Quell'operazione tendente a “storicizzare” la fiaba, in una tessitura di stampo individualista come quella americana, si potrebbe dire nasca dall'urgenza di riappropriarsi di un passato nebuloso già di per sé desolato nei propri meandri di tempo spurio, contaminandola con caratteri strappati al mito e all'epos, allo spettacolo ultra-dinamico e alla retorica classica. Quasi un processo di riparazione, perché Hollywood non ha i Grimm, non ha Odisseo, né Artù, e quei pochi legami con la poesia epica dei nativi americani li ha sciolti con l'epurazione indiana. Questa vicenda, invece, italiana ma per metà internazionale, è la storia di un sostrato culturale che, ricucendo la diaspora, si ricongiunge in seno alla propria natività, tornando a casa.
Garrone è conscio del proprio “sguardo principesco” nei confronti delle fonti, il circuito narrativo a incastro del napoletano Giambattista Basile, tanto che esalta, temerariamente, la matrice a-temporale dell'ignota terra che ospita le composizioni pittoriche: quadri autonomi che premono per virare verso un ampliamento visuale, attraverso un annullamento dell'unicità topografica. Oltre il campo ne inizia un altro, ed è forse lo stesso che abbiamo già visto (o che ancora dobbiamo vedere?). Canovacci di narrazione che subiscono la forza tensiva di panorami molteplici, non univoci, per nulla stigmatizzati, o auto-conclusivi e significanti in sé. Per guardare all'eterno femminino (regine, principesse, giocoliere) tramite un prisma di sfaccettature ottiche che pare oltrepassare la bidimensionalità pittorica per tirare al composito. Un approccio allo scheletro culturale di riduzione all'osso evidente nel contegno verbale, dove il lasciare che la fiaba, nella sua ontologia primaria, parli per sé, e parli con i mezzi del proprio fascino archetipico, significhi coglierla nella sua imprescindibile, semplice giustapposizione di modelli secolari, di reiterazioni tematiche di tornasole umano. In questo senso, forse, e non casualmente, gli espedienti linguistici fungono alla stessa maniera di formule “magiche” d'inizio e di chiusura, quei campi lunghi e le dissolvenze in nero, come a sfogliare la pagina e iniziare un nuovo capitolo.
Eppure, nel processo di riconduzione allo statuto biologico di una pratica, come dal digitale all'analogico, Garrone agisce per controcampo, a rovescio, dove la struttura si fa flessibile e si depura di ogni manicheismo morale (il “bene o male” tanto caro alle fiabe popolari), il lieto fine si priva di un deificante trionfo e il carattere dottrinale si eclissa nel nullo. Figlio di una modernità sbilenca e tutta europea che, travestendosi di grottesco, di triviale, di disturbante, calca la mano sulla natura d'ambiguità tutta dei moti e dei caratteri umani, così persi a contemplare il loro destino funambolesco, a sfuggire ai propri dogmi istituzionali, a sopravvivere alla morte fisica, a rimanere in equilibrio, proprio dove quello stesso funambolo allegoricamente chiude il ciclo (dell'opera). Al contempo, la sostanza impalpabile ed eterea di un film vagamente criptico si illumina di un barocchismo paradossalmente sgombro e scarnificato, lirico ma sottovoce, ma che pare stagnare in un'evidente confusione, più che d'intenti, di volontà d'obiettivi.
L'umanesimo di Garrone quasi scompare. Non un movimento di macchina che prema sull'urgenza di vivificare quelle stesse novelle polverose e quei volti animati, che oltrepassi il comando estetico, che getti luce cinematografica sul risveglio guizzante, sul sentire unanime di un insieme di figure iconograficamente funzionanti, ma per materia pulsante sulla soglia del non-esistere. Una progressiva disumanizzazione, uno svuotamento di anime che si getta nell'aura mortifera di incertezza che lo conclude. Non vi è traccia degli affreschi urgenti del tangibile (dove il fantasy è puro modello non per forza a(nti)-reale in sé) o dello sguardo emozionale che si teneva incollato alla fragile precarietà umana.
Il racconto di Garrone è, di fatto, uno solo, quello di una poco riuscita verticalizzazione, o di tirare il freno a mano su un'elaborazione che avrebbe potuto bearsi di diversi mezzi espressivi e fortemente veicolanti. Lo straniamento, anzitutto, a spostare e confondere gli automatismi percettivi del nostro porgerci naturale (e condizionato) al mondo della fiaba, qui solo al suo principio. Alcuna risemantizzazione, dunque, laddove una matrice di testo napoletana avrebbe potuto, soprattutto nelle mani di Garrone, assurgere a esempio di riformula, di variante per contrasto, di anti-modello bizzarro e originale estraneo alla tradizione (dominante).
Un lavoro quasi empirico, certamente attraente per schemi anti-drammatici e complesso di raffigurazioni evocative e dilatate; ma il cinema è (anche) altro e pare strano che Garrone non lo sappia.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Tale of tales
Regia: Matteo Garrone
Anno: 2015
Interpreti: Salma Hayek, Vincent Cassel, Shirley Henderson, Alba Rohrwacher, John C. Reilly
Sceneggiatura: Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Alexandre Desplat
Durata: 125'