ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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ANANKE - Cronache dal mondo del dopo

17/4/2016

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​Come nel bellissimo e misconosciuto Fine Agosto all'Hotel Ozon di Jan Schmidt, il mondo del dopo riflette le sue cicatrici in una natura arida, selvaggia, resa ancor più tale in questo caso dal formato Super-16, che sgrana le inquadrature e sfuma i contorni degli spazi, minimizzando l'impatto degli scorci che diversamente potrebbero apparire lussureggianti. 
Fra le fronde del bosco “buio e silenzioso” in cui si rifugiano i due sopravvissuti di Ananke aleggia infatti un perenne senso di morte, che non è soltanto il riflesso di un mondo sconfitto dalla pandemia che spinge al suicidio ogni uomo che tenti di stabilire un contatto con il suo prossimo: è una sorta di condizione esistenziale, la solitudine “dura e necessaria” che la protagonista evoca nelle sue lettere-monologo a una madre di cui non ha più notizia.
​
Le lusinghe con un possibile genere fantasy, però, si fermano qui, e spianano la strada a un dramma umano che cerca, nel rigore a tratti un po' forzato delle sue inquadrature, una possibilità espressiva in grado di riflettere ed elaborare il vuoto interiore di un'umanità che ha esteriorizzato la sua incapacità di stare al mondo. Per questo le azioni appaiono una vuota coazione a ripetere gesti essenziali: muoversi, mangiare, dormire. L'obiettivo è la mera occupazione di uno spazio d'adozione, dopo aver perso quello d'origine, e allora Ananke lascia parlare il resto, le mura fatiscenti, la natura che potrebbe apparire soverchiante ma si ritrova invece contorno, dimessa e muta partecipe della solitudine.
L'intento è quello di un cinema semplice nelle sue forme, aperto a una possibile fruibilità anche universale, che possa così fare a meno del dialogo: sebbene non sia un film propriamente muto, le poche parole pronunciate dai protagonisti in un francese un po' fittizio (l'orecchio allenato può percepire non trattarsi di due madrelingua) restituiscono un senso di alterità, di un superfluo, orientato nei casi migliori – come le già evidenziate lettere alla madre – a un orizzonte altro rispetto alle quattro mura o gli spazi circostanti la casa-rifugio.
In tutto questo, i possibili punti di fuga sono rappresentati dagli elementi vivificatori, l'eponima capretta Ananke (da cui i due personaggi traggono il latte utile a sopravvivere) o la bambina che la donna porta in grembo. Ma entrambi sono anche elementi di risonanza del dramma, catalizzatori di possibilità che i due protagonisti sembrano quasi sfuggire: il che porta naturalmente a chiedersi se di fuga per la vita realmente si tratti per i personaggi, o piuttosto di un crogiolarsi in una vuotezza dell'anima anche un po' cercata. Una sorta di terapia che diventa però immersione nel proprio ventre oscuro. Come quelle lettere inviate a una madre che in fondo si teme (si sospetta?) già morta. O quella bambina data infine alla vita e subito abbandonata, per timore di instaurare un legame che potrebbe essere foriero di altra morte, e che riapre così il gioco di disperazione alla base della storia. 
La risposta sta nell'elaborazione finale, affidata a un lirico e vibrante dettaglio degli occhi della donna, bagnati dalle ultime lacrime.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Regia: Claudio Romano
Sceneggiatura: Claudio Romano, Elisabetta L'innocente
Attori: Marco Casolino, Solidea Ruggiero
Fotografia: Juri Fantigrossi
Montaggio: Ilenia Zincone
Durata: 69’
Anno: 2015

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TELLURICA - Racconti dal cratere

1/4/2016

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​Terremoto. Il momento, la sorpresa, la paura. E poi, soprattutto, il dopo: le macerie, la ricostruzione, le case in cui non si può o non si vuole più entrare; i danni, i resti, i segni destinati a rimanere indelebili, agli occhi e nel cuore; le parole, le televisioni, le radio; la solidarietà, la forza, gli affetti, le lacrime; le conseguenze, materiali e morali, collettive e individuali. 

Tellurica è un progetto realizzato da Sisma Emilia, collettivo nato poco dopo il terremoto che nel maggio del 2012 ha colpito l'Emilia Romagna. Un film composto da dieci cortometraggi, di varia lunghezza e diretti da dieci diversi autori, con i quali portare sullo schermo idee, sentimenti, metafore, rappresentazioni di alcune tra le tante dolenti sfumature che colpiscono chi è testimone diretto di eventi così terribili. 
Un lavoro bello e prezioso, quello coordinato da Matteo Merli, nel quale i diversi punti di vista sanno trovare un ottimo equilibrio e una apprezzabile coesione, allontanandosi dallo sfilacciamento stilistico che spesso accompagna i film realizzati a più mani. Un contenitore toccante ma deciso e concreto, che mette in scena i giorni e i mesi successivi al sisma emiliano facendosi però portavoce universale di sentimenti e reazioni che possono accadere ovunque e a chiunque, in simili occasioni.
Dieci cortometraggi, mediamente notevoli, alcuni ottimi, tutti accomunati dal desiderio di mostrare ciò che nei telegiornali raramente si vede; non tanto le immagini del disastro, spesso assenti eppure presenti perché lì, sullo sfondo e nelle anime dei personaggi, quanto piuttosto i postumi psicologici dell'evento, talvolta intrisi di speranza e voglia di combattere, ma in molti casi anche imbevuti di timori e ferite di difficile cicatrizzazione.

Allora, eccoli, i singoli episodi, abili a formare un insieme omogeneo e coinvolgente, a partire dal breve e bellissimo corto iniziale, 404 Time not found, in cui una coppia, in silenzio, cena guardando i TG che raccontano il terremoto avvenuto poche ore prima, e poi sempre in silenzio va a dormire, limitandosi a un dolce gioco di sguardi che spiega più di mille parole. A seguire You had to be there, che unisce il dramma emiliano con quello avvenuto a L'Aquila nel 2009, per stabilire subito il carattere non solo locale bensì globale dell'operazione filmica. 
Giungono poi Il respiro del gigante, in cui un senzatetto trova rifugio in un bosco, per poi inveire contro la Madre Terra, chiedendole e chiedendosi perché abbia “scelto” di portare proprio in quel luogo il suo ruggito mortale; Lettere dal fronte, piccola favola ad altezza di bambino, in cui il giovane protagonista immagina il terremoto e ciò che viene dopo come una guerra, da affrontare sotto assedio ma con determinazione e spirito di resistenza, chiedendo aiuto e sostegno ai propri coetanei; Happy Birthday Rovereto, brevissimo ma efficace, dove si alternano immagini di un clown triste e immobile posizionato davanti a spazi una volta pieni di vita e ora desolatamente asettici; Shell Shocks Radio, l'apice dell'opera, in cui si analizzano gli effetti del terremoto nella mente di molte persone, attraverso la triste storia di un uomo che ha il terrore di mettere ancora piede dentro la propria casa, nel timore di sentire altre scosse, e per questo vive e dorme in macchina, giorno e notte, entrando nell'abitazione solo per piccolissimi e indispensabili momenti, salvo poi scappare fuori al primo vago rumore sospetto, in una sorta di infernale paranoia che trova attimi di quiete e normalità solo ascoltando alla radio le partire di calcio della Nazionale, unico appiglio per fuggire dallo shock post-traumatico che lo perseguita.

Coesione, si diceva; in Tellurica si ha la sensazione di trovarsi dentro a un lavoro che sa essere fortemente unito, pur non mancando ampie variazioni stilistiche e narrative, come in Wang, in cui un uomo cinese ricorda e omaggia uno dei propri figli, morto nella polvere dopo aver vissuto un'esistenza breve e invisibile (la didascalia finale ci rivelerà il perché), e in 4:04, girato con la tecnica dell'animazione, in cui una donna alterna presente e passato, ricordi e commozione.
La conclusione del film è affidata a due corti ancora una volta apprezzabili: L'occasione, tratto un fatto realmente accaduto, in cui una coppia torna a casa dopo una vacanza, appoggia sul tavolo una bottiglia di buon vino, decide di non berla subito perché “è meglio aspettare l'occasione giusta”, e poi, quella stessa notte, si ritrova la stessa bottiglia infranta sul pavimento a causa del terremoto, e L'Anniversario, in cui una donna viene avvisata della sparizione del padre, lo cerca vagando in un paese dove ancora a ogni angolo si vedono i segni della tragedia, e infine lo trova, nello spiazzo dove una volta sorgeva la loro casa, silente e malinconico davanti al vuoto e all'assenza. 

Quest'ultimo episodio, in cui compare Roberto Herlitzka, ben riassume il senso di un progetto nato, cresciuto e concluso con intelligenza e abilità, durante e dopo la lavorazione (i ricavati di molte proiezioni pubbliche sono infatti stati destinati a progetti per la ricostruzione). Un film prezioso, utile a chi ha vissuto simili momenti ma anche a chi per sua fortuna non li ha vissuti mai. Prezioso per lottare, aiutare, provare a capire. O semplicemente per non dimenticare.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Eurocinema

A questo link è possibile visitare il sito del Collettivo Sisma Emilia

Per chi volesse acquistare il Dvd del film, è sufficiente scrivere al seguente indirizzo mail: [email protected]


Scheda tecnica

Registi: Francesco Barozzi, Carlo Battelli, Roberto Cavana, Giuseppe Ferreri, Domenico Guidetti, Marco Maselli, Mirco Marmiroli, Emanuele D'Antonio, Corrado Ravazzini, Nicola Xella.
Produzione: Collettivo Sisma Emilia
Anno: 2014
Durata: 80'

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THE SECOND CLOSET - Punto di rottura

25/1/2016

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​Miki vive con la compagna Anne. La loro storia d'amore è giunta ormai al capolinea, non perché sia venuto meno il sentimento che le unisce, ma a causa dei continui soprusi che Miki è costretta a subire. L'attrazione morbosa di Anne nei confronti della partner sfocia infatti in attacchi di gelosia ed episodi di violenza, fisica e psicologica, che mirano ad annientarne la personalità e la volontà. Quest'ultima infatti sopporta in silenzio, spinta da una sorta di masochismo che le impedisce di separarsi dalla donna amata. 
Il ritmo incalzante del cortometraggio The Second Closet racconta in pochi minuti l'evolversi della relazione amorosa tra le due giovani fino alla sua dolorosa disintegrazione. Ricordi del passato, sequenze oniriche, ricatti e lividi sulla pelle si fondono in un'unica dimensione fino a che Miki torna a prendere di nuovo coscienza di sé.
​Supera così l'idealizzazione del rapporto di coppia, ne affronta il fallimento e comprende di essere rinchiusa in una gabbia. Miki però è ora in grado di compiere scelte consapevoli. E decide di lasciare Anne e riprendersi la propria vita. Trova il coraggio di aprire la porta di casa e di richiuderla dietro di sé. Un gesto banale che vale la libertà.

Il cortometraggio è stato diretto da Sara Luraschi e Stefania Minghini Azzarello. La storia si è sviluppata sulla base di numerose testimonianze raccolte dalle registe, che hanno così voluto denunciare un tema scottante che è ancora un tabù: la violenza domestica tra donne. Il film cerca di evitare gli stereotipi, analizzando invece le dinamiche che finiscono per distruggere la relazione tra Miki e Anne. The Second Closet, visibile online nella sua integrità e già proiettato in diversi festival, è stato realizzato all’interno del progetto Bleeding Love, finanziato dal programma europeo DAFNE, nato appunto con lo scopo di prevenire la violenza domestica contro lesbiche, donne bisessuali e transessuali nei Paesi dell'Unione Europea. 

A questo link è possibile vedere il film.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Second Closet
Anno: 2015, Italia
Regia: Sara Luraschi, Stefania Minghini Azzarello.
Sceneggiatura: Sara Luraschi, Stefania Minghini Azzarello.
Montaggio: Sara Luraschi 
Musica: Costanza Bortolotti
Fotografia: Andrea Zanoli
Durata: 15'
Interpreti principali: Stefania Minghini Azzarello, Nicole Guerzoni, Tony Allotta.

The Second Closet - trailer from Lab 80 film on Vimeo.

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LA MEMORIA DEGLI ULTIMI - Per non dimenticare

11/6/2014

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«Ci sono navi dirette verso molti porti, ma nessuna verso dove la vita non dolga, perché non si può sbarcare nel porto della dimenticanza. Tutto ciò è accaduto molto tempo fa, ma la mia pena è più antica». 
Scriveva così Fernando Pessoa in “Una sola moltitudine”, e noi vogliamo parlarvi de La memoria degli ultimi di Samuele Rossi perché questo film e i suoi protagonisti non vogliono e non possono finire nel porto della dimenticanza.
Loro – Ermenegildo Bugni, Umberto Lorenzoni, Giorgio Mori, Germano Pacelli, Massimo Rendina, Giorgio Vecchiani, Laura Francesca Wronowska – fanno parte di quella moltitudine che ha dato vita, corpo, anima e sangue alla Resistenza partigiana. La testimonianza di chi ha vissuto quegli anni vale molto più di un mero capitolo scritto sui libri di storia; a scuola si arriva a malapena a questi anni, si esaurisce in poche lezioni la Seconda Guerra Mondiale seguendo il programma ministeriale e tutto sembra fermarsi lì.
Il documentario di Samuele Rossi affronta con acutezza questo risvolto collegando con un filo rosso ideale due momenti: da un lato una successione delle celebrazioni dell'Anniversario della Liberazione svoltesi nei vari anni; dall'altro un servizio del TG1 in cui la gente intervistata non era spesso in grado di spiegare quale valore avesse il 25 Aprile. Va detto per chiarezza che nella costruzione drammaturgica non c'è un j'accuse, bensì un interrogarsi e interrogarci scegliendo di mettersi a servizio di alcuni tra gli ultimi partigiani viventi, i quali peraltro non si sentono affatto “ultimi”.
Durante il Neorealismo questi avvenimenti erano appena accaduti per cui c'erano una coscienza e un sentimento diversi; si sono succeduti tanti lungometraggi e documentari (questi ultimi soprattutto in ambito televisivo) fino ai giorni nostri, e magari verrebbe spontaneo chiedersi perché realizzare ora un nuovo film sui partigiani. La memoria degli ultimi però è con i partigiani: non ci sono semplicemente delle interviste, ma si viaggia grazie a loro lungo il filo della memoria per non perderla; è un andare a ritroso emotivo e fisico.
Come un cerchio che si chiude, l'incipit del doc si ricollega alla fine, aprendo però uno spiraglio verso quell'orizzonte che chiama in causa noi. Le pagine della Storia sono scritte dalle storie di uomini comuni che non vogliono essere chiamati eroi, uomini capaci anche di riconoscere limiti ed errori della Resistenza; ma per quanto possano esserci teorie revisioniste che danneggiano la memoria storica, «nessuno potrà negare che la Resistenza ci ha reso liberi».
La cifra di Rossi sta proprio nel rifuggire da un approccio didattico o revisionista, cercando di far connettere i diversi tasselli a chi ha vissuto sulla propria pelle il movimento partigiano. Ermenegildo, Umberto, Giorgio, Germano, Massimo, Giorgio, Laura e Francesca si svelano man mano che i ricordi riaffiorano, attraverso cicatrici che probabilmente non si potranno mai più rimarginare, forse anche a causa nostra, in quanto li facciamo sentire come «uno che non esiste più», come reduci di qualcosa che è stato e di cui non si ha concreta memoria.
Il regista toscano si approccia a ognuno di loro delicatamente, senza creare situazioni dalla lacrima facile; si fa guidare dai sette in questo percorso, ed è merito dello sguardo intimo se i fatti e le emozioni sgorgano naturalmente e la macchina da presa è lì, pronta a fare la radiografia dei sentimenti senza spettacolarizzarli. Quei primi piani, queste storie individuali fanno parte di una moltitudine costituita da persone di differente estrazione sociale, ma con un unico obiettivo, la libertà, e in un'ottica di autenticità e rispetto per il passato scorrono le foto dei morti (anche quelle più crude) senza che si opti per una colonna sonora che accentui quello che è già forte di suo.
«Tu che cosa fai per difendere la mia onorabilità, del perché io sono morto?»: è incredibile che sia chi ha già combattuto per se stesso e per gli altri a chiederselo, a sentire dentro di sé la domanda di chi, invece non c'è più. Le parole di questi uomini e della donna dalla schiena dritta lasciano un segno in chi le ascolta; ci si rende conto della loro “normalità”, di quanto abbiano provato paura e si siano anche innamorati. Noi non sappiamo cosa significhi avere nostalgia di un abito pulito perché si è da più di un mese in mezzo alla neve a combattere, possiamo solo percepirlo se non chiudiamo gli occhi verso il passato. In un continuo nesso col presente (che si fa sempre più forte verso la conclusione) cogliamo la loro amarezza per la situazione in cui siamo, per la diffusa mancanza di consapevolezza e per la paura che tutto cada nell'oblio.
Una nota di valore va anche alla cura della fotografia, ben calibrata in base ai momenti, assecondando ora l'afflato e il mistero dei paesaggi ora le emozioni.
«Solo l'arte è utile. Fedi, eserciti, imperi, atteggiamenti: tutto passa. Solo l'arte resta, e per questo l'arte si vede: perché dura» (da Fernando Pessoa, “Il poeta è un fingitore”). Ecco uno dei motivi per cui ha senso raccontare al cinema queste storie.

Maria Lucia Tangorra

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: La memoria degli ultimi
Anno: 2013
Regia: Samuele Rossi
Sceneggiatura: Samuele Rossi
Fotografia: Maria Rosaria Furio
Montaggio: Filippo Montemurro
Colonna sonora: Giuseppe Cassaro
Durata: 75'

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IL GRANDE SILENZIO - La struttura del cristallo

28/3/2014

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Giunto al suo settimo western (1), Sergio Corbucci possiede una tale padronanza del mezzo cinematografico e del genere del quale egli stesso ha contribuito a tracciare le coordinate fondamentali, da potersi concedere di giocare con gli archetipi, i temi e le tipologie di personaggi da lui stesso creati, destrutturandoli dall’interno e approdando in tal modo a un’opera unica, un universo diegetico anomalo, poetico e crudele, malinconico e ferino.
Il grande silenzio è girato nell’inverno del ‘67 sulle Dolomiti ampezzane, che hanno il compito di raffigurare le montagne dello Utah (si potrebbe trattare dei Monti Wasatch, più che delle Montagne Rocciose (2), che interessano solamente in via marginale i confini orientali dello stato), ma l’ambientazione americana è ancora una volta, come nel caso della grande maggioranza dei western italiani, un pretesto per giocare col genere fondativo del racconto cinematografico statunitense e per rielaborarne e contaminarne i temi, gli assunti, il linguaggio, gli archetipi fino a renderli irriconoscibili o completamente stravolti.
Lo spazio ambientale risulta, a un tempo, aperto e immenso, ma anche claustrofobico e labirintico: un’immensa struttura cristallina raggelata e raggelante, all’interno della quale si muovono con estrema lentezza e fatica – quasi a enfatizzare la lunghezza dei percorsi e l’incolmabilità delle distanze – senza vie di uscita, dei relitti umani costretti dalla legge all’esilio in quei luoghi desolati, mentre le montagne innevate incombono da vicino, oppure chiudono l’orizzonte da lontano e, con esso, qualsiasi possibilità di fuga (3).
I padroni assoluti di questi luoghi, dell’immenso cristallo ghiacciato, sono i cacciatori di taglie capitanati dal crudele Tigrero (un Klaus Kinski quanto mai in parte). Nei boschi e nelle vallate si muove però anche una figura solitaria, che sembra provenire dall’esterno del cristallo e che vi entra senza remore o paura. È un pistolero che tutti i bounty killer temono: si fa chiamare Silenzio (Jean-Louis Trintignant). Il paesaggio, oltre a tratteggiare l’atmosfera algida e plumbea che conferisce tono e spessore alla vicenda narrata, si configura come spazio mentale e allucinatorio, luogo ai confini della realtà, dove quest’ultima tracima nell’incubo e dove i personaggi sembrano muoversi come automi privi di meta o, meglio, come animali selvaggi in gabbia, prede delle loro pulsioni e bisogni primari, o del loro tragico destino, e quasi tutti privi della scintilla dell’umano.

1) È l’ottavo, in realtà, se si prende in considerazione anche Massacro al Grande Canyon, del 1964, iniziato peraltro da Albert Band (aka Alfredo Antonini).
2) Nel 1992, Renny Harlin e Sylvester Stallone gireranno per intero gli esterni del loro Cliffhanger (ambientato sulle Rocky Mountains) proprio sulle Dolomiti ampezzane, considerate più scenografiche: quando gli italiani fanno scuola, storia (del cinema) e geografia.
3) Non è la prima volta che Corbucci chiude i suoi personaggi all’interno di un ambiente inospitale e, soprattutto, senza vie d’uscita: basti pensare alle sabbie mobili (e all’esile e pericolante ponte che le sormonta) che bloccano il passaggio per e da Tombstone in Django (1966).

Dopo la sequenza iniziale, in cui viene presentato Silenzio, la sua abilità con la pistola (estrae per secondo e spara per primo con la sua Mauser) e la sua collocazione attanziale come protagonista, in quanto difensore degli oppressi, cioè dei desperados che vivono sulle montagne in attesa dell’amnistia, la vicenda trova il suo fulcro nella cittadina di Snow Hill, il centro del cristallo. È qui che si incroceranno le strade dei personaggi principali e che si compiranno i loro destini.
A Snow Hill il potere economico, giudiziario e decisionale è rappresentato dal viscido Pollicut (Luigi Pistilli), usuraio e giudice di pace, di fatto un mandante e un finanziatore dei cacciatori di taglie. È tramite l’uso che egli fa del suo denaro che si compiono le sorti dei malcapitati abitanti della cittadina, costretti alla povertà, conseguentemente all’illegalità e quindi all’esilio forzato sulle alture innevate (gli uomini), oppure alla solitudine, all’attesa e ai soprusi dei bounty killer o di Pollicut stesso (le madri e le mogli dei ricercati). A Snow Hill vive anche Pauline (interpretata dall’attrice nera, allora semisconosciuta, Vonetta Mc Gee, un vero e proprio colpo di genio di Corbucci, che le affida la parte della figura femminile principale e un personaggio di donna sfaccettato e tragico, cosa rara per il western italiano), vedova di un uomo ucciso da Tigrero e ansiosa di compiere la propria vendetta.
L’assenza della legge nel piccolo centro sembra poter essere colmata dall’arrivo dello sceriffo Gideon Corbett (Frank Wolff), mandato dalle autorità centrali per ripristinare l’ordine in attesa della fantomatica amnistia. Corbett, pur sembrando impacciato, goffo e apparentemente un po’ tonto, in realtà è un buon pistolero, un uomo onesto e non è uno stupido. Capisce subito qual è la realtà di Snow Hill e ne prende le distanze, cercando di svolgere al meglio il proprio lavoro. Esattamente come gli altri sceriffi dei western precedenti e successivi di Corbucci, è un uomo probo, un guardiano della legge senza tentennamenti né dubbi, calato in un mondo primitivo, selvaggio e per molti versi pre-umano, in cui l’unico codice riconosciuto è quello della predazione. Il suo rigido atteggiamento di detentore delle regole, implicitamente ancorato a una concezione del mondo monolitica e ottusa, costerà caro a lui e ad altri, come vedremo.
Nella struttura del cristallo non vi è spazio per la speranza, il riscatto o la catarsi – punto questo di totale rottura con la produzione western corbucciana precedente e anche successiva, a parte forse I crudeli (1967) – dato che in essa si può solo entrare, mai uscire, e dove il destino di ogni personaggio (a parte ovviamente la demoniaca figura di Tigrero) appare dolorosamente segnato e legato da un filo rosso con quello degli altri. Ecco perché Silenzio, nonostante la propria abilità, non ne uscirà vivo: egli è lì a Snow Hill per il volere del Fato, che si incarna nelle figure di Pollicut, Pauline e Corbett. Ognuno di loro vincola infatti gli altri personaggi portanti della vicenda alle proprie scelte e comportamenti, innescando la reazione a catena che farà precipitare gli eventi. Silenzio per primo sarà risucchiato in questa spirale mortifera.

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Da un flashback si apprende che Pollicut, un tempo cacciatore di taglie, è l’uomo che ha massacrato la famiglia di Silenzio, mentre egli era ancora un ragazzino; non contento, per impedire al ragazzo di testimoniare, gli recide le corde vocali: da qui il soprannome del protagonista. Forse il pistolero muto è a Snow Hill anche per lui, per completare una vendetta in parte già accaduta. In un altro flashback si racconta, infatti, di come Silenzio adulto, dopo aver massacrato i sodali di Pollicut, non uccida il miserabile, ma si limiti a sparargli al pollice della mano destra, rendendogliela di fatto inservibile (4).

4) Metodo di neutralizzazione dei propri avversari che Silenzio utilizza anche altrove, nel corso del film, e che costituisce un segno distintivo del suo modo di operare nonché della sua “etica professionale”.

È un messaggio di Pauline, comunque, a far giungere il protagonista nella cittadina. La donna vuole vendicare l’uccisione del marito e solo Silenzio pare in grado di attuare il contrappasso: la sua fama di vendicatore degli oppressi risplende nel cristallo. Infine, sono tre scelte decisive ed esiziali compiute dallo sceriffo – ancorché in buona fede, e, forse, per questo ancor più marcatamente espressione di un destino tragico e ineluttabile – a innescare il rovinoso e meccanico procedere degli avvenimenti verso la catastrofe: durante un confronto fra Silenzio e Tigrero, di fatto impedisce al primo di liberarsi definitivamente dell’avversario, arrestando il bounty killer; successivamente dà ordine agli abitanti della cittadina di approntare un carro di viveri per i desperados, in modo tale da sfamarli e tenerli buoni fino all’amnistia, nonché per scongiurare ulteriori violenze; infine, decide di scortare, da solo, Tigrero ad una prigione più sicura. Durante il tragitto però Tigrero, con uno stratagemma, lo inganna e lo uccide. La libertà del vile individuo è l’inizio della fine.
Silenzio, intanto, ospitato da Pauline, che nel frattempo si è innamorata di lui, viene aggredito, in casa della donna, da Pollicut e da un suo scagnozzo (Mario Brega). Pur riuscendo a freddare entrambi gli assalitori (e perciò finendo di compiere la propria vendetta ai danni dell’usuraio), rimane irreparabilmente ferito alla mano destra: la legge del contrappasso subita dall’avversario si ritorce anche contro il protagonista, che, come il suo nemico tempo prima, rimane privo dell’uso dell’arto. Gli eventi precipitano. Tigrero ha preso in ostaggio i desperados (calati a valle per raggiungere i viveri promessi dallo sceriffo) e lancia l’ultima sfida a Silenzio: chi vince il duello deciderà della sorte dei prigionieri. Vanamente, Pauline cerca di dissuadere l’amato ferito e impotente. L’impari duello, in cui Tigrero è spalleggiato oltretutto da altri cinque uomini, non può che concludersi con la morte di Silenzio, di Pauline e poi col massacro dei desperados. Nel cristallo, ogni azione compiuta a fin di bene innesca una reazione di segno opposto e di intensità esponenzialmente superiore.
Un anno prima de Il mucchio selvaggio di Peckinpah (1969), Corbucci ribalta in un colpo solo tutti gli stereotipi, gli archetipi, le regole di un genere quasi sempre capace della catarsi conclusiva (anche e soprattutto partendo dalla propria opera precedente: si pensi al finale inverosimile, ma altamente catartico di Django o a quello più drammatico di Navajo Joe, dove però il villain muore), girando uno dei finali più amari, disperati e violenti della storia del western italiano e non solo.
Un ultimo tassello per completare il quadro riguarda lo statuto delle voci (e quindi anche le scelte di doppiaggio), che risulta particolarmente originale e ricco di brillanti intuizioni, a partire dal mutismo del protagonista. Laddove nel western americano, così come in quello italiano, i personaggi principali risultano miniere di sentenze e detti memorabili (5), sempre appropriati per l’occasione, Silenzio risulta pressoché unico. Il senso della sua presenza scaturisce sempre dallo sguardo, carico di passato, perennemente velato di malinconia e di un latente timore nei confronti di un mondo in cui le parole pesano e spesso sono cariche di minaccia, inganni o semplice curiosità nei confronti di un individuo diverso e, per molti versi, alieno. Il logos, infatti, anziché configurarsi come rivelazione dell’umano, in questo film assume sovente la funzione di esprimere la brutalità o la doppiezza. 

5) Basti pensare, a titolo di esempio, agli altri western di Corbucci o, ancora di più, a quelli leoniani, dove ogni battuta è e vuole essere memorabile, fino ad arrivare al personaggio di Lee Van Cleef de Il buono, il brutto, il cattivo (1966), chiamato, appunto, Sentenza.

Uniche eccezioni di rilievo: Pauline, Walter (Spartaco Conversi, il capo carismatico dei desperados) e lo sceriffo. Quest’ultimo, doppiato da Michele Malaspina, che gli conferisce una tonalità baritonale e bonaria, fin dalla prima sequenza in cui compare (quella in cui gli viene affidato l’incarico di sceriffo di Snow Hill dal governatore) risulta essere un ingenuo che pensa a voce alta e, perciò, la cui mente è un libro aperto. Tigrero ne farà un solo boccone. La Mc Gee è doppiata invece da Gabriella Genta, di 18 anni più vecchia di lei, voce matura di una donna matura, che crea un effetto di sorpresa sulle labbra dell’attrice americana, allora giovanissima, ma che le conferisce anche quella adulta intensità che solo la sofferenza può portare. 
Una menzione a parte per il caratterista Conversi, cui dà la voce il decano per antonomasia del doppiaggio italiano: Emilio Cigoli. Non a caso, Conversi è il portavoce degli oppressi, messaggero di un’istanza universale come la libertà e che per questo si esprime attraverso la tonalità senza tempo del doppiatore livornese. Corbucci dà voce agli angariati e ai giusti, ma poi gliela toglie, attraverso la figura e la parola di Tigrero. Kinski è doppiato magnificamente da Giancarlo Maestri, che gli dona una tonalità vagamente effeminata e sibilante, ambigua come quella di un demone o di una strega, le cui parole suadenti e ipnotiche sono sempre doppie, biforcute, portatrici di menzogna e di morte.
Sarà la sua parola, infatti, l’ultimo suono udibile, dopo il massacro e prima dei titoli di coda: “Ci toccano due taglie a testa. Torneremo a riscuoterle. A norma di legge”. Il signore del cristallo ha vinto e l’ultima voce che risuona, nel freddo, non può che essere la sua.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Anno: 1968
Durata: 101’
Regia: Sergio Corbucci
Soggetto: Sergio Corbucci
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Bruno Corbucci, Mario Amendola
Fotografia: Silvano Ippoliti
Montaggio: Amedeo Salfa
Musiche: Ennio Morricone
Interpreti: Jean-Louis Trintignant, Klaus Kinski, Vonetta Mc Gee, Frank Wolff, Luigi Pistilli, Marisa Merlini, Mario Brega, Spartaco Conversi

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TODO MODO - Il Petri dimenticato

18/7/2013

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Era la metà degli anni Settanta quando il Pci di Enrico Berlinguer raggiungeva l’apice del consenso elettorale, guadagnandosi l’ingresso nella maggioranza di governo. Al successo alle urne, però, si opponevano moti intestini al partito e alla sinistra tutta che, grossomodo, si dividevano tra esotismo rivoluzionario di matrice esotica – che guardava, ovviamente, alla Pechino cinese, ma anche all’Havana cubana – e insofferenza per determinati atteggiamenti moderati ed “unitari” abbracciati dalla sinistra storica. Parossismo di questi ultimi, quindi, l’elaborazione di Berlinguer relativa ad una proposta di collaborazione con le masse cattoliche organizzate dalla Democrazia Cristiana, vero e proprio preludio alla politica della “solidarietà nazionale”.
In questo periodo – scolpito dai testi inerenti al concetto di “compromesso storico” – Elio Petri realizza uno dei suoi film più controversi, grotteschi e ripudiati dagli ambienti politico-culturali italiani: Todo Modo. Girata nel 1976, l’opera filmica del regista romano rappresenta la sua seconda incursione nel mondo letterario del grande scrittore siciliano Leonardo Sciascia dopo il bellissimo adattamento di A ciascuno il suo, di nove anni prima. Il Todo Modo sciasciano, di due anni più vecchio del film, narra la plumbea vicenda di un gruppo di notabili democristiani che si riunisce nell’albergo/eremo di un ambivalente sacerdote per svolgere degli “esercizi spirituali”. In questo contesto avvengono diversi omicidi che dovranno essere risolti dal commissario Scalambri.
Tra A ciascuno il suo e Todo Modo vi sono, come accennato, nove anni di distanza e un Elio Petri che ha di molto modificato il suo stile. Se il primo adattamento da Sciascia è saldamente ancorato ai topoi della verosimiglianza, precipui del primo Petri, quello degli splendidi L’assassino e I giorni contati, il secondo appare come una caleidoscopica espressione dell’ultimo cinema realizzato dal regista: grottesca, satirica e feroce. Il Todo Modo cinematografico si distingue, quindi, per una rappresentazione sopra le righe del potere democristiano incarnato nella figura di Aldo Moro, interpretato da Gian Maria Volonté, la cui mimesi appare impressionante e greve. A lui spetta, infatti, l’arduo compito di portare sullo schermo follia e modestia di un uomo politico che «opera perché nulla muti, ma volendo dare a tutti l’idea di un continuo mutamento».
Sorretta da un triumvirato attoriale di commovente bravura, composto da Marcello Mastroianni, Mariangela Melato e dal già citato Volonté, la pellicola si divide continuamente tra polarità opposte che cercano invano un compromesso: il peccato e il perdono, la politica e la sessualità, l’esercizio del potere e il suo mantenimento ad ogni costo. A queste si aggiunge la problematica più distintamente filmica relativa alla messa in scena di un cinema politico che, senza perdere artisticità alcuna, sia in grado di “arrivare” alle masse; privo, cioè, di qualsivoglia sotterfugio monadico.
Da questo punto di vista la dicotomia tra il pensiero di Petri e la realizzazione di Todo Modo avvicina e unisce l’autore ai tormenti dei suoi personaggi – esempi di un’umanità divisa tra l’apparenza e l’essenza, tra ambizioni e realtà; ne sono simboli il Cesare de I giorni contati, il Leonardo di Un tranquillo posto di campagna e il dirigente di polizia di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto –, facendo collidere il proprio estro registico con l’idea che «il cinema non è per un’élite, ma per le masse. […] un processo dialettico che debba cominciare tra le grandi masse, attraverso i film e ogni altro mezzo possibile». Nei fatti, il cinema politico di Petri è intellettuale ma non conchiuso in se stesso, richiede uno sforzo che non appartiene alla maggioranza ma che fornisce immensa soddisfazione a chi si cimenta nella sua analisi.
Con Todo Modo si ha l’impressione di “cadere” nell’oscurità di un potere sovrano sporco e malato, che invece di essere illuminato e guidato da mano cristiana e divina è buio come le catacombe dell’eremo di Zafer che ospitano il Moro/Volonté e la sua operosa combriccola. L’importanza di quest’opera risiede nella bravura e nella tenacia con cui Petri affronta temi impervi e assolutamente sconsigliabili in un momento storico di “pacificazione” tra le parti. A causa di questo e soprattutto dell’omicidio Moro, avvenuto nel 1978, il film venne volutamente ostracizzato anche da uomini politici che, in realtà, lo apprezzarono.
Todo Modo non fa che aumentare la caratura di un regista importante e dimenticato della storia italiana, che mette in scena le paure di una classe democristiana che vede in Moro il carnefice di un’intera corrente politica in favore di una nuova, apparente, serie di equilibri ed aperture. Queste paure, nella realtà, non avrebbero fatto altro che rovesciare il ruolo del rappresentante della Democrazia Cristiana, destinato a essere vittima e martire di un periodo storico pregno di luci e ombre.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Todo Modo
Anno: 1976
Regia: Elio Petri
Sceneggiatura: Elio Petri, Berto Pelosso
Fotografia: Luigi Kuveiller
Musiche: Ennio Morricone
Durata: 130’
Uscita in Italia: 30 aprile 1976
Attori principali: Gian Maria Volonté, Marcello Mastroianni, Mariangela Melato, Michel Piccoli, Ciccio Ingrassia

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