Fra le fronde del bosco “buio e silenzioso” in cui si rifugiano i due sopravvissuti di Ananke aleggia infatti un perenne senso di morte, che non è soltanto il riflesso di un mondo sconfitto dalla pandemia che spinge al suicidio ogni uomo che tenti di stabilire un contatto con il suo prossimo: è una sorta di condizione esistenziale, la solitudine “dura e necessaria” che la protagonista evoca nelle sue lettere-monologo a una madre di cui non ha più notizia.
Le lusinghe con un possibile genere fantasy, però, si fermano qui, e spianano la strada a un dramma umano che cerca, nel rigore a tratti un po' forzato delle sue inquadrature, una possibilità espressiva in grado di riflettere ed elaborare il vuoto interiore di un'umanità che ha esteriorizzato la sua incapacità di stare al mondo. Per questo le azioni appaiono una vuota coazione a ripetere gesti essenziali: muoversi, mangiare, dormire. L'obiettivo è la mera occupazione di uno spazio d'adozione, dopo aver perso quello d'origine, e allora Ananke lascia parlare il resto, le mura fatiscenti, la natura che potrebbe apparire soverchiante ma si ritrova invece contorno, dimessa e muta partecipe della solitudine.
L'intento è quello di un cinema semplice nelle sue forme, aperto a una possibile fruibilità anche universale, che possa così fare a meno del dialogo: sebbene non sia un film propriamente muto, le poche parole pronunciate dai protagonisti in un francese un po' fittizio (l'orecchio allenato può percepire non trattarsi di due madrelingua) restituiscono un senso di alterità, di un superfluo, orientato nei casi migliori – come le già evidenziate lettere alla madre – a un orizzonte altro rispetto alle quattro mura o gli spazi circostanti la casa-rifugio.
In tutto questo, i possibili punti di fuga sono rappresentati dagli elementi vivificatori, l'eponima capretta Ananke (da cui i due personaggi traggono il latte utile a sopravvivere) o la bambina che la donna porta in grembo. Ma entrambi sono anche elementi di risonanza del dramma, catalizzatori di possibilità che i due protagonisti sembrano quasi sfuggire: il che porta naturalmente a chiedersi se di fuga per la vita realmente si tratti per i personaggi, o piuttosto di un crogiolarsi in una vuotezza dell'anima anche un po' cercata. Una sorta di terapia che diventa però immersione nel proprio ventre oscuro. Come quelle lettere inviate a una madre che in fondo si teme (si sospetta?) già morta. O quella bambina data infine alla vita e subito abbandonata, per timore di instaurare un legame che potrebbe essere foriero di altra morte, e che riapre così il gioco di disperazione alla base della storia.
La risposta sta nell'elaborazione finale, affidata a un lirico e vibrante dettaglio degli occhi della donna, bagnati dalle ultime lacrime.
Davide Di Giorgio
Sezione di riferimento: Eurocinema
Scheda tecnica
Regia: Claudio Romano
Sceneggiatura: Claudio Romano, Elisabetta L'innocente
Attori: Marco Casolino, Solidea Ruggiero
Fotografia: Juri Fantigrossi
Montaggio: Ilenia Zincone
Durata: 69’
Anno: 2015