Si capisce che a una come Mary vada di traverso anche l’umiliazione di offrirsi in moglie a un contadino che non sa nemmeno rispettare le norme della buona tavola. Lei è una che sta retta sulle proprie gambe, più e meglio di chiunque altro. Mary Bee Cuddy porta gonna e pantaloni, e sarà anche una zitella ma non c’è nulla – tranne un marito - che le manchi. In un territorio spinoso e respingente, che si presenta più come un deserto, una landa selvaggia dove la legge del più forte è anche la legge degli uomini, Mary si carica della responsabilità di scortare tre donne ritenute “matte” dalla comunità da cui sono state cacciate, dal Nebraska fino all’Iowa, dove qualcuno potrà aver cura di loro. La compassione, ma anche la consapevolezza di sé, muove la caparbia Mary. L’incontro con il vagabondo George Biggs (Tommy Lee Jones) sarà provvidenziale per entrambi. Mary e George intraprenderanno un viaggio difficile in una terra senza coordinate, un percorso segnato in qualche modo dalla fede, che si tratti di Dio o di un raggio di sole. Che sia la polvere mossa dal vento, o il ricordo di una perdita dolorosa. La speranza è tutto, quando nulla più, neppure la sanità mentale, rimane.
A nove anni dalla regia de Le tre sepolture, Tommy Lee Jones torna a raccontare il west. Lo fa con toni più delicati e una differente ricerca stilistica, cambiando quadro, soggetti, storia, ma mantenendo il senso di devozione e rispetto per un genere che ancora oggi ha ancora molto da dire. Il suo west è quasi minimalista, sicuramente essenziale. Freddo, ventoso, giocato molto sui colori naturali. Sembra quasi che il regista si sia impegnato in un percorso di sottrazione: quasi non c’è città, e le case sono smarrite in territori che di conquista non hanno più nemmeno la suggestione. Cieli aperti e vaste, vastissime piane, sporche e aride, un deserto che si distende a perdita d’occhio. Tutto manca, e il vuoto che si scava nei personaggi è impietoso, in questa loro ricerca di un approdo, ovunque, con chiunque sia.
È forse questo che rimane del west cinematografico: il progresso inarrestabile, praterie polverose, la solitudine umana e un hotel celeste, simile a una chiesa, frequentato da vigliacchi con l’abito di gentiluomini. La nuova America che si erge dove una volta regnava il sogno di John Ford è una delusione, è come la fine di un mito. E allora evviva George Biggs, quel figlio di buona donna, che non ha le maniere ma ha il senso dell’onore, e vive ancora secondo le proprie regole. Uno cui è stata data in dono, letteralmente, una seconda occasione, e che farà di tutto per meritarla.
The Homesman è un film molto maschile per taglio e durezza, ma il nodo di tutto è il femminile. Pur divertendosi a inserire camei di star come James Spader o Meryl Streep, Tommy Lee Jones non perde mai di vista le sue protagoniste. Si affida a tre caratteriste molto empatiche nella definizione tutta fisica dei loro personaggi (Miranda Otto, Grace Grummer, Sonja Richter) e, soprattutto, consegna a Hilary Swank la responsabilità di traghettare il film, come una carovana, da una sponda all’altra.
La Swank ci ha abituati a calarsi in personaggi come Mary Bee Cuddy: donne forti, complesse, che prendono da sé le loro decisioni, padrone del proprio destino. C’è qualcosa in Mary che la connette subito con i personaggi di Brandon Teena (Boys Don’t Cry) o Mary Fitzgerald (Million Dollar Baby), solo per citare i ruoli che le hanno portato i due Oscar come migliore attrice. Persone ai margini, disperate di andare incontro al proprio futuro, di ribaltarlo, di dargli una forma sensata, più vera e più autentica. Anche la Mary di The Homesman non è diversa. D’altra parte, queste sono le facce spigolose e volitive di Hilary Swank, che colleziona ruoli di combattenti, indipendenti e fiere, eroine tragiche della propria vita. Quello di Mary è quindi il ruolo su misura, e lei è così a suo agio nel tessere la sottile dimensione psicologica, così immersa nella parte, naturale e sotto le righe, da far apparire la sua splendida performance nient’altro che la norma.
Quelle di The Homesman sono donne che il cinema sembra non amare molto, se sempre più spesso ci propone protagoniste che dividono amabilmente la scena con la star (maschile) di turno. Eppure sono queste le donne di cui è bello scrivere. Un ritratto femminile, più che femminista, perché fuori dalle ideologie ne racconta la condizione umana e ne esalta il coraggio, ne difende le scelte.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Torino 32
Scheda tecnica
Regia: Tommy Lee Jones
Sceneggiatura: Tommy Lee Jones, Kieran Fitzgerald, Wesley A. Oliver, Miles Hood Swarthout (dal romanzo di G. Swarthout)
Interpreti: Hilary Swank, Tommy Lee Jones, James Spader, Meryl Streep, Miranda Otto, Grace Grummer
Fotografia: Rodrigo Prieto
Scenografia: Merideth Boswell
Musiche: Marco Beltrami
Durata: 122 min.
Anno: 2014