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BLUE JASMINE - Dramma dell'inadeguatezza

9/12/2013

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La vita di Jeanette è baciata dal lusso e dagli agi, con un marito ricchissimo e la possibilità di sguazzare nell’oro e nel benessere. Ma quando si scopre che il suo consorte altro non è che un adultero ingannatore e un truffaldino poco di buono, l’esistenza di Jasmine (il nuovo nome, ben più esotico, che lei ha scelto di portare), oltre a naufragare dal punto di vista familiare, precipita vorticosamente in una spirale di fragilità, tra disturbi mentali e psicofarmaci, alcol e isteria. Non verrà mai meno, però, la sua altezzosità impettita, quella delle borse Vuitton e della necessità di viaggiare in aerei di prima classe: Jasmine si ritroverà a parlare da sola, con indosso un capo Chanel ma con i capelli bagnati e gli occhi tempestati di trucco sbavato. E non potrebbe esserci immagine più eloquente di una vita così contrastata e demolita dalle contraddizioni al punto da sfociare alle soglie della schizofrenia e della dissociazione.
Con Blue Jasmine Woody Allen torna a vestire i panni del tragico, gli stessi che nella sua carriera ha qua e là indossato (soprattutto dopo i suoi maggiori successi), senza però riscontrare mai particolare plausi né di pubblico né di critica. Rispetto a film come Interiors e Settembre l’ultimo lavoro del regista newyorkese si pone però su una galassia ben diversa, su un livello che lo rende a conti fatti uno dei film migliori di tutta la sua sterminata e prolifica produzione. Niente a che vedere coi toni cupi e bergmaniani del passato: in Blue Jasmine ci si trova davanti a un Allen in cui la nevrosi e l’esagitazione appaiono necessarie come raramente lo sono state, pilastri portanti di un dramma dell’inadeguatezza e dell’instabilità che permea le strutture sociali della nuova, alta borghesia americana e le fa collassare dall’interno, ritraendola con livore spasmodico e crudeltà tagliente, con una cattiveria che stavolta si fa davvero fatica a dissimulare dietro i luoghi comuni e i tic satirici dell’ironia alleniana, che tutto dovrebbe occultare e smorzare sempre e comunque.
Forte di uno stile narrativo a incastro basato su flashback continui che ricordano lo straniamento di Un’altra donna, l’Allen di Blue Jasmine è quello dei Tennessee Williams, dei Cechov e dei Cassavetes, delle giostre prive di senso di esistenze dolorose spazzate via dalla crisi economica, della difficoltà di trovare un posto in un mondo in perenne cambiamento. Jasmine ritorna alla sua famiglia non appena tutto le crolla addosso, ma la sorella Ginger è così distante da lei, coi suoi uomini ostinatamente rozzi e a detta di Jasmine inadeguati, che poco o nulla tra loro riesce a funzionare a dovere. Ginger fa la cassiera, sta con un meccanico di nome Chili, l’unico personaggio maschile di Blue Jasmine a non essere integralmente negativo ma che pure ha scatti di gelosia che lo portano a staccare i telefoni dal muro con violenza. Ed è proprio a partire dal disegno dei suoi personaggi che Allen aggiorna la sua visione delle relazioni umane alla contemporaneità, alla crisi dei valori e delle certezze, ai mutamenti di una realtà cangiante e faticosa da inseguire.
È pertanto davvero un piacere ritrovare un Woody Allen di magnificenza talmente devastante, così febbrile e frizzante, baciato da un amaro pessimismo che non ha bisogno di nubi londinesi ma può vivere anche nella dorata, ambivalente luce pastosa e giallo-dorata di New York (e San Francisco): la perfetta cornice cromatica, luccicante e danarosa, per un film che merita di stare nell’empireo alleniano anche solo per come ragiona sui ruoli di classe, facendo dell’ansia compulsiva connessa al proprio status economico il grimaldello di una tensione che dai salotti dell’Upper East Side investe le parole e le cose, i rapporti e gli affetti, le poche gioie e i tanti dolori, i decadimenti sociali e le ambizioni di rivalsa.
Uscendo da un certo mortificante allenismo - autoriale e critico - che spesso (troppo spesso) l’ha imprigionato nella stanca e vuota ripetizione di sé, l'autore ribadisce, come se ce ne fosse bisogno, che il suo cinema ha ancora molto da dire sulla società, sul mondo, sulle forze che muovono il globo e sulla fatiscenza, fragile, generosa e commossa, dell’esistenza umana e delle sue fatue girandole. E Blue Jasmine, oltre a una sceneggiatura di ferro come Allen non ne scriveva da anni e anni, può vantare una regia di sorprendente vigore e una protagonista in grado di sbalestrare e irretire con le sue debolezze e i tremori, le sue lacrime calde e nere e lo Xanax, i suoi Martini e l'eleganza decaduta. La Jeanette/Jasmine di Cate Blanchett, novella Blanche Dubois destinata all’impazzimento, è una principessa logora e detronizzata, che si è ingannata, che ha convissuto con le sue illusioni senza vederle o volerle vedere e ora si ritrova sommersa dal peso instabile di una mistificazione che chiede il suo tributo, come sempre e senza scampo.
Jeanette/Jasmine finisce prigioniera di un monologo condotto da una delle tante gloriose panchine alleniane che in questo caso non può non essere rivolto direttamente a se stessa, schiava di un’esistenza che è deragliata, di un gomitolo di vita che è diventato un groviglio impossibile da dipanare: le cose un tempo chiare ora sono ingarbugliate, il romanticismo è diventano sinonimo di dramma, il sentimentalismo jazz di Blue Moon ha lasciato definitivamente il posto alla convulsione blu elettrico di un’anima sola e perduta, abbandonata a se stessa, tremante come una foglia. 
L’ultimo Allen è una riflessione sulla falsità degli inganni auto-procurati, che stringe il cuore in una morsa e fa malissimo. Un capolavoro di quelli veri, in cui, al di là di ogni richiamo alla tragicommedia, c’è davvero ben poco da ridere.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Blue Jasmine
Anno: 2013
Regia: Woody Allen 
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Javier Aguirresarobe
Montaggio: Alisa Lepselter
Musiche: Christopher Lennertz
Durata: 98'
Interpreti: Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin, Louis C.K., Bobby Cannavale, Peter Sarsgaard

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