Il film dell’attore siciliano Luigi Lo Cascio è un’opera prima, e si vede. La non compiutezza intorno alla quale galleggiano la regia e la narrazione somigliano infatti a un acquario galleggiante e impalpabile, a una detection story di umori e atmosfere evocative ma mai davvero definite. La quadratura e la compattezza lasciano piuttosto il posto all’ambizione smisurata di Lo Cascio, regista e interprete che si cimenta in un giallo ambiguo, sbilenco, con una sottile e quasi impercettibile dose d’ironia.
L’isolamento psicologico e l’introversione caratteriale del protagonista, un personaggio algido oltre i confini dell’immaginabile e al quale purtroppo però non si crede davvero neanche per un secondo, coincide con una serie di sbalzi di tono umorali, di accenni di traiettorie thriller che vorrebbero suonare perturbanti ma finiscono con l’essere solo appena accennate, esili e impercettibili. Si guarda a certe scale e a taluni incubi kafkiani, si azzarda il respiro di Elio Petri ma senza possederne una delle doti più peculiari e al contempo dimenticate, anche da buona parte di coloro che oggi rievocano la grandezza di quel cinema: la visionarietà. Perché il respiro del film di Lo Cascio è invece dal canto suo singhiozzante e contratto, come una partitura annaspante e priva del respiro adeguato a sopportare il peso dei suoi immani propositi. Non ha la forza immaginifica che una storia del genere richiederebbe, non ha immagini in grado di rapire davvero o di indurre a pensare che il gioco valga la candela.
La maschera di Michele Grassadonia sarebbe anche perfetta, con tutti gli strabuzzamenti degli occhi e le sospettosità verso il mondo esterno che Lo Cascio riesce a condensare in quello sguardo sempre contratto in una smorfia mimica. Però la serie di manie che affliggono il personaggio non stanno in piedi e lo smarrimento interiore è suggerito come un dato da fornire aprioristicamente per scontato e mai come una condizione necessaria e non accessoria che serva a comprendere a dovere la parabola discendente e abissale in cui la sua indagine e il suo agire sprofondano.
Di quasi accettabile rimane allora qualche suggestione ambientale e atmosferica, la dimensione annichilente e misteriosa di una provincia arcana e vellutata, foderata d’ossessioni ma, purtroppo, anche di annotazioni. Piuttosto che la costruzione ansiogena di uno spazio in cui lasciar germogliare i patimenti psicologici e la dose di suggestione malata che gli incontri di Michele potrebbero suggerire, si forniscono infatti certosine e sbrodolate spiegazioni intorno a ogni arrovellamento, vanificando una buona dose di potenziale che il film potrebbe anche ospitare tra le sue crepe. Come se in realtà, a dispetto della spavalderia ribalda e dell'ostentato petto in fuori, non ci si sentisse abbastanza sicuri, preferendo dare delle basi pur minime di solidità che però finiscono soltanto con l’accentuare l’idea di una più che sospettabile tensione e all’accumulo e al sovraccarico.
Presentato a Venezia 2012, La città ideale vorrebbe essere un film sull’illuminismo che si sfalda sotto la mannaia letale di un esoterismo incombente, ma non ha l’afflato geometrico per reggere una tesi così ingombrante: si sfalda ben presto, tra mille instabilità e difetti, inseguendo un baricentro e una compattezza che premono e incalzano ma non arrivano mai. Va riconosciuto il coraggio di aver tentato qualcosa di profondamente insolito e ardimentoso per i connotati statici del nostro cinema contemporaneo, ma ciò non toglie che il salto di qualità sia stato provato con una certa meccanicità e una dose non indifferente di pigrizia e macchinosità, soprattutto di scrittura.
Il film si gioca anche la disperata carta finale dell’opera(zione) di genere in grado di incontrare l’analisi di costume, ma è una giustapposizione infelice, che persiste nello iato e non raggiunge mai un amalgama degno di questo nome. Lo sguardo del regista sulla sua Sicilia appare poi assai esemplificativo del film in generale: tutto è ridotto a stereotipo incombente e a superficiale bozzetto, ma è ancor più pernicioso di quanto sarebbe se si contentasse della sua banalità, proprio perché vuole costantemente sembrare profondo, serio, impegnato. Ed è una contraffazione alla lunga difficilmente tollerabile.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Anno: 2012
Regia: Luigi Lo Cascio
Sceneggiatura: Virginia Borgi, Massimo Gaudioso, Desideria Rayner, Luigi Lo Cascio.
Fotografia: Pasquale Mari
Musiche: Andrea Rocca
Durata: 105’
Uscita in Italia: 11 Aprile 2013
Interpreti principali: Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano, Aida Burruano, Roberto Herlitzka.