un’oscura e incombente minaccia che rischia di travolgere la Terra di Mezzo. Tra ragni giganti, elfi ostili e orchi crudeli Bilbo e i nani di Thorin Scudodiquercia riescono infine ad arrivare a Pontelagolungo, cittadina a un passo dalla Montagna Solitaria, dove li attende l’astuto e mefistofelico Smaug, pronto a tutto per non farsi sottrarre il suo enorme tesoro.
Se nel primo episodio il ritmo stentava a decollare, come se il film fosse incapace di scrollarsi di dosso il pesante fardello dovuto all’inevitabile confronto con la trilogia dell’Anello, in Lo Hobbit: la desolazione di Smaug non si corre certo questo pericolo. Dopo un prologo ambientato a Brea (con l’immancabile e divertito cameo di Peter Jackson), antecedente gli eventi descritti nel primo film, dove ci viene mostrato il primo incontro tra Gandalf e Thorin alla locanda del Puledro Impennato, veniamo subito catapultati nella concitata fuga di Bilbo e dei suoi compagni di viaggio inseguiti dagli orchi guidati da Azog.
In questo secondo episodio il ritmo è più fluido ed elevato rispetto al primo film, esattamente come era già accaduto con Le due Torri rispetto alla Compagnia dell’Anello. I toni si fanno più cupi e dark, i momenti ironici e brillanti del capitolo precedente vengono meno per lasciare spazio a una narrazione epica e frenetica costellata da numerose sequenze di combattimenti dove ritroviamo l’elfo Legolas interpretato sempre da Orlando Bloom, inserito appositamente in fase di scrittura nonostante il suo personaggio non faccia parte del romanzo alla base del film. È una delle tante libertà artistiche che gli sceneggiatori Guillermo del Toro, Philippa Boyens, Fran Walsh e lo stesso Peter Jackson si sono concessi per creare una sorta di continuità con Il Signore degli Anelli, com’era già accaduto nel prologo de Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato con la presenza di Elijah Wood nei panni di Frodo.
Legolas è anche tra i protagonisti di una delle sequenze più complesse dell’intero film, destinata a lasciare a bocca aperta gli spettatori di mezzo mondo per l’abilità tecnica e l’incredibile virtuosismo con cui è stata concepita e realizzata: ci riferiamo alla scena della fuga a rotta di collo dei nani dentro i barili lungo le rapide del fiume, con gli orchi alle calcagna e il leggendario elfo impegnato in incredibili acrobazie per riuscire a fronteggiarli. Ad affiancarlo troviamo l’elfa Tauriel impersonata da Evangeline Lilly (la Kate di Lost), personaggio mai apparso in alcuna opera di Tolkien, creato appositamente in fase di sceneggiatura per dar vita a una inutile storyline romantica con l’accenno a un improbabile triangolo interspecie che coinvolge addirittura Kili, uno dei nani della compagnia di Thorin. Un innesto abbastanza forzato per implementare le “quote rosa”, che altrimenti in pratica non sarebbero pervenute in questo secondo capitolo se si esclude la fugace presenza di Cate Blanchett nei panni di Galadriel.
In Lo Hobbit: la desolazione di Smaug assistiamo alla trasformazione, lenta ma inesorabile, di Bilbo - interpretato da un bravissimo Martin Freeman - che inizia a sentire il peso dell’anello e ad esserne al contempo impaurito e affascinato. Lo hobbit sereno e pacifico che mai si sarebbe sognato di allontanarsi dalle rassicuranti comodità del proprio focolare è solo un lontano ricordo: col proseguire del viaggio lo osserviamo acquistare una maggior intraprendenza e un coraggio non comune nell’affrontare le numerose insidie che nella parte finale del film assumono le maestose e sbalorditive fattezze di Smaug, l’ennesima, mirabolante creazione digitale della Weta.
Assolutamente vincente la scelta di chiamare l'attore inglese Benedict Cumberbatch a prestare la sua voce, profonda, suadente e cavernosa e le sue movenze, sinuose, eleganti e minacciose alla terrificante creatura sputafuoco. Il duello a colpi d’astuzia tra Bilbo e il drago è il cuore pulsante del film, destinato a rimanere a lungo negli occhi degli spettatori, rapiti da cotanta meraviglia. Divertente notare come i due attori impegnati in questo originale e impari duello da qualche anno facciano coppia fissa sul piccolo schermo della Tv britannica nell’acclamata serie Sherlock, di cui è attesa a breve la terza stagione, dove Freeman interpreta il dottor Watson e Cumberbatch il perspicace e acuto Sherlock Holmes.
Con un finale che sadicamente ci lascia sul più bello - con un vero e proprio cliffhanger da serie Tv - dopo oltre due ore e mezza di paesaggi mozzafiato, combattimenti e scorribande nella suggestiva Terra di Mezzo Lo Hobbit: la desolazione di Smaug può dirsi pienamente riuscito nel suo intento di farci agognare la visione dell’ultimo e definitivo tassello della nuova trilogia, da cui come di consueto ci separa una logorante attesa lunga un anno.
Boris Schumacher
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: The Hobbit: The Desolation of Smaug
Anno: 2013
Uscita in Italia: 12 dicembre 2013
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura: Guillermo del Toro, Philippa Boyens, Fran Walsh e Peter Jackson
Fotografia: Andrew Lesnie
Musiche: Howard Shore
Durata: 161 min.
Attori: Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Benedict Cumberbatch, Evangeline Lilly