Costretto progressivamente a piegarsi in se stesso e ad accettare la perdita non solo della libertà, ma della dignità di essere umano, Solomon è trascinato in un universo parallelo alla realtà che ha sempre vissuto. È un viaggio all’inferno che conta diversi gironi tra le zone buie della storia americana, fino a un prevedibile ma agognato epilogo.
Questo è il racconto. La schiavitù, nuda e cruda, senza preamboli o poetiche digressioni sull’America e gli americani. Un giorno sei libero. Il giorno dopo sei chiuso in un baule. Perché? Non importa sapere. Steve McQueen adotta la prospettiva dell’uomo libero che smette di possedere la propria vita, un essere umano spogliato perfino della propria natura. Il regista catapulta Solomon in un buco nero dal quale la riemersione sembra non dover avvenire mai. Un dislocamento straziante e traumatico, una discesa progressiva nell’indicibile olocausto americano.
Steve McQueen non è interessato al film didattico e dà per scontato che tutti sappiano la storia degli schiavi d’America. Si concentra invece sulla vicenda piccola e umana del protagonista, qui elevata a storia collettiva e pertanto enfatizzata. Unica digressione sull’infernale esperienza, che si snoda su un unico registro registico e interpretativo, è la varietà di personaggi che intrecciano il cammino di Salomon: il rampollo sadico (Paul Dano), lo schiavista umano (Benedict Cumberbach), il padrone perverso (Michael Fassbender) con la schiava concupita (Lupita Nyong’o) e la moglie frigida (Sarah Paulson), l’uomo illuminato (Brad Pitt). Tali figure sono così marcatamente definite da diventare archetipi della tradizione culturale, storica e letteraria nonché visiva della stessa schiavitù.
La Lousiana è il teatro principale della narrazione, campo sterminato di naturale bellezza e paesaggio dell’orrore. Sean Bobbit, direttore della fotografia, e Steve McQueen compiono la scelta di esibire la violenza e rappresentare la degradazione umana attraverso la sopraffazione dell’altro. Nessuna forbice salva lo spettatore dalla frusta, dal sangue, dal rumore secco delle ossa rotte, dal respiro della vita che viene sputata via quando lo schiavo alza la testa. La storia di Solomon è un simbolo, lui è la storia nascosta degli Stati Uniti moderni, che devono sempre rivolgere lo sguardo al passato per capire come andare incontro al futuro.
Le atrocità messe in scena diventano una forma di edificante intrattenimento, scrive Cinema Scope: obiezione legittima. Se mostrare la violenza risulta necessario nell’impianto del film, McQueen tende a puntare su una rappresentazione dell’orrore così puntuale e diligente da arrivare al manierismo. Non c’è compiacimento, ma la mancanza di tensione narrativa si fa sentire, in quanto latitano il senso e l’intenzione più profonda delle azioni e delle motivazioni, in un film che finisce col proporre una – pur toccante - carrellata di immagini sull’abiezione umana.
Trascurando il contenuto per favorire una esasperazione della forma nella cornice storica, McQueen scavalca il didascalico script di John Ridley per arrivare a una illustrazione rigorosa, sanguinosa e pop. Siamo comunque lontani dall’epica postmoderna di Django Unchained; con il capo chino e il senso di colpa assistiamo a una costante serie di vessazioni, soprusi, violenze fisiche e psicologiche. Chiaramente McQueen compara la schiavitù all’Olocausto: il suo obiettivo è trasformare la storia di Solomon in parabola, e il suo occhio british tocca le corde degli americani, sempre in cerca di qualcuno che li metta sul bando degli imputati e quindi portati a premiare 12 anni schiavo come film dell’anno, non si sa se per lavarsi la coscienza o per pura passione.
Siamo di fronte a un prodotto di ottima fattura, ma che di fatto nulla aggiunge alla cinematografia sulla schiavitù. Rimangono invece le interpretazioni di Chiwetel Eijofor (teatrale, controllato, dolente, bravissimo nella gestione dello spazio scenico) e Michael Fassbender, il solo elemento autentico in un affresco storico dal taglio moderno ma anche artefatto. L’attore di Shame torna con McQueen a esplorare la perversione. Calato in un personaggio al limite dello stereotipo del cattivo con la frusta, Fassbender recupera da quel film il tema della sessualità maschile, e disegna il penoso ritratto di un uomo abietto ma anche impotente di fronte alle donne come al potere. Un debole con le mani sporche di sangue, che può solo guardare il suo misero regno scivolare via al disperato richiamo della libertà.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: 12 years a slave
Regia: Steve McQueen
Sceneggiatura: John Ridley, dal romanzo "12 anni schiavo" di Solomon Northrop
Fotografia: Sean Bobbitt
Montaggio: Joe Walker
Durata: 134'
Anno: 2013
Distribuzione italiana: 20 febbraio 2014
Attori: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Lupita Nyong'o, Paul Dano, Benedict Cumberbatch, Brad Pitt, Alfre Woodward, Sarah Paulson