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GRAND BUDAPEST HOTEL - Cinema portagioie 

10/4/2014

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Wes Anderson è uno dei cineasti contemporanei maggiormente capaci di creare una fidelizzazione, sia in positivo che in negativo: chi lo ama continua a farlo imperterrito, così come ad ogni suo nuovo film il regista de Le avventure acquatiche di Steve Zissou non si sottrae dal fornire ai suoi detrattori spunti consistenti per proseguire a disprezzarlo cordialmente.
Il suo ultimo Grand Budapest Hotel, Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Berlino, naturalmente non fa eccezione. È infatti un film che si staglia nella carriera di Anderson come la somma algebrica e quintessenziale del suo cinema fanciullo e zuccheroso, tutto geometrie e quadretti, immagini levigate e frame redatti con cura millimetrica. 
L’albergo, se ci si pensa bene, era un approdo inevitabile per uno come lui (già vagheggiato nel corto Hotel Chevalier che apriva Il treno per il Darjeeling). Non solo in quanto massimo luogo d’elezione per un regista arredatore, ma anche perché si tratta di uno spazio fortemente legato all’idea della ripartizione e della suddivisione, delle stanze in una hall ma anche del movimento umano circoscritto al loro interno: in esso a ciascuno viene assegnata una collocazione ben precisa che non può essere scardinata, in virtù di un numero e una chiave (d’accesso) corrispondente.
Proprio come nel cinema di Anderson, in cui ogni personaggio esegue se stesso e la funzione matematica che l’autore texano gli ha costruito addosso. Con libertà minuscole di mutamento rispetto a quel modello e ai metodi d’ingresso al mondo interiore delle proprie creature che il regista replica puntualmente di film in film, con minime variazioni sul tema. Per non parlare dei suoi movimenti di macchina classici, che qui ci sono tutti come sempre (le inquadrature simmetriche, i carrelli laterali e in avanti) e che contribuiscono ancor di più a dare la sensazione, nel suo cinema, di una griglia schematica. Eppure nel cinema o per meglio dire nella galassia di Wes Anderson non ci si sente mai costretti, ma sempre spassionatamente liberi e leggeri come i personaggi stralunati e basiti che lo abitano, anime vive in un mondo inventato nel quale il dolore entra solo di soppiatto, lasciando perciò doppiamente irretiti e spiazzati, dolcemente feriti dal sentore nitido di un’innocenza rubata.
Grand Budapest Hotel in tale circuito si va ovviamente a inscrivere, segnando però anche non pochi scarti di novità nella poetica andersoniana. Partiamo dall’assunto di base: una ragazza si trova a leggere un libro in cui l’autore racconta il ricordo di un incontro a due occorso alcuni anni prima, nel quale un anziano uomo narra a sua volta a un ragazzo ben più giovane la storia della sua vita indissolubilmente legata a un hotel e al mitico concierge che fu suo protettore, mentore e infine amico, il leggendario Gustave H: un Ralph Fiennes inedito, guascone e seduttore impenitente di signore non più giovanissime ma molto ricche.
Tra dipinti trafugati, amori che sbocciano, lotte per un’eredità contesa e personaggi dall’aspetto talvolta aguzzo e inquietante, ecco dipanarsi questo play within’ the play in cui l’atto del narrare si fa intreccio dedalico e costruzione a scatole cinesi, in un meccanismo strutturato al suo interno come una torta multistrato. La vocazione mitteleuropea di Anderson, texano trapiantato qui in un’Europa della quale è figlio illegittimo ma osservatore trasognato, omaggia non solo la svagatezza frizzante di Lubitsch e Wilder ma anche l’intimità calorosa dei testi di uno dei più grandi biografi della storia della letteratura, Stefan Zweig, che per l’appunto era austriaco pure lui. In altre parole, dal punto di vista cinematografico, il nucleo fondante dell’Europa emigrata che rese grande il cinema americano (e lo stesso Zweig fu naturalizzato britannico).
Di quell’universo lì, riversato nella farlocca Repubblica di Zubrowka, Anderson tesse l’elegia struggente: un’ode rigorosamente spiantata e priva di radici come può esserlo uno come lui rispetto a quel mondo e a come di fatto sono, ora e sempre e indipendentemente da tutto, i suoi personaggi. Il suo Grand Budapest Hotel è un’arca depositaria dei sogni di una Vecchia Europa sospesa tra Est e Ovest, un cinema che ancora una volta riscopre se stesso nella dimensione del cofanetto pieno di tesori cromatici e affettivi: un vero e proprio cinema portagioie, ostinatamente giocoso e ironico ma tinto per l’occasione di un’oscurità insolita, in cui la digressione romanzesca, la malinconia e il senso di soffuso disfacimento per via dell’incombenza di una Guerra Mondiale alle porte slabbrano l’emisfero-Anderson e i suoi luminosi vezzi stilistici in una favola più nera della norma.
Non è casuale, dunque, se la percezione della realtà in questo contesto è ancora più strozzata del solito, se i dialoghi appaiono ancor più strangolati rispetto ai parametri classici delle sceneggiature di Anderson, che per la prima volta sceneggia da solo, e il confine del disegno e del cartoon viene estremizzato oltre ogni lecito limite: Grand Budapest Hotel è quasi una stop motion imperniata su una parata alimentare di attori in carne e ossa, sulla quale le ombre si addensano lunghissime e la realtà si trasfigura nella sua variante bidimensionale quasi per proteggere se stessa, per sopravvivere e per edulcorarsi, per resistere all’orrore dei conflitti e delle separazioni. 
Un clima che contribuisce a rendere il cinema andersoniano, dopo la love story adolescenziale Moonrise Kingdom, definitivamente adulto, perfino inaspettatamente violento e stilizzato: qui ci sono quadri con accoppiamenti lesbici, cadaveri e dita mozzate in malo modo, killer, carcerati pelati e varie altre crude amenità che affollano “questo mattatoio un tempo chiamato umanità”. La stasi è prossima (“Perché ci fermiamo ancora in un campo d’orzo?”), la guerra unisce da Oriente a Occidente, dall’Africa al Vecchio Continente: Zero (che è egiziano) e Gustave si ritroveranno uniti dalla medesima condizione di fuggiaschi dal passato comune, esuli per necessità e costituzione, inevitabilmente fratelli chiamati a dormire fianco a fianco in un vagone.
Privatosi della sua figura più ricorrente, il padre, in Grand Budapest Hotel Anderson non manca però di riflettere sul concetto di eredità non solo materiale: un ultimo, estremo lascito in virtù del quale la salvezza e la custodia dei luoghi fisici della memoria sono affidate al tramandarsi della parola scritta in forma di narrazione, nonché a un terminale residuo di sensibilità in grado di instaurare una marca di consanguineità tra gli individui. L’Hotel sarà anche diventato un presidio bellico, ma nel mondo c’è ancora un libro da aprire e da sfogliare e un parente da guadagnare.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson 
Musiche: Alexandre Desplat
Fotografia: Robert Yeoman
Montaggio: Barney Pilling
Anno: 2014
Durata: 100'
Attori: Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Tony Revolori, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Bill Murray, Jude Law

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