Non è una novità, purtroppo, considerando l’indifferenza generale (per non dire di peggio) che da qualche tempo a questa parte accompagna ogni singola uscita del suo autore. Mann viene preventivamente dichiarato colpevole di un cambiamento che non può essere accettato o perdonato, almeno a detta di molti. C’è stato un tempo infatti in cui sembrava impossibile non gridare al miracolo in maniera assoluta e unilaterale: il superamento del classicismo hollywoodiano di L’ultimo dei Mohicani, l’universo di storie e uomini di Heat – La sfida, il solido dramma di denuncia di Insider – Dietro la verità, unica sua incursione al di fuori dei confini di genere (e incetta di nomination all’Oscar: guarda caso).
Persino l’infinita e sfavillante notte losangelina di Collateral esercitava un fascino dal quale era difficile sottrarsi, almeno in termini di puro piacere della visione. È da Miami Vice, però, che qualcosa sembra essersi incrinato irrimediabilmente nel suo rapporto con la critica e il pubblico, e fa male constatare quanto questo disinnamoramento coincida proprio con l’aumentare vertiginoso di una distanza: quella situata tra il presente – il qui e l’ora – e la direzione verso cui è orientato il suo sguardo. Tra la contemporaneità e il futuro.
Che il cinema di Mann sia da sempre proiettato in avanti non è certo una novità, lo si è capito sin da quei fari che illuminavano la notte nella sequenza di apertura di Strade violente; ma ora che questo moto direzionale si è fatto più frenetico e incalzante, quasi a voler sfidare (anzi, rifiutare) l’incedere del tempo (“time is luck”, “this was too good to last”), ecco, proprio adesso (qui. ora.), si fa fatica a stargli dietro. Guardare avanti significa non rimanere mai gli stessi, e questo Mann lo ha capito sin troppo bene, accettandone consapevolmente le conseguenze. Lo abbiamo accettato anche noi, nel nostro piccolo, subendo di buon grado accuse di fanatismo e di scarsa obiettività, colpevoli di aver messo insieme un’elìte pronta a gridare al capolavoro di fronte a qualsiasi cosa esca dalle sue mani. Colpevoli di (volere? sapere?) vedere, dentro un cinema che vive e respira appunto di questo gesto apparentemente spontaneo, e invece di una complessità inaudita: il vedere.
Si comincia tra le mura di una prigione, esattamente dove finiva Nemico pubblico, per seguire le vicende di Nicholas Hathaway, hacker chiamato a collaborare con l’FBI e il governo cinese per smascherare una pericolosa rete di cyber-terroristi. E questo è un film: uno tra i tanti possibili, seppure – ci dicono – particolarmente fedele alla realtà del mondo della pirateria informatica; fa piacere che ciò venga riconosciuto, ma è importante fino a un certo punto.
Perché poi c’è un altro film, quello vero, nascosto sotto la superficie ma sempre pronto a venir fuori in mille momenti diversi, tutti grandissimi, e bellissimi, e tutti incredibilmente espliciti nella loro portata emozionale. Ci sono gli inseguimenti, è vero, e le sparatorie caratterizzate da quel realismo estremo che oramai è lecito aspettarsi da Mann: ma, più che le pallottole, a ferire maggiormente qui sono i ralenti impercettibili, gli sguardi e gli abbracci, le pause e le ellissi, i corpi che si inseguono, (si) guardano e (s)fuggono.
Tutto il cuore del cinema di Michael Mann risiede nel lavorare all’interno dei generi e del sistema hollywoodiano, cambiandone la struttura dal di dentro, ma lasciandone intatta la natura esteriore di blockbuster, con tutte le conseguenze e le incomprensioni del caso. E quindi Blackhat è un thriller d’azione fallimentare esattamente come Miami Vice era un poliziesco frammentato e incoerente, perché è un cinema che non sembra andare da nessuna parte. Cosa pensare infatti di un plot che vede un hacker galeotto trasformarsi in un poliedrico SWAT, e un villain trasandato come un clochard del quale finiamo per ignorare identità e motivazioni?
Finché non saremo disposti ad accettare che sono le storie a non esistere più, non saremo pronti per Mann e per Blackhat. Finché non riusciremo a scorgere anche solamente dal buco della serratura tutto quel mondo e tutte quelle vite celate dietro un gesto, una battuta, un momento (il grattacielo sfocato negli occhi di Viola Davis, “chi hai perso l’11 settembre?”), custodite a mò di scrigno, non varrà la pena di insistere oltre. Ma se si prova finalmente a guardare, anzi, a vedere, esattamente come ciascun personaggio continua ininterrottamente a fare, con una ostinazione che rasenta l’epica, allora sì, questo sarà un cinema per tutti; perché è talmente gonfio di amore – verso i suoi personaggi, i corpi, la vita – che lasciarlo fuggire via è un gesto di ingratitudine cieco e sconsiderato.
L’Uomo in Blackhat è un essere di carne, occhi e mani che lotta disperatamente per affermare la propria identità in un universo astratto fatto di pixel, numeri e calcoli; corre, all’insegna di un movimento continuo e senza sosta, e diventa invisibile agli sguardi degli altri perché questo è l’unico modo possibile per dimostrare di esistere ancora. Come nella resa dei conti finale durante la processione, una delle sequenze più esplicite di tutto il cinema di Mann, in cui tastiere e pc vengono finalmente messe da parte per lasciare il posto alle ferite e ai coltelli, in mezzo alla folla, senza che nessuno dei partecipanti al rito collettivo si accorga di nulla. Controcorrente, esattamente come il film tutto: consapevole di essere un oggetto in anticipo sui tempi, e quindi pronto a dare quell’ultimo, lungo addio agli affetti e alle cose, prima di svanire in un’immagine sfocata e diventare nulla. Per esistere ancora.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Blackhat
Anno: 2015
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Michael Mann, Morgan Davis Foehl
Fotografia: Stuart Dryburgh
Musiche: Harry Gregson-Williams, Atticus Ross
Durata: 133’
Interpreti principali: Chris Hemsworth, Tang Wei, Viola Davis, Leehom Wang, Ritchie Coster
Uscita italiana: 12 marzo 2015