Si schiuma ben evidente la dedizione amorosa per una patria scossa da inarrestabili passaggi epocali, in una visione storicista che la politica apparentemente non sfiora, ma che preferisce farsi antropologica e il più possibile appiccicata al reale.
Strutturato in tre diapositive temporali che spaziano dalla più recente prospettiva di fine millennio a un futuro globalizzato e intercedendo per il presente, Jia suggella le molteplici voci nel verbo della cultura popolare, surrogata così in tre giovani della città di Fenyang, esemplari nella loro estrazione quasi casuale nonché concreti protagonisti della nazione: Tao, Liangzi e Zhang, uniti prima da vicende sentimentali e poi familiari. Ognuno di loro è sovrastato da entità socio-economiche che annullano da una parte prospettive lavorative e individualità, mentre falliranno nello strapparli drasticamente a loro stessi e alla loro identità etnica e geografica.
L’impostazione melodrammatica e minimalista che permea le storie intercettate e solo a tratti incrociate di questi individui fa dei raccordi relazionali sommessi quadri, diluendo l’impatto sentimentale degli snodi narrativi, mentre si rinforza l’idea che siano i paesaggi sterminati, talvolta aridi, nevosi, e le costruzioni secolari a rappresentare lo scheletro imprescindibile in una ipotetica riduzione all’osso dell’opera. Questo perché ultimi baluardi di chi c’è stato e di chi, sfogliando i mutamenti personali come specchio dei destini generali, patisce le intemperie del mondo.
A resistere alla corrosione globalizzante di un capitalismo vincolante, non scelta obbligata ma seducente, c’è Tao, vera madrina e musa della narrazione, che in sé incarna e metaforizza lo spirito di un paese che dopo il crollo delle ideologie cede il passo alle correnti atlantiche non perdendo se stessa. Tao scolpisce il modello di narrazione tripartito anche quando non c’è, miniaturizzandosi e tirando le fila delle vicende, anche attraverso l’abnegazione consanguinea e il prestito all’amico (e antico contendente) Liangzi, ammalatosi a causa delle aspirazioni nocive delle cave di carbone.
Liangzi non è altro che il fratello povero che la Cina ha prodotto e che in patria rimarrà a subirne le spese. Il figlio di Tao, invece, crescerà nella metropoli e si vedrà traghettato dal padre Zhang (corpo plasmante del capitalismo globale, che ribattezzerà l’erede in “Dollar” e sé stesso con un nome anglofono) verso la terra australiana, dimentico della propria lingua natale e persino del nome della madre.
Non sarebbe sbagliato intravederne un discorso critico che dall’estetica cinematografica muove verso le incidenze di un libero mercato avido e arido (in un affastellamento di questioni da sempre care al regista e più volte soggette alla scure censoria), ma ciò che s’affaccia tra le pieghe dei fotogrammi sfuocati e distorti, allucinazioni visive che deformano la limpidità delle immagini e fanno da contraltare lirico, è una profondità di veduta che contrasta l’omologazione degli usi e delle genti e auspica la “glocalizzazione”, mentre celebra e ricorda i residui di una cultura atavica non del tutto destinata a perire.
Non a caso sarà un brano melodico cantonese di successo e la fattura casalinga dei ravioli a ricorrere strenuamente per la sua intera durata, mentre Jia rinsalda la compattezza di una riflessività di concezione acuta e in grado di farsi urlante e sorda insieme, anche attraverso soluzioni formali a rischio di castrazione, riuscendo però a farne fluido per nulla posticcio. Così l’incastellatura nei 4:3 del 1999 e il suo ricalcare le tonalità cromatiche della pellicola passa all’ampliamento del formato 1:85, che apre un presente scosso dalle migrazioni e dalle modernizzazioni (di cui certo Zhang, compagno e poi ex-marito di Tao, rappresenta la speculazione più intransigente), fino al cinemascope di un futuro che può darsi mediante null’altro che il Cinema - e nel suo formato da sempre più ambizioso.
Ma Al di là delle montagne, in tutta la sua qualità terrestre e astratta al contempo, nel suo saper ridurre e amplificare nell’uomo sorti e microevoluzioni universali, è segnato, fin dalle battute d’inizio, dal sentore greve di un occhio che non sa darsi se non nostalgico, che non rinuncia alle proprie tracce di decadenza. Scie, però, fautrici di alterazioni perenni delle quali fare un motivo di speranza ulteriore anche per chi rimarrà tra le lande isolate e lontane, più o meno toccato dalla ricchezza, solo ma resiliente.
Qui sta tutta la duplicità combaciante degli opposti, nella coscienza artistica che il cinema possa essere fotografia di una condizione assoluta di cui prendere atto, come Tao, fiduciosamente. E se a Ovest bisogna andare, ad aprire e a chiudere l’inno dei Pet Shop Boys, sarà il caso di farlo danzando.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Shan he gu ren
Anno: 2015
Regia: Jia Zhang-Ke
Sceneggiatura: Jia Zhang-Ke
Attori: Tao Zhao, Yi Zhang, Jing Dong Liang
Fotografia: Nelson Lik-wai Yu
Musiche: Yoshihiro Hanno
Durata: 131’
Uscita italiana: 5 maggio 2016