“Io sono il cineocchio. Io sono un occhio meccanico. Io sono una macchina che vi mostrerà il mondo come solo una macchina può fare”. Da Dziga Vertov e il suo kinoglaz (cine-occhio), passando per Bunuel e quell’occhio ferito, tagliato come una tela di Fontana, come uno schermo che mette in comunicazione il reale con la sua proiezione cinematografica.
L’occhio come soggetto visivo osservante muta la sua natura in materia osservata. Si trasforma da soggetto guardante a oggetto guardato, uno schermo in cui si riflette la realtà, una realtà fittizia perché riflessa e non reale; proprio come gli automi, corpi più umani dell’umano, ma non umani, un’imitazione perfetta, proiezioni, emanazioni e surrogati, oggetti funzionali all’umano, asserviti ad esso.
Un occhio apre Blade Runner di Ridley Scott, in cui si riflettono i bagliori dei fuochi; un occhio che osserva il mondo in subbuglio ma puntato sull’obiettivo, in un oscuro scrutare.
Le coordinate narrative partono dal testo visionario di Philip K. Dick “Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?” e sono proiettate in un futuro distopico, nella Los Angeles del 2019, in una cornice patinata tipicamente anni ’80, dove un gruppo di androidi di ultima generazione, Nexus 6, fugge dalle colonie extramondo; Rick Deckard (Harrison Ford), ex agente della Blade Runner, è richiamato in servizio per catturare i replicanti e “ritirarli” (ucciderli).
La mdp si muove sinuosa tra i palazzi e le strade bagnate, ora su un asfalto reso vinilico dall’incessante pioggia ora alzandosi in volo, in un cielo notturno illuminato dalle luci al neon dei manifesti pubblicitari, fluttuando sulle note ipnotiche di Vangelis. L’elemento crepuscolare che percorre tutto l’iter filmico non abbandona mai la scena e riaffiora sovente, tra il battito d’ali delle colombe, le lacrime degli androidi, la luce che filtra dalle finestre come schegge di lame, i simbolici origami di carta che scandiscono lo scorrimento del film, o i malinconici giocattoli costruiti da J.F. Sebastian (William Sanderson), asserviti all’uomo per colmare la sua solitudine, amici artificiali assoggettati al loro creatore.
La materia narrativa precipita a un piano soggiacente per lasciare spazio all’incantamento dell’occhio, che si fa sedurre e trascinare in un turbinio in cui le ambientazioni sceniche prendono il sopravvento. In Blade Runner l’andamento rapsodico ha una natura gotica e si muove in atmosfere dark dalle sfumature noir, nell’estetica visiva e nella recitazione degli attori, volti e sguardi struggenti e malinconici che avvertono la presenza della morte come una compagna mai assente e fedele, che aleggia perennemente.
I replicanti sono duplicazioni perfette ma sono destinati a morire; una vita luminosa ma breve. Quando Roy Batty (Rutger Hauer), capo del gruppo dei replicanti, si trova faccia a faccia con il suo creatore, Eldon Tyrell (Joe Turkel), vestito non a caso come un pontefice demiurgo, lo implora: “Io voglio più vita, padre”, ricevendo l’unica risposta possibile: “La luce che arde con il doppio del suo splendore brucia per metà del tempo”.
In spazi fatiscenti e decadenti, che rispecchiano le atmosfere romanticamente rarefatte dei primi anni ’80, grazie anche ai giochi di luce, ai colori materici e ai notturni infiniti, Ridley Scott realizza una fantascienza che si tinge di noir, in un’enfasi visiva estrema che seduce e incanta. È una materia stratificata che non può essere facilmente incasellata in un genere, in cui l’unico protagonista è l’occhio, come soggetto osservante e come veicolo che guida lo spettatore lungo le trame della narrazione.
L’occhio è oggetto del test Voigt-Kampff, effettuato con un obiettivo che registra le emozioni attraverso le reazioni della pupilla, riconoscendo l’umano dal replicante; l’anima si manifesta attraverso le emozioni e sono proprio queste a creare la variazione, la nota stonata, l’imperfezione propria dell’uomo. La mdp di Scott si sofferma sovente sugli occhi, catturandone il bagliore. Quando incontra quelli di Rachel (Sean Young), li dipinge con tenerezza e delicatezza, ignari della loro natura, resi tristi dalla perdita dei ricordi più cari, memorie installate nella mente per regalarle una parvenza di vita, con un passato, un presente e la speranza di un futuro. Roy e Leon si rivolgono a Chew, il fabbricante di occhi, per avere informazioni sulla loro esistenza, e i bulbi oculari, creati per gli androidi di ultima generazione, si moltiplicano sullo schermo, raccolti in contenitori o stritolati crudelmente, in una metafora della moltiplicazione visiva. Nell’incontro con Tyrell, “padre” e artefice degli androidi, Betty, rifiutato, ucciderà il suo creatore proprio affondando le dita negli occhi, privandolo della vista.
L’elemento scopico chiude il film; la vista come primaria esperienza sensoriale e manifestazione dell’esistenza, sento dunque sono, è al centro dello struggente monologo finale di Roy Betty, sotto lo scrosciare di una pioggia inarrestabile che trascina con sé ogni cosa, le lacrime, la vita e i sogni. Le speranze volano via sulle ali bianche di una colomba.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Blade Runner
Regia: Ridley Scott
Sceneggiatura: Hampton Fancher, David Webb Peoples
Fotografia: Jordan Cronenweth
Montaggio: Terry Rawlings, Marsha Nakashima
Musiche: Vangelis
Durata: 117' (The Final Cut)
Anno: 1982
Attori: Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Daryl Hannah
Uscita al cinema: 6-7 maggio 2015