La leggenda di Kaspar Hauser continua là dove Beket finiva, nel medesimo solco di incomunicabilità ostentate e tensione tutta estetica. Un vero e proprio primo tempo, un preludio al disfarsi totale della consequenzialità narrativa che trova in Kaspar Hauser un’estremizzazione e un compimento ancora più totali. Due opere dialoganti che sono due facce della stessa medaglia se prese separatamente e che insieme si fondono in un binomio catalogabile quale cristallino atto di resistenza: al mercato, all’industria, all’inflazionato e polveroso orizzonte sepolcrale del cinema italiano contemporaneo.
In Kaspar Hauser si prosegue per smembramento successivo, si scarnifica tutto fino all’osso, si mira a restituire la nebulosa e affascinante aura di leggenda che si confà a questa storia ma senza per questo negare il piacere pieno e compiuto della visione. Una gioia che deriva tutta dalla contemplazione di un’immagine iper-costruita e iper-rifinita, una groviera di suggestioni che non esiste oltre se stessa e che solo all’interno delle sue giunture e non fuori può trovare il suo centro e la sua ragion d’essere. Motivo per cui Kaspar Hauser, nella sua progressiva e incessante negazione della sovrastruttura, è di gran lunga più immediato e meno intellettualistico di quanto fosse Beket: in questo caso i simboli si scorporano dal loro significato allegorico relegandolo ancor più misteriosamente in una galassia parallela lontana e inaccessibile; a differenza di quanto accadeva nel precedente film di Manuli, in cui la dimensione metaforica della curiosa rilettura di Aspettando Godot alludeva passaggio per passaggio, suggeriva letture tra le righe, urlava chiavi di senso e spingeva lo spettatore a ricavarne altre e ancora altre in continuazione. Kaspar Hauser non ha questa pretesa, o meglio, si fa cosciente del superamento di questa sua funzione di medium immediato.
Partendo da questa consapevolezza Manuli orchestra un film che è bombardamento sensistico ancor prima che incedere narrativo e drammaturgico, ricollocazione sospesa nel tempo della celebre vicenda trasposta, tra gli altri, da Werner Herzog. Una versione atipica in cui il Drago, il Prete, la Veggente e la Duchessa diventano archetipici viandanti. Costoro sì, assai affini all’umanità surreale e inclassificabile di Beket nel loro essere sottratti alla dimensione eterna del Mito. Kaspar Hauser però va ben oltre l’astrazione metafisica dei suoi elementi e la trasformazione dei personaggi in moncherini cerebrali che diventano veicoli di stordimento sensoriale e trip allucinatori. È un film che cavalcando il suo spessore eminentemente cinematografico raggiunge la trascendenza del gesto filmico inteso come atto rivoluzionario, come inno di speranza intonato in una terra nullificata, in cui ogni orizzonte futuro sarebbe in teoria negato per sempre.
L’inizio de La leggenda di Kaspar Hauser è folgorante, un prologo che denuncia fin dalle primissime inquadrature la sua natura ibrida e western. Deserti sentieri di casupole avvolte in un bianco perlaceo e lattiginoso (lo stesso di tutto il film, e lo si deve alla bellissima fotografia in bianco e nero di Tarak Ben Abdallah) e un’invocazione lasciata cadere nella non risposta: il miglior preludio che si possa immaginare per il duello tra le due anime sdoppiate del funambolico e schizoide Vincent Gallo, uno degli autorattori più sperimentali del cinema contemporaneo, qui diviso tra il ruolo dello sceriffo e quello del pusher, col tic dell’onnipresente “oh yeah!” ad accompagnarlo in modo irresistibile. Accento texano e casco in stile Daft Punk, è lui che oltre a sorvegliare il femmineo Kaspar (una sorprendente Silvia Calderoni, scommessa azzeccatissima) ne cementifica l’educazione sentimentale a suon di techno e cuffie da Dj, il tutto sulle note magmatiche e magnetiche dei Vitalic, che ravvivano ogni suono bussando rumorosamente alle porte del paradiso.
L’artificialità del synth reiterato non è un mero dato musicale, ma è anche e soprattutto cifra stilistica di un film che come Beket fraziona e smantella un intero immaginario e dà vita a dei cocci isolati di istantanea e folgorante bellezza, una meraviglia attraversata dalla forza stordente di un viaggio (anche) musicale a dir poco entusiasmante. Un concerto avvolgente e avvincente che rapisce lo sguardo fin dai titoli di testa dai caratteri molto sgranati e che poi lega a sé lo spettatore attraverso una sarabanda di piani sequenza controllatissimi e calibrati e di oggetti griffati, emblemi di una regia pittorica, minimalista e sorvegliata.
Tra western e sci-fi, La leggenda di Kaspar Hauser è un film che pretende moltissimo dallo spettatore ma lo ripaga con una sinfonia di rara bellezza di fronte alla quale le parole decadono e lasciano il posto a ben altro. Un’opera che si fa dono a potenziali essere pensanti e guardanti che non si scandalizzino con provinciale bigotteria per l’eccentricità fuori dai canoni, ma che sappiano (ac)coglierne la potenzialità devastante, il sublime senso di smarrimento di chi conosce la chiave per una salutare sospensione dell’incredulità e la stereotipia marmorea e statuaria di personaggi che sembrano ologrammi frutto di allucinazioni nel deserto e che come tali non hanno l’impellenza di una coerenza e di una caratterizzazione psicologica. Perché in fondo hanno già ucciso se stessi e fatto a pezzi il loro mondo, e dunque partono già da una dimensione di post-corpo, finendo con l’aspettare, per colmo di paradosso, ciò che c’è già stato (il prete cowboy di Fabrizio Gifuni che parla e parla di un Messia che ha da venire…).
Kaspar Hauser è, insomma, un film di fronte al quale perfino la critica propriamente detta può prendersi una pausa salutare. Manuli, d’altronde, è un folle che molti vi faranno passare per un regista da custodia cautelare immediata, e proprio per questo il suo magistero è tanto più prezioso. Il suo cinema, che si concede con sprezzo del didascalismo perfino l’ovvietà del nome del protagonista riportato sul petto dello stesso, non avrebbe neanche bisogno di spiegazione, a dire il vero, e ogni esegesi non può che essere in questo caso un mero atto inerziale. Kaspar Hauser è un’opera che prima di ogni altra cosa va vista e goduta appieno, autosufficiente perché capace di sopravvivere e di nutrirsi solo di se stessa e di nient’altro, senza necessità di diete, bilancini e integratori vari, o tanto meno di parafrasi esplicative. In una parola: perfetta.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
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Scheda tecnica
Regia: Davide Manuli
Sceneggiatura: Davide Manuli
Fotografia: Tarek Ben Abdallah
Montaggio: Rosella Mocci
Attori: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Marco Lampis, Claudia Gerini
Anno: 2012
Durata: 95'
Uscita italiana: 13 giugno 2013