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SHELL - Musica da camera

7/9/2013

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Immagine
Shell è ciò che trovi a metà del tuo viaggio, quando percorri le highlands scozzesi. Che tu sia una madre sola con una bambina piccola e curiosa appresso, l’unico cliente abituale nel raggio di cento miglia, un giovane innamorato o il camionista che può cambiare il corso del destino, a un certo punto ti imbatterai in Shell.
Un banale posto di ristoro, una pompa di benzina, due persone sole in un luogo deserto di vita. Una lunga strada attraversa gli spazi immensi dell’isolamento, ma da dove parta e dove conduca è mistero. Qui siamo dentro il niente, nel vuoto naturale di un paesaggio meraviglioso e malinconico, incastonato come un fermo immagine nel tempo statico dei personaggi. Pete (Joseph Mawle) e Shell (Chloe Pirrie), padre e figlia, giovani anzi giovanissimi, eppure antichi, corpi abbandonati a se stessi in abiti spenti, asessuati, anonimi e troppo grandi per le loro figure fine ed esili. Come la vita stessa, come se le highlands potessero risucchiare dentro di sé ogni anima fragile e un po’ smarrita. 
Pete subisce, non combatte, le crisi epilettiche che lo colgono all’improvviso, lasciando a Shell la responsabilità di farvi fronte, di salvarlo ogni volta, di portare avanti l’esistenza di entrambi e di provvedere alla sopravvivenza. Pete il debilitato, ambiguo padre che cova un sentimento contraddittorio verso la figlia, l’unica creatura con cui abbia un rapporto qualunque, una conversazione, uno scambio.
Shell è l’anima della storia, il cuore semplice che, colpito ma non abbattuto dalle difficoltà, catalizza verso di sé la manciata di passanti distratti, viandanti occasionali, conoscenti attratti dalla diciassettenne coi capelli lunghi capace di parole buone e gesti altruisti come un’adulta. Una ragazzina nella vita abbandonata di una anziana vedova. Una giovane che cerca l’amore e non osa rifiutarsi di provare. Shell come la protagonista, come il luogo nel quale si ferma solo chi si perde. Il passaggio. Ma verso dove.
Shell è un dramma intimista che quasi sfiora le caratteristiche dell’opera muta. Se si potesse tradurre in note, sarebbe musica da camera. La partitura individuale per Chloe Pirrie si intreccia raramente con quella di Joseph Mawle, eppure l’una dipende dall’altro in un toccante climax che condurrà entrambi a intrecciarsi, fondersi e liberarsi verso diverse forme di catarsi.
Un paesaggio ventoso, grigio, umido, dove il freddo e il soffio potente dell’aria non solo fa da sfondo alla storia, che se non è assente è quantomeno essenziale. Il paesaggio è l’atmosfera, il paesaggio è la traduzione dell’anima dei personaggi. L’esteriorizzazione dei loro stati d’animo, del loro stile di vita, spartano, asciutto e contornato di nubi minacciose cui solo in apparenza si fa l’abitudine. Il paesaggio simbolicamente crea la tensione narrativa, mentre i rumori naturali, il soffio quasi ululante del vento, la pioggia, anche uno sbattere di porta, riempie i molti silenzi, colma l’assenza di dialogo come una voce fuori campo. La voce della solitudine.
E così il garage, la baracca di poche stanze in cui Shell e Pete lavorano e vivono, diventa l’unica dimensione spaziale interna. Un angolo abbandonato che ripara dalle intemperie; disabitato di emozioni e passioni, desolato e freddo come la strada che taglia la collina da un lato e la piana d’erba dall’altro. Il garage tutto ciò che rimane della madre di Shell: è il regalo di Pete alla moglie, una eredità pesante che nel film si trasforma in un terzo personaggio, un ambiente a cui si sopravvive, che soffoca, creando per la ragazza un ruolo di donna-moglie-aiuto ingiusto e insopportabile. L’isolamento è l’attesa che il futuro si compia, in un senso o nell’altro, che il destino arrivi, che una luce, un passaggio, uno sconosciuto, suoni l’ora della resa, o della fuga.
Veramente notevole la regia di Scott Graham, che ha l’occhio sensibile per fare della Scozia erbosa e lontana una location originale e lontana dalle ambientazioni urbane cui ci hanno abituati certi film inglesi contemporanei. Graham cita la trilogia del cineasta Bill Douglas come una delle sue maggiori ispirazioni nella costruzione scenica e dello spazio, nel legame che si instaura tra personaggi, paesaggi e stati d’animo. Il senso di straniamento è delicatamente sottolineato dal modo in cui i personaggi interagiscono: parlano poco, e raramente si toccano. Lo spazio fisico appartiene solo a un corpo e solo sporadicamente viene attraversato da un altro. È forse questo l’aspetto più intrigante seppur malinconico del film, nella rappresentazione della solitudine cui concorrono tutti di elementi filmici: gli attori, intensi e rudi, una fotografia dai colori freddi e naturali, una sceneggiatura ridotta all’osso, l’eco della natura. 
Tutto si unisce, e sotto la direzione di Scott Graham si disgiunge, per creare l’immagine dell’isolamento interiore. Con una nota di speranza: se c’è una strada, quella strada conduce da qualche parte. Chissà dove. Sicuramente altrove.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Shell
Regia: Scott Graham
Attori: Chloe Pirrie, Joseph Mawle
Sceneggiatura: Scott Graham
Fotografia: Yoliswa Gärtig
Montaggio: Rachel Tunnard
Anno: 2012
Durata: 87'

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