L’innocenza, la purezza contaminata e deflagrata da quella materia che non si scalderà mai, che per sempre rimarrà priva di calore; è la forma della metafora dell’assenza di legami e del vivere una vita algida, in cui i sentimenti sono elementi accessori, di contorno, un vuoto che non necessita di essere colmato.
Dal buio emergono sussulti e grida, all’occhio non è concesso vedere, ma tra il fragore dell’infrangersi di ceramiche e vetri, l’amore si confonde con la ferocia umana. Il primo sguardo offerto allo spettatore dalla mdp è distante, si apre nell’oscurità, è statico, fermo e gelido, distaccato; in un’altra stanza due corpi lottano, avvinghiati l’uno all’altra, nella brutalità di un rapporto sessuale che nasce dalla violenza.
Michèle (Isabelle Huppert) è granitica, la morte le ruota intorno senza mai scalfirla, l’accompagna in una danza che, a passo cadenzato e sinuoso, scivola tra gli interspazi dei rapporti affettivi vacui e privi di qualsiasi fiamma, in un lavoro di sottrazione anaffettiva. Nulla tocca l’anima e nel passaggio tra le immagini qualcosa rimane sulla pelle, una sensazione di gelo. È una deambulazione, nel flusso vitale, lenta e siderale, acuita dalla messa in scena di Paul Verhoeven, dalle angolazioni scelte per inquadrare l’azione, ora oblique e in diagonale, là dove il suo sguardo si insinua tra le dinamiche più intime, quasi con un atteggiamento velatamente voyeuristico, ora bidimensionali, nello sforzo volontario di gelare e fermare l’immagine in un istante glaciale, quando le parole e i gesti di Michèle si fanno più rigidi, crudi e inaspettati.
La matrice di tutto è la violenza. Tutto nasce dalla relazione tra amore e brutalità, in continua lotta tra loro, confondendosi nel rapporto genitoriale, dapprima come figlia e poi come madre, ed in tutte le relazioni sociali, continuamente minate sin dalle loro fondamenta. Si instaurano una serie di rapporti che rasentano quello tra vittima e carnefice, in cui però le due figure si alternano in continuazione; George Bataille spiega: “abitualmente il carnefice non usa il linguaggio di quella violenza da lui esercitata nel nome di un potere costituito, ma usa il linguaggio del potere, che apparentemente lo scusa, lo legittima e gli offre una giustificazione elevata” (1).
1) George Bataille, L’Erotisme, Editions de Minuit, 1957, pp. 209-210
Il potere esercitato da Michèle è legato agli affetti, quelli più prossimi e cari, diretto alle relazioni profonde; è un esercizio di sottile ed acuta violenza, con il padre, con la madre e non ne rimane escluso nemmeno il figlio, grazie a un imprinting feroce e a quell’infanzia legata a un “linguaggio che sconfessa la relazione tra colui che parla e coloro a cui il discorso è diretto” (2).
Elle, è lei, slegata da qualsiasi appartenenza sentimentale, concentrata su se stessa, in un monologo costante; più indentificabile con il Je che con la terza persona, ma di certo, come questa, distaccata ed al centro di un ragionamento laterale, sempre e necessariamente solitario, rinchiusa nel suo solipsismo esistenziale. Come la tarantola, nella scena di apertura del Quarto uomo, che si muove indisturbata sul crocifisso, anche Elle è la lacerazione tra gli assiomi sociali e le regole religiose, minando il tessuto della famiglia borghese; Lei, tanto amata e protetta dalle persone più prossime, quanto umiliata e colpevolizzata dalla società che la circonda.
Ancora una volta Paul Verhoeven si mostra caustico e duro nel dipingere rapporti familiari e sociali, come lo era stato anche con la famiglia del suo sperimentale Steekspel, tra le sue ultime opere, tratteggiando, con sapienti pennellate, un affresco cinico e grottesco che sfocia, a tratti, nella commedia, secondo l’uso comune a un certo cinema francese, come quello chabroliano. L’accanimento, in maniera del tutto ingiustificata, contro il parafanghi dell’auto dell’ex-marito, il cameriere che arriva con la bottiglia di champagne nel momento sbagliato, ma anche alcune sfumature tra l’ironia e la sensualità sopra le righe, ricordano allo spettatore quanto il registro linguistico verhoeviano sia intriso di sarcasmo deflagrante.
Dopo Basic Instinct, il regista olandese torna a soffermarsi sulla glacialità femminile, in un ritratto di donna sicura di se, desiderante e non priva di una passionalità intrinseca e contraddittoria. I rapporti che Michèle/Elle intesse con l’altro sesso, ma non solo, hanno una venatura che sfocia a tratti nella malattia. Il suo desiderio è anarchico, si accende davanti al proibito, il piacere deve essere soddisfatto da quelle pulsioni in cui Eros si combina con Thanatos, “al punto che la distruzione, il negativo nella distruzione, si presenta necessariamente come il contrario di una costruzione o di una unificazione sottoposta al principio di piacere” (3).
2) ibidem
3) Gilles Deleuze, Il freddo e il crudele, pag 33, SE, Milano, 2007
Il senso di morte e di (auto)distruzione, come componente imprescindibile, è manifestazione della libertà del cinema di Paul Verhoeven, declinata in tutte le sue varianti, talmente estremizzata da divenire vitale, scardinando qualsiasi allegoria predeterminata e allontanandosi dai territori moraleggianti, marcati e salvaguardati dalle regole sociali.
Così la vittima e il carnefice scambiano i propri ruoli, in un sottile gioco erotico di sensuale provocazione, in una sfida in cui l’aggressività detta le regole ed è la matrice fondamentale del rapporto di Michèle con il mondo. L’uomo nero, dapprima boia, diventa oggetto del desiderio di Elle e poi succube del suo gioco, in una vendetta dai contorni indefiniti e indefinibili, in bilico tra un amplesso cercato e la spiazzante distruzione del concetto di coppia.
Si rincorre il tentativo di uccidere il desiderio, in quello che vorrebbe essere un delitto perfetto, con l’irriverenza tipica del linguaggio filmico adottato dal regista, seguendo coordinate a volte prive di spiegazione e di logica, destabilizzando lo sguardo dello spettatore attraverso un’ambiguità di fondo e repentini, quanto inattesi, cambio di registro. Elle tenta di uccidere il suo violentatore, nei suoi sogni/incubi e nella realtà; quelle forbici che nel Quarto Uomo erano la metafora della castrazione del piacere, qui sono l’allegoria di un’ossimorica morte vitale, che non è fine, come nell’hitchcockiano Dial M for Murder, ma principio di un sadomasochistico rapporto a due con il proprio carnefice.
La filmica verhoeveniana è una materia polimorfa, un fluido magmatico di pulsioni, sessuali e vitali, perché nulla è più vitale della morte, un assunto che, nel suo essere contraddittorio, da solo riesce nell’intento di rendere la vita più vera. Il regista gioca con l’equivocità e la plurivocità di significati e significanti, sovvertendo le metriche di fruizione dello sguardo, forse per puro divertimento o forse perché semplicemente non c’è nulla di più sovversivo e sedizioso della vita stessa.
Mariangela Sansone
Sezioni di riferimento: Eurocinema, Cannes 69, Torino 34, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Elle
Regia: Paul Verhoeven
Sceneggiatura: David Birke
Attori: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling
Anno: 2016
Durata: 130’
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musica: Anne Dudley
Uscita italiana: 23 marzo 2017
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