Di certo non crediamo che tramite (e per) il film si possa o si debba inevitabilmente ricorrere al compendiario storico per inquadrare atti e pieghe di estrema significazione per la comprensione della qualità del lavoro in sé, ma la necessità di un impegno storico-sociale – certo, spesso egoriferito - imbeve il cinema inglese da sempre (non è poi un caso che il film sia stato finanziato dalla British Film Institute) e quest’opera, di quelle che facilmente si fanno travolgere nella scia dipanata dalle banalità del male a evidenziare sintomi in ogni dove, non fa eccezione. Questo nonostante il film non permetta di ancorarsi ad alcuna colonna portante temporale o didascalicamente pedante. I fatti si stemperano per diventare tracce, emanazioni, atmosfere.
A fare da soggetto i cosiddetti Troubles nord-irlandesi (quelli che nel 1972 condurranno alla celebre Bloody Sunday), guerriglie disordinate e massacri tra gli schieramenti civili protestanti e cattolici, nei quali, a concorrere alla formazione di un triangolo più disorganico che razionale, si inseriscono le truppe britanniche ad arginare sommosse, ma più spesso a difendere il proprio party e ad eccedere in maltrattamenti di civili per sfilare loro gli armamenti. E in questo caos sporco di ambigue scurrilità, di “bastardi fenoniani” e di ragazzi rattrappiti dall’emulazione di un arroccamento politico, un uomo, un soldato, uno sguardo, un ficcante Jack O’ Connell a interpretare uno sperduto Gary Hook che non pensa, che subisce, e quindi agisce, attanagliato da serpenti esterni che gli si appiccicano in un escalation mortale che perde presto i connotati di war-movie per diventare un thriller noir silenzioso ed esemplare, senza particolari guizzi né avvallamenti inefficaci. Incidentalmente abbandonato dai propri commilitoni durante i disordini diurni, inseguito, ferito, fortuitamente scampato a un incendio, curato e poi ancora ricercato da una debole British Army, ma soprattutto dai ribelli fondamentalisti semi-organizzati che lo vogliono morto, nel deserto notturno di una città-apparizione, egli si perde.
Il filtro soggettivo veicolato da Gary Hook, protagonista più lente deformante che eroe a tutto tondo, è infatti soltanto l’occasione per inscenare (forse rivivere e riscrivere) una parte di storia britannica personalissima – lo deve essere – con tensione documentaria spesso spiegata verso un eccesso di aderenza, tale da renderla troppo osservabile da vicino, troppo sovraesposta affinché si possa attivare un atteggiamento di distacco di fronte ad essa. Tutt’altro: è vivido, ma impalpabile, questo regno dei morti interiore.
È importante che il soldato inglese, pur non mancando di valore e di coraggio (è, insomma, un buon english man) e a cui accade praticamente di tutto, non abbia, d’altra parte, alcuna idea della situazione politica nella quale egli stia operando, e ordinare, restringere le insurrezioni civili cattoliche è, di per sé, materia insufficiente affinché possa spiegare a se stesso il motivo di tanta ostinazione, accanimento, ferocia nei suoi confronti. Sarebbe, dunque, il perfetto (inutile) sacrificio di sangue, quello di un uomo che degli spettacoli pirotecnici pubblico-politici non ha considerazione, né interesse. Gary Hook è null’altro che un occhio pulito, neutro, ingenuo e vergine attraverso il quale un altro occhio (il nostro) è portato a carpire l’insensatezza, l’inutilità di un’ambigua e fangosa terra di scontri fatti di niente, che non ha nulla da dispiegare se non se stessa.
Il passo da una registrazione cronachista a un’iperbole di sur-realtà, si capisce, è breve: Belfast non è più una città (se mai lo è stata). Essenzialmente non è. La mdp rimane ancorata all’asfalto, ci sosta e si dilunga a guardarne la texture, per poi alzarsi ad annegare nella polvere di uno scenario dislocato e omogeneo di una topografia urbana scacciata a forza dagli incendi, dalle morti, dalle fiamme; eppure nulla di tutto ciò è materico, riconoscibile, annullandosi anch’esso nell’agglomerato paglierino informe, ove Hook deambula, già morto-vivente, perdendo tracce del reale, inghiottendo, assimilando quel grumo cocente.
Questa Belfast è, anzitutto, un luogo mentale. Quello dell’uomo inglese medio che, nella sua paura dell’atroce, sa che si è perso tutto, ancora una volta, e che vivere non è un opzione, è solo un dovere, quello di arrivare alla fine, senza credere. E fuori, schieramenti, parti, operazioni militari, bande giovani para-delinquenziali, bambini carnefici nutriti di odio assorbito dagli imbonitori loro padri; tutto finisce per mescolarsi in un magma aureo e indefinito di voci già udite ed emulate, di nemici in un campo minato senza numeri, né indicatori, né bianchi riquadri. E, soprattutto, ove ogni voce va ammutolita, ogni evento atrofizzato, ogni ipotetica resa di giustizia lasciata cadere in pasto a chi saprà meglio occultarla.
Ancor più che Burke, a sceneggiare, forse mancando di affondare i propri strumenti in una significazione interiore più articolata, e perdendo parte della sua efficace ariosità in una risoluzione finale stilizzata e avulsa dal respiro più immateriale dell’opera, Yann Demange, a colpi asciutti, essenziali, senza batter ciglio di fronte a un dispiegarsi tanto crudele, allestisce una regia calibrata, sicura, lasciandosi volentieri annientare dall’inferno di impronte umane che vanno disperdendosi tra i vicoli di mattoni rossi, tra gli autobus inceneriti, nei cromatismi di una notte erta a simbolo di perdita del proprio sé (se mai è dato conoscerlo e conoscersi), tra strade luciferine, tra gli inferni di altri dove.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Yann Demange
Sceneggiatura: Gregory Burke
Interpreti: Jack O’ Connell, Paul Anderson, Sam Reid, Sean Harris
Anno: 2014
Durata: 99’
Fotografia: Tat Radcliffe
Musica: David Holmes
Uscita italiana: 9 Luglio 2015