Muove da fili saldi e funzionali nella loro invisibilità, questo prodotto che si libera dei gioghi autoriali grondanti di rifrazioni italiane, e lo fa (nemmeno paradossalmente) accentuandone il background geografico culturale senza privarlo di dignità, affondandolo di testa nell’unico sostrato credibile e ipotizzabile ed emancipandolo dal cappio della verbosità isterica e posticcia a cui sembriamo assuefatti. Lo fa, anzitutto, nell’uso delle programmatiche di genere, sporcando l’archetipo supereroico (e conseguente derivazione nel cinecomic) del tipico inchiostro bluastro metropolitano, ma ribaltandone gli effetti, spuri da echi stereotipati o che l’occhio già conosce.
L’impressione di novità, di assoluto incastro neo-nato, eppure, è evidente, si traina da esperienze cinematografiche esistenti; ma Mainetti riesce in un’impresa di pura maestria tecnica e di sguardo che non dovrebbe risultare extra-ordinaria, perché la sua opera (sua e di Nicola Guaglianone, già sceneggiatore di Tiger Boy e Basette, nei quali s’intravedevano già passioni e visioni adulte) si rivela presto nella sua disincantata, precisa linearità.
Cassa di risonanza, motore incontrollabile, ingenuo ed elementare scatto drammaturgico, nella sua forma più limpida e svuotata di costrutti mirabolanti, il sentimento, il risveglio fiabesco, monito e mentore.
In una precisa triangolazione strutturale di personaggi, la cui linea prima si alterna e poi s’incrocia, Mainetti impianta in un sobborgo disastrato della periferia romana, e ancor prima in una Roma dilaniata da attentati terroristici (eppure si potrebbe essere ovunque), le vicende delinquenziali, inghiottite nella mafia locale (e napoletana, occhieggiando a un certo tipo di adagiamento sul topos malavitoso), de “Lo Zingaro” e della sua combriccola, impegnata maldestramente in affari di droga; all’altro capo, in interessante simmetrica divergenza, Enzo, imbrigliato da sempre nelle trame appiccicaticce della para-criminalità, un bestione a tratti beota inariditosi per consunzione nel proprio sostrato di miseria (di mezzi e di affettività).
Ne risulta un disegno affascinante nella sua dicotomia folle, nella quale l’antagonismo si colora di deliri d’onnipotenza, con Luca Marinelli (già apprezzatissimo in Non essere cattivo) impegnato a credersi e volersi vedere divinità in paillettes, invidiando lo stato potenziato che Claudio Santamaria accoglie nella propria narcolessia cerebrale, per forza eroe che eroe (e uomo) non si vuole vedere. A scuotere quest’ultimo dalla propria terminale decadenza, Ilenia Pastorelli, cometa impiastricciata di vitalità naif come poco capita di incontrare, principessa in rosa tutt’altro che spuria di graffi, rifugiatasi ella stessa in un mondo salvo da passività e repulsione sociale (quello di Jeeg Robot d’acciaio) ove è ancora possibile l’Azione pura, lavata da un ragionamento sensibile a dinamiche distorte e di semplice “reazione”.
Alessia trasla l’universo filmico dell’anime attraverso il culto, ne fa strumento, e tutto come fosse generato da una sua allucinazione; incorona Enzo sovra-impressionandolo nell’animazione a tinte chiassose, luce cinematografica in un appartamento-carcere simbolo di una segregazione esistenziale mai contrastata, mai opzionale.
Eppure, Lo chiamavano Jeeg Robot allestisce un impianto discorsivo che esula (ma sempre imprescindibilmente di esso s’infonde) da una conscia struttura di contenuto, e ancor muovendo da un sentimentalismo disfunzionale che mai s’imbelletta; tutt’altro. Diventa visione disancorata dai suoi riferimenti, verosimile e insieme sospesa, applaudita da un flusso ironico mai sbadato, furbo o pedante, dissanguata nella pece urbana crepuscolare, arsa da un orizzonte dinamico, ritmico, a piena tenuta. Si bea di tre figure cardinali ampiamente contestualizzate, umanizzate, mai marionette, le cui parole, finalmente, riescono a non risultare retoriche e dimostrative; ma da questi parte e s’allontana, per tracciare una forma indipendente che dei propri dettagli fa simbiosi, dalla cui cabina di regia si dipana un’intenzionalità (e una concretizzazione) sicura, raggiante di volontà d’empatia onnicomprensiva, virtuosa nel suo compimento stilistico ma salvandosi da vezzi autoriali, virgolettature, divertissement della mano senza arte né parte.
Nessuna castrante sbavatura, solo potenziali migliorie. Persino i referenti orientali nell’uso stilizzato e gratuito della violenza, con teste scannate al ciglio della strada, mignoli violacei riassemblati con lo scotch, una yakuza burina disorganizzata, i cui fili lerci vengono tenuti in piedi da un magnetizzante leader tamarro, paiono espurgare la loro eredità per farsi brillanti umanità nuove e non parodiche. Non solo: Lo chiamavano Jeeg Robot, alto nel suo farsi invidiabile diluizione di generi, pianta il seme (o meglio, il germe) di una saga, quella del primo atto di un uomo distrutto che infuso di superpoteri (emozionali) decide, finalmente, di vivere.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Gabriele Mainetti
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti
Fotografia: Michele D’Attanasio
Anno: 2015
Durata: 118’
Intepreti: Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi
Uscita italiana: 25 febbraio 2016