Film chiacchieratissimo di gran lunga prima che vedesse la luce, è un’opera complessa, stratificata, di non semplice e immediata intellegibilità. È la Roma vampirizzata da Sorrentino in un tripudio gocciolante di mondanità e feste patinate, divertimento sintetico e macchiette portavoce dello squallore dilagante. Una Roma metafisica e altra, notturna e morente, sarcofago-specchio di un’Italia che si estingue giorno dopo giorno nella reiterazione di una vuotezza irrimediabile e inguaribile.
Molto probabilmente però, al di là delle sue semplicistiche riduzioni mediatiche e dei punti di contatto col nume tutelare Fellini – più Roma che La dolce vita, a dire il vero – La Grande Bellezza non racconta (solo) della Città Eterna ma si configura piuttosto come un film sulla ricerca del bello tout-court. Una città dal dannunzianesimo anacronistico e godereccio, incrostata di beatitudini e d’un impegno civile solo ipocritamente rivendicato (sulle increspature pronte ad esplodere del volto di Galatea Renzi c’è tutta la crisi del radicalchicchismo sinistroide odierno). Un macro-universo sospeso che si circonda di accecanti luci pacchiane per non fare i conti col fango della propria meschinità, in cui succede sempre qualcosa ma alla fine non succede nulla, in cui il senso d’eternità che si respira in ogni angolo scantona in un’inevitabile e speculare sensazione di vuoto cosmico.
“Auguri Jep, auguri Roma!”, declama il simulacro matronale della (fu) Serena Grandi. Perché Roma e Jep Gambardella, giornalista brillante e indolente che ha scritto un solo romanzo oltre quarant’anni prima e che adesso si dedica esclusivamente al bestiario umano che gli gravita attorno, stringi stringi sono la stessa cosa. Si rassomigliano, si sono in qualche modo scelti. La lucidità fumosa e al contempo tagliente di Jep, il suo essere un dandy-guaglione seducente, carezzevole eppure spietato, sono caratteristiche che coincidono alla perfezione con la natura all’apparenza accogliente ma in fondo disinteressata e matrigna che Roma riserva ai suoi figli, soprattutto se acquisiti, se stranieri e dunque a lei estranei. Nel suo bellissimo monologo sulla terrazza il personaggio di Toni Servillo si produce in una sensazionale overdose di implacabilità: le parole come pietre, il grado massimo della letterarietà dei dialoghi sorrentiniani. Nessuno sconto, solo un tristo mietitore di anime purganti (di una in particolare). Proprio come la sua Roma.
Nonostante il respiro e la solennità che l’ammantano, La Grande Bellezza fatica però a dialogare dentro di sé, a instaurare connessioni profonde nel suo tessuto interno. Ogni scena è una scena madre ma c’è anche una generale sensazione di scollatura non voluta, come se i quadri scissi se ne stessero ognuno per conto proprio, sacrificando il respiro generale. Nella seconda parte il film si siede, e in pratica non si rialza più. Sorrentino fa un film ancora una volta molto personale, lontano da ogni forma di estetica derivativa, impestato del suo stile, sottolineando a ogni passaggio quanto la poesia e la bellezza abbiano sempre bisogno del lampo dell’invenzione. Il demiurgo deve avere d’altronde il potere di trasformare un soffitto bianco in una distesa di mare, di materializzare l’impossibile; è proprio questo il sogno spericolato di Sorrentino, cineasta dalla pupilla vorace, sempre a caccia della più elettrizzante e avvitata delle visioni. E di fatto La Grande Bellezza parte come un furioso oggetto audiovisivo martellante e monstre, tra dolly sconfinati e rabdomantici stordimenti orgiastici e musicali. Un botta di adrenalina. Poi però restano le ceneri, e le perplessità.
Non mancano i momenti di fragilità struggente e accecante (la messa in scena del funerale, con un pianto di Jep che alla fine sopraggiunge per davvero, inspiegabilmente autentico) e l’accorata vicinanza di un rapporto come quello tra Jep e la Ramona di Sabrina Ferilli, ben oltre la freddezza di due apparati umani qualsiasi. Tuttavia, tra enfasi e profanità ostentata, tra sacralità religiosa fatta a pezzi e fuochi fatui assortiti, il film non spicca il volo, ma è comunque lì, vivo e ondeggiante sul bagnasciuga della vita. Non si tuffa e non respira a pieni polmoni la salsedine del mare sconfinato delle sue invenzioni, si aggira piuttosto dalle parti della contemplazione da fuori.
Sorrentino sembra fermarsi un giro in più di un’occasione, come nel gioco dell’oca. Ma il suo viaggio al termine della notte vale comunque lo sforzo di essere seguito e affiancato con estrema passione. Il sovrappiù e il compiacimento del puparo che fa la voce grossa nel muovere le sue creaturine di cartapesta c’è tutto, ma alla lunga emerge anche la verità, quella chimera che ogni artista magari incrocia, forse per sbaglio, forse in maniera accidentale. È la scultura e la scrittura del tempo, un’immobilità che sul tempo della vita e sulla vitalità del tempo non può non riflettere. Il miracolo di chi si fotografa ogni giorno, guardandosi in continuazione allo specchio. “È solo un trucco”, ma è un’illusione che può valere oro.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Musiche: Lele Marchitelli
Attori: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, Anita Kravos, Isabella Ferrari, Giulio Brogi
Anno: 2013
Durata: 142 min
Data uscita in Italia: 21 maggio 2013