La piccola Carmen, rimasta orfana della madre morta dandola alla luce, viene allevata dalla nonna. Il padre è un ex torero famoso in tutta l’Andalusia, costretto su una sedia a rotelle in seguito a un tragico incidente avvenuto durante la sua ultima corrida, e risposatosi con una ex infermiera che lo ha voluto per marito solo per biechi interessi economici. Alla morte della nonna materna Carmencita viene ospitata nell’enorme e tetra magione del padre, che non ha mai conosciuto in precedenza, dove è sottoposta alle angherie della crudele matrigna. La ragazza recupera finalmente il rapporto col padre che in segreto le insegna l’antica arte della tauromachia, prima di essere eliminato dalla moglie che mira a sbarazzarsi anche dell’odiata figliastra, salvata appena in tempo da una compagnia girovaga di nani. Ben presto Carmen diviene un’abile e famosa torera ma i guai per lei non sono ancora finiti.
Pablo Berger, qui al suo secondo lungometraggio, prova a cavalcare il successo di critica e pubblico riscosso appena un anno prima da Michel Hazanavicius con The Artist, omaggio al cinema muto in parte sentito in parte studiato a tavolino con estrema furbizia, che ha permesso al regista francese di aggiudicarsi ben 5 Premi Oscar. L’operazione di Berger pare decisamente più genuina perché, sebbene coniughi le atmosfere fiabesche tornate prepotentemente di moda in questi ultimi anni a una certosina e accurata ricostruzione filologica delle produzioni cinematografiche antecedenti all’avvento del sonoro, ha l’ardire e l’intuizione di dare un’impronta fortemente autoctona al suo film, senza omaggiare e corteggiare il grande cinema hollywoodiano del passato come accadeva in The Artist dove Jean Dujardin evocava da subito la figura di Gene Kelly. Infatti, attraverso una fotografia calda e luminosa e una colonna sonora dove riecheggiano brani di flamenco e ritmi tradizionali andalusi, il cineasta iberico guarda in maniera romantica alla Spagna del passato, restituendo sullo schermo un’immagine quasi da cartolina che non stona e non infastidisce più di tanto, dato che si tratta pur sempre di una rivisitazione di una delle fiabe più conosciute al mondo, che quindi non deve attenersi ai rigidi schemi della verosimiglianza.
L’estetica del cinema muto è ben riprodotta grazie al ricorso a una recitazione volutamente enfatica e a una musica d’accompagnamento finalizzata al coinvolgimento emotivo dello spettatore, con l’uso di temi cupi nei momenti più drammatici alternato a temi leggeri e brillanti nei momenti più distensivi.
Nell’incipit di Blancanieves si apre un sipario rosso, unica concessione al colore, per lasciare spazio ai titoli di testa e a un prologo ambientato nell’arena che ritroveremo anche nella magnifica parte finale del film, con l’immancabile mela rossa avvelenata e l’aggiunta di uno dei nani del gruppo, che qui sono sei e non sette, invidioso e maligno, che saprà comunque riscattarsi prima che la vicenda arrivi alla sua conclusione.
Convince la scelta di Berger di mantenersi fedele allo spirito della fiaba a cui s’ispira, seppur in un contesto completamente diverso e con una sostanziale e coraggiosa modifica che non prevede un conciliatorio happy end ma un malinconico, struggente e intenso epilogo con una Biancaneve trasformata in uno spettacolo da baraccone dall’avidità del suo impresario. Un mondo crudele e senza principe azzurro, sostituito da un nano dolce e gentile, con lo sguardo intristito dal freak show a cui è costretto a prendere parte e che evoca un suggestivo rimando all’epocale Freaks di Tod Browning.
Boris Schumacher
Sezione di riferimento: Eurocinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Blancanieves
Anno: 2012
Regia: Pablo Berger
Sceneggiatura: Pablo Berger
Fotografia: Kiko de la Rica
Musiche: Alfonso de Vilallonga
Durata: 104’
Interpreti principali: Maribel Verdú, Daniel Giménez Cacho, Ángela Molina, Macarena García.