Il grande silenzio è girato nell’inverno del ‘67 sulle Dolomiti ampezzane, che hanno il compito di raffigurare le montagne dello Utah (si potrebbe trattare dei Monti Wasatch, più che delle Montagne Rocciose (2), che interessano solamente in via marginale i confini orientali dello stato), ma l’ambientazione americana è ancora una volta, come nel caso della grande maggioranza dei western italiani, un pretesto per giocare col genere fondativo del racconto cinematografico statunitense e per rielaborarne e contaminarne i temi, gli assunti, il linguaggio, gli archetipi fino a renderli irriconoscibili o completamente stravolti.
Lo spazio ambientale risulta, a un tempo, aperto e immenso, ma anche claustrofobico e labirintico: un’immensa struttura cristallina raggelata e raggelante, all’interno della quale si muovono con estrema lentezza e fatica – quasi a enfatizzare la lunghezza dei percorsi e l’incolmabilità delle distanze – senza vie di uscita, dei relitti umani costretti dalla legge all’esilio in quei luoghi desolati, mentre le montagne innevate incombono da vicino, oppure chiudono l’orizzonte da lontano e, con esso, qualsiasi possibilità di fuga (3).
I padroni assoluti di questi luoghi, dell’immenso cristallo ghiacciato, sono i cacciatori di taglie capitanati dal crudele Tigrero (un Klaus Kinski quanto mai in parte). Nei boschi e nelle vallate si muove però anche una figura solitaria, che sembra provenire dall’esterno del cristallo e che vi entra senza remore o paura. È un pistolero che tutti i bounty killer temono: si fa chiamare Silenzio (Jean-Louis Trintignant). Il paesaggio, oltre a tratteggiare l’atmosfera algida e plumbea che conferisce tono e spessore alla vicenda narrata, si configura come spazio mentale e allucinatorio, luogo ai confini della realtà, dove quest’ultima tracima nell’incubo e dove i personaggi sembrano muoversi come automi privi di meta o, meglio, come animali selvaggi in gabbia, prede delle loro pulsioni e bisogni primari, o del loro tragico destino, e quasi tutti privi della scintilla dell’umano.
1) È l’ottavo, in realtà, se si prende in considerazione anche Massacro al Grande Canyon, del 1964, iniziato peraltro da Albert Band (aka Alfredo Antonini).
2) Nel 1992, Renny Harlin e Sylvester Stallone gireranno per intero gli esterni del loro Cliffhanger (ambientato sulle Rocky Mountains) proprio sulle Dolomiti ampezzane, considerate più scenografiche: quando gli italiani fanno scuola, storia (del cinema) e geografia.
3) Non è la prima volta che Corbucci chiude i suoi personaggi all’interno di un ambiente inospitale e, soprattutto, senza vie d’uscita: basti pensare alle sabbie mobili (e all’esile e pericolante ponte che le sormonta) che bloccano il passaggio per e da Tombstone in Django (1966).
Dopo la sequenza iniziale, in cui viene presentato Silenzio, la sua abilità con la pistola (estrae per secondo e spara per primo con la sua Mauser) e la sua collocazione attanziale come protagonista, in quanto difensore degli oppressi, cioè dei desperados che vivono sulle montagne in attesa dell’amnistia, la vicenda trova il suo fulcro nella cittadina di Snow Hill, il centro del cristallo. È qui che si incroceranno le strade dei personaggi principali e che si compiranno i loro destini.
A Snow Hill il potere economico, giudiziario e decisionale è rappresentato dal viscido Pollicut (Luigi Pistilli), usuraio e giudice di pace, di fatto un mandante e un finanziatore dei cacciatori di taglie. È tramite l’uso che egli fa del suo denaro che si compiono le sorti dei malcapitati abitanti della cittadina, costretti alla povertà, conseguentemente all’illegalità e quindi all’esilio forzato sulle alture innevate (gli uomini), oppure alla solitudine, all’attesa e ai soprusi dei bounty killer o di Pollicut stesso (le madri e le mogli dei ricercati). A Snow Hill vive anche Pauline (interpretata dall’attrice nera, allora semisconosciuta, Vonetta Mc Gee, un vero e proprio colpo di genio di Corbucci, che le affida la parte della figura femminile principale e un personaggio di donna sfaccettato e tragico, cosa rara per il western italiano), vedova di un uomo ucciso da Tigrero e ansiosa di compiere la propria vendetta.
L’assenza della legge nel piccolo centro sembra poter essere colmata dall’arrivo dello sceriffo Gideon Corbett (Frank Wolff), mandato dalle autorità centrali per ripristinare l’ordine in attesa della fantomatica amnistia. Corbett, pur sembrando impacciato, goffo e apparentemente un po’ tonto, in realtà è un buon pistolero, un uomo onesto e non è uno stupido. Capisce subito qual è la realtà di Snow Hill e ne prende le distanze, cercando di svolgere al meglio il proprio lavoro. Esattamente come gli altri sceriffi dei western precedenti e successivi di Corbucci, è un uomo probo, un guardiano della legge senza tentennamenti né dubbi, calato in un mondo primitivo, selvaggio e per molti versi pre-umano, in cui l’unico codice riconosciuto è quello della predazione. Il suo rigido atteggiamento di detentore delle regole, implicitamente ancorato a una concezione del mondo monolitica e ottusa, costerà caro a lui e ad altri, come vedremo.
Nella struttura del cristallo non vi è spazio per la speranza, il riscatto o la catarsi – punto questo di totale rottura con la produzione western corbucciana precedente e anche successiva, a parte forse I crudeli (1967) – dato che in essa si può solo entrare, mai uscire, e dove il destino di ogni personaggio (a parte ovviamente la demoniaca figura di Tigrero) appare dolorosamente segnato e legato da un filo rosso con quello degli altri. Ecco perché Silenzio, nonostante la propria abilità, non ne uscirà vivo: egli è lì a Snow Hill per il volere del Fato, che si incarna nelle figure di Pollicut, Pauline e Corbett. Ognuno di loro vincola infatti gli altri personaggi portanti della vicenda alle proprie scelte e comportamenti, innescando la reazione a catena che farà precipitare gli eventi. Silenzio per primo sarà risucchiato in questa spirale mortifera.
4) Metodo di neutralizzazione dei propri avversari che Silenzio utilizza anche altrove, nel corso del film, e che costituisce un segno distintivo del suo modo di operare nonché della sua “etica professionale”.
È un messaggio di Pauline, comunque, a far giungere il protagonista nella cittadina. La donna vuole vendicare l’uccisione del marito e solo Silenzio pare in grado di attuare il contrappasso: la sua fama di vendicatore degli oppressi risplende nel cristallo. Infine, sono tre scelte decisive ed esiziali compiute dallo sceriffo – ancorché in buona fede, e, forse, per questo ancor più marcatamente espressione di un destino tragico e ineluttabile – a innescare il rovinoso e meccanico procedere degli avvenimenti verso la catastrofe: durante un confronto fra Silenzio e Tigrero, di fatto impedisce al primo di liberarsi definitivamente dell’avversario, arrestando il bounty killer; successivamente dà ordine agli abitanti della cittadina di approntare un carro di viveri per i desperados, in modo tale da sfamarli e tenerli buoni fino all’amnistia, nonché per scongiurare ulteriori violenze; infine, decide di scortare, da solo, Tigrero ad una prigione più sicura. Durante il tragitto però Tigrero, con uno stratagemma, lo inganna e lo uccide. La libertà del vile individuo è l’inizio della fine.
Silenzio, intanto, ospitato da Pauline, che nel frattempo si è innamorata di lui, viene aggredito, in casa della donna, da Pollicut e da un suo scagnozzo (Mario Brega). Pur riuscendo a freddare entrambi gli assalitori (e perciò finendo di compiere la propria vendetta ai danni dell’usuraio), rimane irreparabilmente ferito alla mano destra: la legge del contrappasso subita dall’avversario si ritorce anche contro il protagonista, che, come il suo nemico tempo prima, rimane privo dell’uso dell’arto. Gli eventi precipitano. Tigrero ha preso in ostaggio i desperados (calati a valle per raggiungere i viveri promessi dallo sceriffo) e lancia l’ultima sfida a Silenzio: chi vince il duello deciderà della sorte dei prigionieri. Vanamente, Pauline cerca di dissuadere l’amato ferito e impotente. L’impari duello, in cui Tigrero è spalleggiato oltretutto da altri cinque uomini, non può che concludersi con la morte di Silenzio, di Pauline e poi col massacro dei desperados. Nel cristallo, ogni azione compiuta a fin di bene innesca una reazione di segno opposto e di intensità esponenzialmente superiore.
Un anno prima de Il mucchio selvaggio di Peckinpah (1969), Corbucci ribalta in un colpo solo tutti gli stereotipi, gli archetipi, le regole di un genere quasi sempre capace della catarsi conclusiva (anche e soprattutto partendo dalla propria opera precedente: si pensi al finale inverosimile, ma altamente catartico di Django o a quello più drammatico di Navajo Joe, dove però il villain muore), girando uno dei finali più amari, disperati e violenti della storia del western italiano e non solo.
Un ultimo tassello per completare il quadro riguarda lo statuto delle voci (e quindi anche le scelte di doppiaggio), che risulta particolarmente originale e ricco di brillanti intuizioni, a partire dal mutismo del protagonista. Laddove nel western americano, così come in quello italiano, i personaggi principali risultano miniere di sentenze e detti memorabili (5), sempre appropriati per l’occasione, Silenzio risulta pressoché unico. Il senso della sua presenza scaturisce sempre dallo sguardo, carico di passato, perennemente velato di malinconia e di un latente timore nei confronti di un mondo in cui le parole pesano e spesso sono cariche di minaccia, inganni o semplice curiosità nei confronti di un individuo diverso e, per molti versi, alieno. Il logos, infatti, anziché configurarsi come rivelazione dell’umano, in questo film assume sovente la funzione di esprimere la brutalità o la doppiezza.
5) Basti pensare, a titolo di esempio, agli altri western di Corbucci o, ancora di più, a quelli leoniani, dove ogni battuta è e vuole essere memorabile, fino ad arrivare al personaggio di Lee Van Cleef de Il buono, il brutto, il cattivo (1966), chiamato, appunto, Sentenza.
Uniche eccezioni di rilievo: Pauline, Walter (Spartaco Conversi, il capo carismatico dei desperados) e lo sceriffo. Quest’ultimo, doppiato da Michele Malaspina, che gli conferisce una tonalità baritonale e bonaria, fin dalla prima sequenza in cui compare (quella in cui gli viene affidato l’incarico di sceriffo di Snow Hill dal governatore) risulta essere un ingenuo che pensa a voce alta e, perciò, la cui mente è un libro aperto. Tigrero ne farà un solo boccone. La Mc Gee è doppiata invece da Gabriella Genta, di 18 anni più vecchia di lei, voce matura di una donna matura, che crea un effetto di sorpresa sulle labbra dell’attrice americana, allora giovanissima, ma che le conferisce anche quella adulta intensità che solo la sofferenza può portare.
Una menzione a parte per il caratterista Conversi, cui dà la voce il decano per antonomasia del doppiaggio italiano: Emilio Cigoli. Non a caso, Conversi è il portavoce degli oppressi, messaggero di un’istanza universale come la libertà e che per questo si esprime attraverso la tonalità senza tempo del doppiatore livornese. Corbucci dà voce agli angariati e ai giusti, ma poi gliela toglie, attraverso la figura e la parola di Tigrero. Kinski è doppiato magnificamente da Giancarlo Maestri, che gli dona una tonalità vagamente effeminata e sibilante, ambigua come quella di un demone o di una strega, le cui parole suadenti e ipnotiche sono sempre doppie, biforcute, portatrici di menzogna e di morte.
Sarà la sua parola, infatti, l’ultimo suono udibile, dopo il massacro e prima dei titoli di coda: “Ci toccano due taglie a testa. Torneremo a riscuoterle. A norma di legge”. Il signore del cristallo ha vinto e l’ultima voce che risuona, nel freddo, non può che essere la sua.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Eurocinema
Scheda tecnica
Anno: 1968
Durata: 101’
Regia: Sergio Corbucci
Soggetto: Sergio Corbucci
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Bruno Corbucci, Mario Amendola
Fotografia: Silvano Ippoliti
Montaggio: Amedeo Salfa
Musiche: Ennio Morricone
Interpreti: Jean-Louis Trintignant, Klaus Kinski, Vonetta Mc Gee, Frank Wolff, Luigi Pistilli, Marisa Merlini, Mario Brega, Spartaco Conversi