Dopo l’esordio con il discreto Margin Call, Chandor stavolta sceglie un approccio completamente diverso: se il titolo precedente era in tutto e per tutto un film di sceneggiatura, scandito freneticamente dai dialoghi dei suoi personaggi (al punto da sembrare quasi una pièce teatrale), questa volta il regista rinuncia alla parola. Fatta eccezione per una lettera-testamento, recitata fuori campo all’inizio del film, All Is Lost è un purissimo esempio di cinema muto. Un personaggio solo, unità di luogo (l’oceano, appunto), utilizzo essenziale – quindi bellissimo – del commento musicale: tanto basta a Chandor per vincere la sua sfida. Persino la trama, se proprio si vuole ragionare in questa direzione, è poco più di un canovaccio ridotto ai minimi termini: un uomo costretto a lottare per la sopravvivenza a bordo della sua piccola nave privata, dapprima alle prese con lo scafo danneggiato da un container, poi con la furia incontrollata della natura che lo confinerà in una scialuppa di salvataggio, in attesa dei soccorsi. Non sapremo mai il suo nome, chi fosse o perché si trovasse da solo in quel contesto.
Tutto qua, eppure All Is Lost è anche, se si vuole, un film d’azione: nel senso primigenio del termine, dal momento che la macchina da presa è costantemente incollata sul protagonista e sui suoi gesti, in una lotta disperata contro tutto ciò che lo circonda. Persino il suo passato è un mistero, un aspetto puramente secondario ai fini dell’insieme, perché Chandor trasforma ogni singola azione in pensiero, in epica (quella vera), trasfigurando le gesta del navigatore solitario in una riflessione dal respiro ampissimo e sconfinato, esattamente come gli orizzonti entro i quali si perde l’immagine.
Una riflessione che assolutamente non può scindere dalla scelta del suo protagonista, qui talmente indispensabile al punto che lo si potrebbe quasi identificare come l’autore “in ombra” del film: Robert Redford. Non più solamente un volto, bensì un testimone. Quindi, un sopravvissuto: alla New Hollywood, a un cinema che non c’è più. Al Tempo. Il Jeremiah Johnson di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, quarant’anni dopo, confinato in una dimensione che non può più appartenergli: perché oggi non è più quell’epoca, quel cinema, quel contesto. E Redford lo sa bene: basterebbe pensare alla sua ultima opera da regista, La regola del silenzio, per capire quanto e in che modo questi due film siano intrinsecamente collegati tra di loro, al punto che entrambi potrebbero benissimo essere intesi come il passaggio di testimone tra una generazione e l’altra. Tra padri e figli, tra i protagonisti di un passato scomodo (i “terroristi” della New Hollywood nel film di Redford) e i destinatari di una verità ottenuta attraverso quelle domande che non dovremmo mai smettere di porci.
Ecco il motivo per cui All Is Lost è commovente fino alle lacrime: perché è l’addio di un Uomo (di un Padre?) che sa che è giunto ormai il momento di farsi da parte, perché questo è l’unico modo per proiettare la propria progenie nel futuro. Una preghiera, come l’amen cantato da Alexander Ebert nella stupenda canzone dei titoli di coda, affinché tutto ciò che è stato non vada perduto. E nella tenacia del suo protagonista, nel suo non volersi arrendere dinanzi all’ineluttabile, in quella meravigliosa semplicità di alcuni gesti apparentemente insignificanti (la scelta degli oggetti da portare con sé dentro la scialuppa, l’ultima rasatura), si nasconde tutto un mondo e il suo insegnamento, attraverso una semplicità, un’immediatezza talmente macroscopica che nessuno può permettersi il lusso di ignorare.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: All Is Lost
Anno: 2013
Regia: J.C. Chandor
Sceneggiatura: J.C. Chandor
Fotografia: Frank G. DeMarco
Musiche: Alexander Ebert
Durata: 100’
Uscita in Italia: 6 Febbraio 2014
Interpreti principali: Robert Redford
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